mercoledì 8 luglio 2009

Lettera aperta al papa Benedetto XVI perché non riceva Berlusconi in udienza né pubblica né privata dopo il G8 dell’Aquila

"Con sgomento apprendiamo dalla stampa l’eventualità che lei possa
concedere udienza privata all’attuale presidente del consiglio
italiano, Silvio Berlusconi. Egli per parare il diluvio di
indignazione e disprezzo che gli si è scatenato contro a livello
mondiale per i suoi comportamenti indecenti che sono anche la
negazione della morale cattolica che tanto sbandiera nei suoi
deliranti proclami, ha fatto capire che dopo il G8 cercherà di
strappare alla Santa Sede un incontro con il Pontefice a conclusione
del summit dell’Aquila. L’unico modo, a suo giudizio, per «troncare le
polemiche».
Mons. Mariano Crociata, segretario della Cei, senza fare riferimenti
personali, ha detto parole gravi che avremmo voluto ascoltare già da
tempo, ma non è mai troppo tardi. Il segretario della Cei afferma che
stiamo assistendo «ad un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò
che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un
libertinaggio gaio e irresponsabile». Non si deve quindi pensare che
«non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari
privati, soprattutto quando sono implicati minori» (Omelia in memoria
di Santa Maria Goretti, a Latina 5 luglio 2009).
Sì, perché tra le varie sconcezze del presidente del consiglio
(compagnia con donne a pagamento), vi sono riferimenti precisi di
rapporti con minorenni (testimonianza della moglie) e di cui il
presidente ha dato diverse differenti letture, nonostante abbia
spergiurato sulla testa dei figli.
Le parole del segretario della Cei hanno toccato nel segno la
depravazione in cui è caduta la presidenza del consiglio italiana,
disperatamente alla ricerca di un salvagente per salvare la faccia e
offendere il mondo civile e cattolico con lo show dell’udienza. A
Silvio Berlusconi nulla importa del papa e della Chiesa cattolica e
della sua morale come della dottrina sociale, a lui interessa di farsi
vedere «urbi et orbi» insieme al papa e così cercare di parare le
richieste pressanti che da tutto il mondo arrivano perché esca di
scena dignitosamente, se ne capace.
La supplichiamo, per amore della sua e nostra Chiesa, che è ancora
inorridita e scossa, non lo riceva pubblicamente né privatamente
perché lei darebbe un colpo mortale alla credibilità della gerarchia
della Chiesa che ha preso posizione solo dopo la mobilitazione del
mondo cattolico e del mondo civile che in internet ha raggiunto
livelli di esasperazione molto elevati.
Se lo riceve, la visita sarà usata strumentalmente per dire che il
papa è con Berlusconi e quindi tutte le sue ignominie, depravazioni e
corruttele troverebbero facile copertura morale. La morale che lei
dovrebbe rappresentare diventerebbe una farsa di copertura
dell’immoralità di un uomo presuntuoso e malato che ancora non si è
degnato di rispondere pubblicamente del suo operato come ha chiesto la
libera stampa, mentre è andato in tv dove senza contraddittorio, ha
esaltato le sue gesta di corrotto corruttore, aggiungendo sprezzante a
sua giustificazione che «la gente mi vuole così».
Inevitabilmente lei diventerebbe complice agli occhi dei fedeli
semplici e dei non credenti ancora attenti alla Chiesa. In nome di Dio
e della dignità del nostro popolo e della serietà dell’etica non lo
riceva, perché se lo riceve, lei perderà moltissimi fedeli che già
sono sulla soglia".
In fede
Paolo Farinella, prete


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(8 luglio 2009)

lunedì 15 giugno 2009

Chi è veramente Elio Letizia?

ISSO, ESSA E 'A MALAVITA

di ROSITA PRAGA [ 29/05/2009]


A Napoli gli investigatori della Direzione Antimafia stanno indagando sui possibili collegamenti fra Elio Benedetto Letizia, il padre dell'ormai celebre Noemi, e il ceppo che a Casal di Principe ha visto per anni egemone il clan capitanato da Armando, Giovanni e Franco Letizia, gruppo di fuoco del boss Giuseppe Setola, area Bidognetti. Tutti alleati degli Scissionisti di Secondigliano. Qui, nell'attesa di sviluppi giudiziari, proviamo a mettere in fila alcune impressionanti coincidenze, con le tessere di un puzzle che vanno al loro posto una dopo l'altra. Ed un Paese che, se le ipotesi investigative fossero confermate, si troverebbe a dover raccogliere la sfida finale.


Potrebbe suonare solo come un'omonimia, un cognome strano, uguale al nome di una donna. E che ricorre. Poi il cerchio delle coincidenze comincia a stringersi. E prende corpo l'ipotesi che Benedetto Letizia detto Elio, padre dell'aspirante starlette Noemi, lungi dall'essere mai stato autista di Craxi o militante di Forza Italia o qualsiasi altra boutade messa in circolazione, sia originario dello stesso ceppo di Casal di Principe dal quale provengono Franco e Giovanni Letizia, gruppo di fuoco del boss Giuseppe Setola. Lo stesso commando capace di sparare in fronte ed ammazzare sei extracomunitari in un colpo solo per avvertire gli altri che, se si intende trafficare droga in zona, bisogna sottostare alle “regole”. E pagare.


Ma chi e' veramente Benedetto-Elio Letizia? Da Castelvolturno all'Agro Aversano fino a Secondigliano, molti lo sanno fin dall'inizio di questa storia. Ma non parlano. Tacciono di fronte ai tanti cronisti venuti da ogni parte del mondo. Pero' a Enrico Fierro, inviato dell'Unita', qualcuno ha detto: lascia stare, su questa storia meglio non metterci le mani. Bolle, scotta. Il cinquantenne Benedetto Letizia, noto finora al Comune di Napoli (dove e' in servizio) piu' che altro per un vecchio inciampo giudiziario - fu arrestato nel ‘93 nell'ambito di un'inchiesta sulle compravendite di licenze commerciali - per tutti e' un uomo tranquillo. E anche la gazzarra di visure camerali e catastali messa su dai giornali, non ha potuto scoprire altro che modesti immobili intestati a Noemi e un paio di societa' dedite al commercio di profumi. Solo una bufala, allora, la storia della parentela? «Non dimentichiamo - dice un attento osservatore di queste dinamiche - che molto spesso i clan si servono proprio di personaggi “puliti”, o quasi, per tenere i contatti con esponenti delle istituzioni».


A gettare benzina sul fuoco, realizzando la classica “excusatio non petita”, sono poche settimane fa alcuni giornalisti del casertano. Ventiquattr'ore di fuoco, quel 19 maggio. Dopo la cattura in Spagna del boss Raffaele Amato, a Secondigliano un blitz porta in manette quasi cento persone ritenute affiliate agli Scissionisti. In nottata arriva l'arresto a San Cipriano d'Aversa del boss Franco Letizia, uno fra i cento latitanti piu' ricercati d'Italia. E siamo proprio negli stessi giorni in cui, fra gossip e cronaca, i giornali, le tv e il web sono letteralmente invasi da quel nome: Letizia. Alle 12 e 18 in punto nelle redazioni arriva un lancio Ansa. E' firmato dalla giovane corrispondente casertana Rosanna Pugliese: nessuna parentela - si legge - tra l'arrestato Franco Letizia ed il papa' di Noemi, lo affermano «gli inquirenti che operano nel casertano». Che bisogno c'era di quella perentoria smentita, a fronte di una notizia mai data? E soprattutto, perche' rifarsi ad un termine generico come “gli inquirenti”, senza precisare se si tratta della squadra mobile, della Procura (di Napoli o di Caserta?) oppure di altre forze dell'ordine? Un sito locale, Caserta Sette, non perde l'occasione per rilanciare la non-notizia. E con tono stizzito se la prende con chiunque osi pensare che esista quella parentela.


Mentre scriviamo, alla Voce risulta invece che sono in corso indagini top secret alla Procura di Napoli proprio per accertare il possibile collegamento fra i Letizia di Secondigliano (Benedetto detto Elio, ma anche altri suoi stretti congiunti) e il clan Letizia affiliato ai Casalesi. Un legame che, se fosse accertato, nella “vicenda Papi”, spiegherebbe tutto. O quasi. Qualcuno, in Campania ed oltre, sa bene da tempo cosa significa pronunciare alcuni grossi nomi. E perche', se telefona uno con quel nome, se si spinge fino a chiedere a un leader politico di mostrarsi alla nazione intera, intervenendo ad una festa di paese, lui potrebbe essere costretto ad acconsentire. Ma in ossequio alla ragion di stato sarebbe obbligato a far credere - perfino alla moglie e ai figli - che si tratti d'una storia di corna e minorenni, piuttosto che rivelare al Paese e al mondo la verita'.


Scrive Fierro sull'Unita' del 22 maggio: «La camorra, soggetto da maneggiare con cura in questa storia. Anche se i tanti set di questo reality non aiutano a tenerla a debita distanza. Secondigliano (il quartiere monstre dove i Letizia hanno alcune loro attivita'); Portici, la citta'-quartiere dove vivono Noemi e sua madre, e Casoria, il paesone della festa. In ognuno di questi luoghi i clan hanno un controllo ferreo del territorio. Sanno tutto. Di tutti». In attesa delle conclusioni alle quali giungeranno i pm della Dda, noi qui proviamo a mettere insieme le tessere del puzzle. Che cominciano a combaciare in maniera impressionante. Se risultasse provato il collegamento fra i Letizia, sarebbe allora piu' realistico immaginare quale sia stato il vero motivo di quell'appuntamento cui il premier, suo malgrado, non poteva mancare, pur avendo cercato con ogni mezzo fin dalla mattina - e poi nelle frenetiche telefonate fatte in quei misteriosi 50 minuti di sosta dentro l'aereo, a Capodichino - di sottrarsi. Alla fine va. E resta per quasi un'ora a colloquio “riservato” - dice chi c'era - con Elio Benedetto Letizia, prima di darsi in pasto ai fotografi.


. IL POTERE DI GOMORRA


Troppo forte, il potere d'intimidazione di quella holding multinazionale che, come ci ha raccontato Gomorra, comunica i suoi messaggi attraverso i simboli. L'uomo accusato di essersi portato via la donna di un boss, per esempio, viene crivellato non alla testa o al cuore, ma “mmiez ‘e palle”; quello che ha tradito gli accordi, facendo catturare uno del clan, dovra' essere “incaprettato”, legato come un capretto sul banco della macelleria, e fatto ritrovare nella posa piu' grottesca e mostruosa che si possa immaginare per un essere umano. Cosi' anche la presenza fisica di una personalita', in certi luoghi ed occasioni, vale piu' di cento rassicurazioni verbali. Magari arriva a suggello di un condizionamento che durava gia' da mesi. E del quale la bella - e quasi certamente ignara - Noemi non era che un altro “segnale”. La sua presenza al fianco del primo ministro (come nell'ormai famoso ricevimento di fine anno a Villa Madama) serviva per affermare all'esterno che il rapporto con gli uomini del napoletano e del casertano stava andando avanti.


Del resto, lo strapotere finanziario raggiunto dalle imprese dei clan camorristici - anche attraverso la presenza di loro vertici nelle logge massoniche coperte - praticamente non ha uguali. Lo ha spiegato poche settimane fa Roberto Saviano agli studenti della Normale di Pisa nel corso di una lezione: nessuna, fra le altre mafie del mondo (russa, cinese o slava che sia) e' autonoma rispetto alle cosche italiane. Tutte hanno come modello di partenza Cosa Nostra, ‘Ndrine e Camorra. Ma i gruppi esteri non si sono mai del tutto affrancati: sullo scacchiere internazionale, nei paradisi fiscali, per muovere da un capo all'altro dei contimenti denaro, armi, stupefacenti, organi ed esseri umani, devono sempre e ancora in qualche modo “dare conto” ai clan italiani.


Dal punto di vista dell'economia criminale, poi, che interi pezzi dell'Italia siano ormai ricattabili da parte dei clan camorristici, non e' una novita'. Una holding multinazionale, ma pur sempre malavitosa; forze strutturate e uomini che, pur trovandosi ormai a gestire le leve del potere finanziario (il giro di affari delle mafie, secondo uno studio recente di Confesercenti, e' pari a 125 miliardi di dollari l'anno, circa il 7% del Pil nazionale), non rinunciano ai vecchi e collaudati metodi per affermare il loro potere. Un commando di fuoco pronto a sequestrare, a sparare in faccia, tenere in ostaggio magari i figli di un alto esponente politico. Ed e' cosi' che possono maturare, per i posti chiave di governo - ad esempio la presidenza di una strategica Provincia o un sottosegretariato - le nomine di personaggi ritenuti gia' nelle lore stesse zone di origine impresentabili, per i legami con la camorra dei loro uomini piu' stretti.


MARONI ALLA CARICA


Come s'inscrive, nello scenario che stiamo ipotizzando, l'autentica impennata nella lotta ai clan camorristici impressa nelle ultime settimane da Roberto Maroni, ministro degli Interni, e da Antonio Manganelli, capo della Polizia? «Berlusconi - dice un esperto di intelligence che preferisce restare anonimo - probabilmente sara' presto lasciato al suo destino. Lo dimostra il livello di fibrillazione da cui e' stato colto dopo l'episodio di Casoria, gli errori a raffica, le dichiarazioni avventate. A reggere saldamente il timone dello Stato che non si arrende e' ora il Viminale, da cui non a caso negli ultimi mesi e' partito un pressing senza precedenti nel contrasto ai Casalesi e ai loro alleati, gli Scissionisti di Secondigliano. Operazioni che hanno liquidato quasi interamente il clan Letizia».



L'escalation nella lotta alla malavita organizzata del casertano ha inizio esattamente dopo la strage di Castelvolturno, il 19 settembre dello scorso anno, quando sei nordafricani residenti nella vasta area a rischio della Domiziana, sul litorale di Caserta, vengono massacrati in un raid di camorra teso - si capira' in seguito - a riaffermare il predominio sulla zona del boss dei Casalesi Giuseppe Setola, al cui clan sono affiliati i Letizia. Appena dieci giorni dopo, il 30 settembre, i Carabinieri del comando di Caserta arrestano gli artefici dell'eccidio. Sono Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo ed il ventottenne Giovanni Letizia, gia' ricercato per un altro omicidio collegato alla connection politica-rifiuti: quello dell'imprenditore Michele Orsi. I militari li sorprendono in due villini di villeggiatura a Quarto, sempre in zona domizia. «Secondo il pentito Oreste Spagnuolo - scrivera' Roberto Saviano - Giovanni Letizia quando uccise Michele Orsi indossava una parrucca e ai piedi aveva un paio di Hogan di tela. Poi gli venne fame e andarono a mangiare con Letizia che aveva ancora le scarpe sporche di sangue ma preferiva pulirle con la spugnetta anziche' buttarle. Quando il suo capo chiese perche' perdesse tempo a lavarle rischiando di essere beccato, Giovanni Letizia gli rispose che Orsi non valeva le sue scarpe». 14 gennaio 2009. In un edificio diroccato di Trentula Ducenta, al confine con il Lazio, finisce la latitanza del boss Giuseppe Setola. Con lui viene fermata la moglie, Stefania Martinelli. Fra il 9 e l'11 marzo la Dda partenopea mette a segno un altro colpo mortale per i Casalesi con l'arresto di altri uomini legati a Franco Letizia, cugino di Giovanni, considerato il reggente del clan. Fra loro anche il trentatreenne Vincenzo Letizia detto ‘o schizzato. 3 aprile 2009. La Mobile di Caserta arresta Armando Letizia, 56 anni. Considerato elemento di spicco del clan, Armando e' zio di Giovanni Letizia e padre del latitante Franco. Il cerchio si stringe intorno a quest'ultimo, che sara' tratto in manette il 19 maggio. Ma quella domenica 26 aprile, il giorno dell'arrivo di Berlusconi a Casoria per il compleanno di Noemi, un'altra e piu' rilevante cattura forse e' gia' nell'aria. All'alba del 29 aprile la Direzione Investigativa Antimafia di Napoli sorprende Michele Bidognetti, fratello del boss Francesco Bidognetti (detenuto al 41 bis eppure ancora in grado - secondo gli inquirenti - di impartire ordini), ma soprattutto parente del collaboratore di giustizia Domenico Bidognetti.


Un gruppo criminale strettamente collegato a quello dei Setola e, quindi, ai Letizia. «Una storia - fanno notare in ambienti giudiziari del casertano - che puzza lontano un miglio di rifiuti. Non va dimenticato che per i Bidognetti questa e' stata sempre una fra le piu' lucrose attivita'. E che molte operazioni messe a segno recentemente dalle forze dell'ordine nascono dalle rivelazioni su quel maleodorante business rese da una gola profonda del settore come Gaetano Vassallo». Senza contare, su tutto, la presenza degli imprenditori-camorristi del settore rifiuti Michele e Sergio Orsi: il primo ucciso proprio per mano del clan Letizia quando era in procinto di collaborare con la magistratura. Il secondo, arrestato nell'ambito di un'operazione anticamorra di febbraio scorso, era invece stato prosciolto nel 2007 da analoghe accuse. Al suo fianco, come penalista, c'era l'avvocato Ferdinando Letizia dello studio Stellato di Santa Maria Capua Vetere. Casertano, 35 anni, Ferdinando Letizia e' anche consigliere comunale a Castelvolturno e capogruppo della lista “Liberamente”, sul cui sito internet si esaltano le gesta del leader Silvio Berlusconi. Il colpo inferto ai trafficanti di rifiuti con l'apertura dell'inceneritore di Acerra, il timore di perdere gli appalti da milioni di euro che ruotano intorno all'affare munnezza, potrebbero insomma essere fattori non del tutto estranei al clima rovente delle ultime settimane.



IL MILAN? ALL'OLIMPIA


Ma torniamo ai segnali. A quegli avvenimenti forse solo in apparenza “curiosi” che avevano preceduto la famosa sera del 26 aprile. Quella domenica a giocare sul campo del San Paolo c'era stata l'Inter. Ma il 22 marzo a Napoli per una sfida di campionato era sbarcato il Milan. Che per la prima volta aveva abbandonato i consueti, sfavillanti hotel del lungomare partenopeo con vista sul golfo, per andare ad alloggiare in una delle piu' desolate periferie dell'hinterland: Sant'Antimo, Hotel Olimpia. Terra di inceneritori, ecoballe e Cdr. Al confine col triangolo della morte Nola-Marigliano-Acerra. Comune, Sant'Antimo, due volte sciolto per infiltrazioni camorristiche. Area infestata da sversamenti illegali di materiali tossici. E non lontana da quell'agro aversano da cui trae le sue origini il gruppo Setola-Bidognetti-Letizia.



L'Hotel Olimpia rientra nell'impero economico della famiglia Cesaro, che in zona possiede anche l'unico presidio sanitario disponibile per uno fra i territori piu' densamente popolati d'Italia, il Centro Igea, ed una serie di altre lucrose attivita'. Leader della famiglia e' Luigi Cesaro, deputato Pdl, candidato in pole position per la presidenza della Provincia di Napoli. Sui suoi pregressi legami coi clan della zona si soffermava a lungo (come la Voce ha ricordato nel numero di maggio scorso) la relazione di fuoco redatta dai commissari prefettizi inviati a Sant'Antimo dopo lo scioglimento per camorra del 1991.



Ecco i passaggi chiave. «I collegamenti di taluni degli amministratori con la malavita organizzata - clan Puca e Verde - si estrinsecano attraverso rapporti di parentela e/o cointeressi in attivita' economiche e patrimoniali». «La cointeressenza in attivita' economiche si coglie soffermandosi sugli accordi in materia di appalti fra i clan di Pasquale Puca ed il clan Verde, che operano rispettivamente attraverso le cooperative “La Paola” e “Raggio di Sole”, addivenendo in tal modo ad una spartizione dei settori dell'economia locale. Della Cooperativa “Raggio di Sole” e' socio il consigliere comunale Antimo Cesaro unitamente ai fratelli Raffaele (legale rappresentante) e Luigi». Ancora: «Lo stesso consigliere Aniello Cesaro risulta citato a comparire dalla Autorita' Giudiziaria in ordine a molteplici attivita' estorsive messe in atto da Pasquale Puca, capo dell'omonimo clan camorristico operante in Sant'Antimo e Casandrino; risulta avere in atto procedimenti per truffa, interesse privato in atti d'ufficio, omissione in atti d'ufficio e peculato». Diciannove anni dopo, di Luigi Cesaro (e del suo “gemello” politico Nicola Cosentino, sottosegretario all'Economia), parla Gaetano Vassallo, come ricorda l'Espresso in un'inchiesta di settembre 2008. E qui tornano le coincidenze. Perche' se le verbalizzazioni del pentito dovessero trovare conferma, a favorire l'attivita' imprenditoriale dei Cesaro non sarebbe stato un clan qualsiasi. Ma il gruppo di Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte.


IL BOOMERANG


Sto pensando di riferire in aula sul caso Letizia. Ma ci devo riflettere». 23 maggio. E' appena scoppiato il caso Mills (la condanna per corruzione dell'avvocato David Mills, che tira il ballo lo stesso premier) e siamo a poche ore da un altro storico annuncio di analogo tenore: «riferiro' alla Camera sulla vicenda Mills». Perche', allora, mentre tutti parlano di Mills, lo stesso Cavaliere torna a porre l'accento sulla storia dei suoi rapporti con Noemi Letizia e la sua famiglia? La risposta potrebbe stare tutta in una ricostruzione dei fatti che comincia a circolare a Napoli. E che trae spunto da quelle mezze frasi dette “col cuore in mano” prima dal papa' di Noemi («il mio rapporto con Berlusconi? Preferisco non approfondire, siamo legati da un segreto»), poi dalla mamma Anna Palumbo: «non chiedetecelo, non possiamo dire di piu'...». Dopo la valanga di stridenti contraddizioni abbattutasi sul resoconto che lo stesso Cavaliere aveva voluto rendere negli studi di Porta a Porta (dalla bufala del Benedetto Letizia autista di Craxi, subito sbugiardata dal figlio dell'ex leader socialista Bobo, alle secche smentite di Franco Malvano e Fulvio Martusciello che addirittura - aveva detto il premier a Bruno Vespa - gli erano stati segnalati quella sera da Letizia), ora lo staff del presidente deve mettere a punto una versione inattaccabile. E se colpisse anche i sentimenti, se saltasse fuori una storia di buona sanita', meglio. E' partita cosi' la caccia di alcuni cronisti alle notizie d'agenzia di quel maledetto 29 luglio 2001 quando l'appena diciannovenne Yuri Letizia, fratello di Noemi che in quel periodo prestava servizio militare, perse tragicamente la vita a bordo di una Fiat punto andatasi a schiantare contro gli alberi sulla Salaria. E' stato un articolo di Francesco Lo Sardo sul quotidiano Europa a gettare in campo l'ipotesi: «pare sia stato dopo questa tragica morte - scrive il 15 maggio - che, in qualche modo e per qualche speciale ragione, si sia cementato il legame tra il signor Elio Letizia e Silvio Berlusconi». La ricostruzione potrebbe essere gia' pronta: «Prima - fa sapere il premier - li lascio andare avanti, perche' cosi' si mostrano per quello che sono. E sara' un boomerang tale che si vergogneranno, e perderanno consenso e la stima degli elettori, perche' in questa vicenda tutto e' piu' che pulito».

da: http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=211

Il coraggio e la morale di Enrico Berlinguer

Il coraggio di Berlinguer. di Paul Ginsborg
Sapeva come difendere la democrazia, ma non aveva un’idea convincente per farla crescere.
Paul Ginsborg ricorda il leader del Pci

Nel 1994, a dieci anni dalla sua morte, scrissi che nella storia della repubblica a Berlinguer spettava il ruolo del “leader politico che fece di più per salvare l’Italia e la sua democrazia in un periodo di grande travaglio” (Dialogo con Massimo D’Alema, Giunti). Oggi non posso che confermare quel giudizio. Per capire perché, bisogna tornare per un momento dentro la grande crisi della prima parte degli anni settanta.

La storia della repubblica è tragicamente segnata a intervalli regolari da crisi di ogni tipo: politiche, economiche, sociali e culturali. La crisi degli anni settanta fu certamente la più drammatica, e combinava più elementi. Il primo, quello economico, raggiunse il suo culmine nel 1974-1975: la crisi petrolifera aveva colpito l’Italia in modo particolarmente duro, la bilancia dei pagamenti era sempre più in rosso, le aziende più importanti erano fortemente indebitate, l’inflazione cresceva vertiginosamente. Nel 1975 l’inflazione era al 17 per cento, mentre il prodotto nazionale lordo registrava il risultato peggiore dalla fine della guerra: -3,50 per cento, cifra che quasi sicuramente sarà superata dai dati del 2009.

Allo stesso tempo l’Italia diventò uno dei principali teatri di un conflitto internazionale che abbracciava l’intero bacino del Mediterraneo. A est della penisola incombeva il nuovo modello di autoritarismo dei colonnelli greci. A ovest, la penisola iberica era scossa dalla rivoluzione portoghese del 1974-1975 e dalle incerte prospettive che si erano aperte in Spagna dopo la morte di Franco. Il Medio Oriente era in fiamme, la Turchia in mezzo a una guerra civile non dichiarata. Non a caso l’Economist definì il Mediterraneo come il “ventre molle della Nato”.

In Italia questo fu il momento storico delle grandi trame e della grande ondata del terrorismo. Posso solo accennare a questi eventi drammatici, ma per fortuna non tutti gli elementi della crisi coincidevano o convergevano nello stesso momento. Se così fosse stato, quasi sicuramente la democrazia repubblicana non sarebbe sopravvissuta. Nei primi anni settanta troviamo la variegata offensiva della strategia della tensione: le mosse di un ambasciatore americano irresponsabile, Graham Martin, e un capo dei servizi segreti, Vito Miceli, con “tendenze sospette”; la versione italiana particolarmente feroce della stagflazione nel 1974-1975; dal 1973 la crescita del terrorismo di estrema sinistra; alla fine del decennio la loggia P2.


Compromesso storico

I pericoli per la democrazia italiana, quindi, erano reali, e la risposta di Berlinguer – la difesa a oltranza delle istituzioni repubblicane, la creazione di una vasta alleanza democratica nel parlamento e nel paese, il compromesso storico, la netta scelta di campo internazionale per il suo partito (“mi sento più sicuro stando di qua”) – fu all’altezza della situazione.

Dopo il 1945 ogni leader comunista dell’occidente doveva conciliare interessi e lealtà diverse: di partito, di classe, di collocazione internazionale, di nazione. Nella situazione surriscaldata italiana degli anni settanta e sulla scia degli avvenimenti cileni, Berlinguer non esitò. “L’unità del popolo per salvare l’Italia” è il significativo titolo del lungo discorso con cui aprì il quattordicesimo congresso del Pci nel marzo del 1975. E in un discorso parlamentare del luglio 1977 osservò: “Eccezionale è stata la tenuta del paese di fronte alle prove tremende di questi ultimi anni di crisi economica e sociale, di trame antidemocratiche, di crociate integralistiche e di deflagrazione del terrorismo”.

Bisogna notare che questa grande sensibilità ai pericoli dell’epoca e ai possibili esiti catastrofici combaciava fortemente con la personalità di Berlinguer, non cupa ma certamente gravata dal peso della storia. Ma la sua sintonia con il momento, quelle sue antenne così sensibili ai rischi, avevano anche un rovescio della medaglia. Si può dire che Berlinguer avesse una visione lungimirante di come difendere la democrazia italiana, ma non un’idea così convincente di come farla crescere.

Gli anni dopo il 1976 dovevano essere, per usare le sue parole, un periodo di “profondo cambiamento nelle strutture politiche, economiche e sociali”. In realtà furono una continua richiesta di sacrifici, senza le contropartite necessarie per sostenere quella grande ondata di speranza e di richiesta di cambiamento che veniva dal voto del 1976. Ci furono certamente delle riforme in quegli anni, e almeno una fu importantissima, quella che istituiva il servizio sanitario nazionale nel 1978. Il Pci entrava nell’area di governo, ma invece di introdurre nuove e democratiche forme di gestione del potere sembrava adottare le abitudini degli altri partiti.

Ancora nel 1978 Norberto Bobbio notava “un potere ascendente” nella società italiana, il prodotto di anni di mobilitazione di massa nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri. Ma questo “potere ascendente” non trovava gli esiti politici sperati. C’era il bisogno di difendere la democrazia e allo stesso tempo di innovare, di essere – nelle parole di un appunto di Antonio Tatò a Berlinguer del febbraio 1978 – “conservatori e rivoluzionari”.

L’austerità

Questa considerazione mi porta a una seconda questione: l’austerità, una “occasione per trasformare l’Italia”, come recita il titolo di un suo famoso scritto pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1977. Tra le voci internazionali che negli anni settanta criticarono il modello di modernità capitalistica, una delle più alte e intelligenti fu quella di Berlinguer. Nelle sue conclusioni al convegno degli intellettuali del 15 gennaio 1977, Berlinguer sostenne la necessità di abbandonare “l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario”.

Nel 1983, al sedicesimo congresso del Pci, in un discorso che per molti aspetti rappresentò il suo testamento morale e politico, tornò sui temi dello spreco, del consumo e del declino: “La società capitalistica contemporanea ha prodotto e produce sempre più un inaridimento dell’uomo… una spinta esasperata al consumismo individuale, alla avidità di denaro, di successo, di potere, considerati il fine primo dell’esistenza umana”.

Di fronte a queste tendenze Berlinguer propose una nuova austerità, concepita non in termini di un angusto puritanesimo, ma come l’accettazione generale del bisogno di invertire le principali tendenze della società moderna, eliminando le distorsioni più vistose. L’austerità era “rigore, efficienza, severità”, ma mirava a creare “una società più giusta, meno diseguale, relativamente più libera, più democratica, più umana”. E doveva farlo non solo all’interno delle società capitalistiche avanzate, ma nei rapporti tra nord e sud del mondo. Come nel caso della sua difesa della democrazia, così nelle sue riflessioni sui consumi e sugli sprechi è difficile non apprezzare le posizioni di Berlinguer, il loro peso anticipatorio, il loro senso di giustizia.

Sul degrado pubblico il leader comunista giocava in casa: aveva uno spiccato senso del pubblico e della necessità di cambiarne radicalmente il volto, di contestare il degrado e l’inefficienza della pubblica amministrazione, la corruzione endemica della vita pubblica italiana, il ruolo spesso negativo dei partiti. Essendo comunista, Berlinguer aveva anche un’idea forte dell’importanza dei servizi pubblici: gli asili nidi, le scuole e (guarda caso) il servizio sanitario nazionale, così fortemente voluto da lui e da suo fratello Giovanni.

In questo campo i loro discorsi dell’epoca risuonano forti e chiari ancora oggi. La stessa cosa si può dire per i rapporti tra nord e sud del mondo. Berlinguer dimostrava una sensibilità forte verso quei “due terzi del mondo, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di inferiorità rispetto ai popoli e ai paesi che hanno finora dominato la vita mondiale”.

Ma l’austerità era anche una critica incessante ai consumi privati, e qui Berlinguer si trovava su un terreno molto più insidioso. I comunisti italiani avevano sempre dedicato molta attenzione al mondo della produzione, ma molto meno a quello del consumo. La critica di Berlinguer resta generica, manca una prima tipologia dei consumi privati, una vera capacità di operare distinzioni nel mondo della cultura materiale e immateriale.

Questa lacuna ha molto a che fare con l’analisi berlingueriana della crisi di cui ho parlato prima. Un’analisi spesso catastrofica, che lasciava poco spazio a una dialettica più sfumata. I consumi privati moderni avevano certamente forti elementi di futilità. Ma avevano anche elementi liberatori che non andavano sottovalutati in nessun modo: le possibilità di ampliare le scelte individuali, di viaggiare, di comunicare, di rispondere ai desideri in quel campo che il sociologo Colin Campbell ha definito “edonismo immaginativo autonomo”.

Tutto questo non corrisponde al concetto di “austerità”, e non a caso la proposta di Berlinguer ha avuto vita breve. La sua intuizione era giusta, ma la parola “austerità” non era quella adatta e la condanna dei consumi individuali troppo indiscriminata. Nel mondo contemporaneo l’individualismo non si traduce automaticamente in egoismo e atomizzazione. Il consumismo moderno non è solo inaridimento dell’uomo. è soprattutto una ricerca di identità in un mondo insicuro e di nuovo in crisi. Il massimo tributo che possiamo offrire a Berlinguer è cercare di andare oltre il punto in cui fu costretto a passare il testimone, e soddisfare pienamente questo bisogno di identità, che si basa senz’altro sull’individuo, ma in un nuovo contesto collettivo che dobbiamo ancora costruire insieme.

Paul Ginsborg è uno storico britannico. Insegna storia dell’Europa contemporanea all’università degli studi di Firenze. Il suo ultimo libro è La democrazia che non c’è (Einaudi 2006).
Questo articolo è il testo del discorso tenuto alla camera dei deputati durante la commemorazione di Enrico Berlinguer, organizzata dal Partito democratico il 21 maggio 2009.

[Fonte Internazionale]


La questione morale. Ieri e oggi
di Eugenio Scalfari
«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer.
«I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».

La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.

Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
Noi sostenemmo che le storture produttive e, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire. . .

«La Repubblica» 28 luglio 1981

martedì 2 giugno 2009

Cade la maschera del clown

Cade la maschera del clown
Articolo di Società cultura e religione, pubblicato lunedì 1 giugno 2009 in Gran Bretagna.
[The Times]

[Editoriale]

Berlusconi deve rispondere alle accuse sulle sue frequentazioni femminili e alle domande sul suo comportamento inadeguato. La qualità del governo non è un affare privato.

L’aspetto più sgradevole del comportamento di Silvio Berlusconi non è il fatto che egli sia un buffone sciovinista, né che gli piaccia fare baldoria con donne di cinquant’anni più giovani di lui, abusando della sua posizione per offrire loro lavori da modella, da assistente personale o perfino, per assurdo, da candidata al Parlamento Europeo. Quello che è più sconvolgente è il totale disprezzo con cui tratta l’opinione pubblica italiana.

Questo vecchio Casanova forse trova il suo atteggiamento da playboy divertente, o perfino audace, vantandosi delle sue conquiste, umiliando sua moglie e facendo commenti che per molte donne sarebbero grottescamente inappropriati. Non è il primo né l’unico il cui comportamento indegno non è adatto alla carica che ricopre. Ma quando gli vengono poste delle domande legittime sui propri rapporti che riguardano lo scandalo e i quotidiani lo incalzano perché dia delle spiegazioni su delle relazioni che sono quanto meno sconcertanti, la maschera del clown cade. Minaccia quei giornali e quelle televisioni che lui stesso controlla, invoca la legge per proteggere la sua “privacy”, rilascia delle dichiarazioni evasive e contraddittorie e in seguito promette in maniera melodrammatica che si dimetterà se scoperto a mentire.

La vita privata di Berlusconi è certamente privata. Ma come ha scoperto il Presidente Clinton, gli scandali non si conciliano con le cariche importanti. Ai suoi critici, Berlusconi risponde che lui rimane in vetta nei sondaggi di popolarità, che lui controlla saldamente il suo governo e che non sarà intimidito da quelli che lui definisce come tentativi dell’opposizione di diffamarlo. Inoltre, molti dicono che l’Italia non è l’America: il quadro di riferimento basato sull’etica puritana presente negli Stati Uniti non ha mai dominato la vita pubblica italiana, e pochi tra gli italiani si scandalizzano per uno che va a donne. Ma questa è pura condiscendenza. Gli italiani, allo stesso modo degli americani, capiscono benissimo cos’è e cosa non è accettabile. E come gli americani, considerano che un occultamento della verità sia spregevole.

Pochi tra i media in Italia sono in grado di sostenere quest’opinione senza la paura di pagarne il prezzo. Ma è merito de La Repubblica l’aver posto continuamente delle domande sui rapporti tra il Presidente del Consiglio e la diciottenne Noemi Letizia, la cui collana ricevuta come regalo di compleanno è stata il pretesto usato dalla moglie di Berlusconi per chiedere il divorzio. Alla maggior parte di queste domande, ed è sulla bocca di ogni elettore italiano confuso, non c’è stata una risposta soddisfacente. Come e quando ha conosciuto la sua famiglia? E’ stato Berlusconi a chiedere delle foto ad un’agenzia di modelle e ad iniziare i rapporti con Noemi Letizia? E’ vero quello che c’è scritto su molti resoconti i quali affermano che dozzine di giovani donne sono state invitate a partecipare a delle feste presso la sua villa in Sardegna?

Berlusconi ha promesso di spiegare tutto in Parlamento. Ma difficilmente avrà rassicurato i suoi critici dopo l’ingiunzione di questo fine settimana con la quale ha bloccato la pubblicazione di circa 700 fotografie che avevano la pretesa di mostrare cosa fosse successo in quelle feste. E non è stato aiutato nemmeno dallo sventurato ministro degli Affari Esteri, il quale ha cercato di difendere il suo capo facendo notare che in Italia l’età per il sesso consenziente è 14 anni - come se ciò fosse rilevante.

Ma è importante tutto ciò? Alcuni italiani diranno di no. Altri diranno che gli estranei non si devono immischiare. Ma i votanti italiani, nel periodo finale prima delle elezioni europee, dovrebbero riflettere su come il loro governo viene gestito, sui candidati considerati adatti a Strasburgo e sulla sincerità del loro Presidente del Consiglio in tempi di crisi politica ed economica.

E questo riguarda anche altri. L’Italia ospiterà gli incontri del G8 quest’anno. Discussioni importanti avranno luogo in questa sede, in cui i governi occidentali premono per una maggiore cooperazione nella lotta al terrorismo e alla criminalità internazionale. Berlusconi si considera amico di Vladimir Putin. Il suo Paese è un membro importante della Nato. Fa anche parte della zona euro, messa alla prova dalla crisi finanziaria globale. Non sono soltanto gli elettori italiani a chiedersi che cosa sta succedendo. Se lo chiedono anche i perplessi alleati dell’Italia.

da: http://italiadallestero.info/archives/5811

martedì 10 marzo 2009

COS'E' UN ITALIANO

Appunti per una definizione
Camilleri: Cos’è un italiano
di Andrea Camilleri

Non sono uno storico, un sociologo, un antropologo, niente di tutto questo. Sono soltanto un raccontastorie, un romanziere italiano particolarmente attento, questo sì, ai suoi connazionali.

E quindi non è un caso che tutte le citazioni a supporto o a pretesto siano tratte dalla letteratura, non da testi di storia.

Perciò tutto quello che segue, e che farà sicuramente storcere la bocca agli addetti ai lavori, va preso col beneficio d’inventario.

Premessa generale

Se si prova a cambiare la domanda in cosa sia un francese o un tedesco, si può rispondere abbastanza agevolmente, magari mettendo in fila tutta una serie di luoghi comuni.

Certo, anche per gli italiani sono stati coniati luoghi comuni, tipo «italiani brava gente», ma non credo che gli abissini gassati o i libici deportati siano dello stesso parere. E, senza andare troppo indietro nella storia, non penso che possano dichiararsi d’accordo nemmeno gli extracomunitari che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste.

Quando si fece l’Europa unita, molti italiani del Nord temettero di perdere, oltre ai soldini, anche la loro identità. Beati loro, che credevano di averne una. Alcuni padani, per affermarla, si sposarono col rito celtico che nessuno sa con esattezza in cosa consista.

Comunque è chiaro che i riti celtici o l’adorazione del fiume Po non hanno nulla da spartire con certi riti del Sud come lo scioglimento del sangue di san Gennaro o il Festino di Santa Rosalia.

Allora, come si fa a chiamare con lo stesso nome di italiano un contadino friulano e un contadino siciliano? Mi pare che ai suoi tempi anche il cancelliere Metternich, di fronte alle aspirazioni unitarie italiane, si sia posto suppergiù la stessa domanda. E aveva poi così tanto torto chi disse che l’Italia era solo un’espressione geografica? E il politico italiano il quale affermò che una volta fatta l’Italia bisognava fare gli italiani non ammetteva implicitamente che il senso di unità nazionale era da noi ancora del tutto assente?

Prima di andare oltre, occorre chiarire come ho inteso il termine «italiano». Diciamo che ho preso a esempio l’italiano cosiddetto medio («ammesso e non concesso / che l’italiano medio è un poco fesso», cantava Laura Betti un quarantennio fa), vale a dire i risultati di una media statistica e ho cercato d’individuare tra di essi un comune denominatore diverso dal titolo di studio, tipo d’impiego, stipendio mensile eccetera. Ma gli uomini non sono numeri, ciascun individuo ha una propria individualità che rende non solo difficile, ma altamente improbabile la precisione del risultato globale. In altre parole, una ricerca cosiffatta di un comune denominatore rischia di non tener conto di tutto quello che può contraddire l’assunto stesso.

Mi spiego meglio: non ricordo chi sosteneva che se un tale in un giorno si è mangiato due polli e un altro tale invece non ha neppure desinato, statisticamente risulterà che ne hanno mangiato uno a testa.

Allora: per fare un esempio pratico: italiani brava gente? La mia risposta è no, ma ciò non toglie che tra gli italiani ci sia tanta, tantissima brava gente.

Ad ogni modo, tratti comuni sono riscontrabili, alcuni visibili a occhio nudo, altri percepibili soltanto attraverso esami di laboratorio.

È stato durante il periodo fascista che si è messo in atto il massimo sforzo d’unificazione, con provvedimenti di migrazioni interne e d’abolizione di caratteri distintivi regionalistici.

Vennero soprattutto presi di mira i dialetti il cui uso fu severamente proibito a scuola, nei luoghi pubblici, in teatro, al cinema.

Ma subito dopo il Minculpop, ossia il ministero della Cultura popolare, emanò una circolare con la quale le compagnie teatrali dialettali di Gilberto Govi (genovese), dei fratelli De Filippo (napoletana) e di Cesco Baseggio (veneziana) erano esentate dalla proibizione.

Si trattava di una palese contraddizione, tanto più che le tre compagnie riscuotevano un grande successo su tutto il territorio nazionale, facendo un’indiretta propaganda dei dialetti.

Ma questa contraddizione mi offre l’occasione per stabilire un primo tratto comune.

L’uso dei dialetti

È fuor di dubbio che la letteratura dialettale, con Ruzante, Meli, Porta, Belli, Goldoni, Pirandello, De Filippo, abbia spesso prodotto capolavori entrati a far parte del patrimonio culturale dell’intera nazione.

Ma qual era, e qual è, l’uso dei rispettivi dialetti nel parlar comune?

In un articolo degli ultimi anni dell’Ottocento, intitolato «Prosa moderna», Luigi Pirandello così scriveva: «L’uso della lingua italiana, è cosa vecchia detta e ridetta, non esiste. A Milano si parla il dialetto lombardo, a Torino il piemontese, a Firenze il fiorentino, a Venezia il veneziano, a Palermo il siciliano e così via di seguito, ciascun dialetto ha il suo tipo fonetico, il suo tipo morfologico, il suo stampo sintattico particolare: mettete ora un siciliano e un piemontese, non del tutto illetterati, a parlare insieme. Bene, per intendersi (…) sentiranno il bisogno di appellarsi a una favella comune, alla nazionale, a quella che dovrebbe unir tutti i popoli, poiché l’Italia è unita, alla lingua italiana. (…) Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? Si parla o si vuol parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuole essere la lingua italiana parlatain Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto.

Pirandello porta l’esempio di due «non del tutto illetterati». Ma se l’esempio si fosse riferito a due illetterati? Oppure decisamente a due analfabeti?

C’è un racconto di De Roberto, dal titolo La paura, che fotografa la realtà linguistica all’interno di una trincea della guerra ’15-’18: ogni soldato parla il dialetto della regione di provenienza. E tra di loro si intendono a gesti, a occhiate.

Dunque uno dei comuni denominatori degli italiani è stato, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la diversificazione dialettale. Come spesso capita da noi, un tratto unificante è costituito da una diversità.

Posso spiegarmi meglio facendo ancora ricorso a Pirandello. Egli dichiara, in un articolo intitolato «Teatro siciliano», che risale allo stesso periodo di quello citato in precedenza: «Un grandissimo numero di parole di un dato dialetto sono su per giù – tolte le alterazioni fonetiche – quelle stesse della lingua, ma come concetti delle cose, non come particolare sentimento di esse».

Semplificando: di una data cosa, la lingua ne esprime il concetto, mentre il dialetto ne esprime i sentimenti.

Il comune sentire italiano, cioè a dire il provare uno stesso sentimento di gioia o di esecrazione davanti a un certo evento, nascerebbe dunque dal pensar dialettale. La concettualizzazione operata dalla lingua porterebbe invece a reazioni non omogenee.

Forse, a ben considerare l’origine notarile del volgare («sao ko kelle terre» eccetera), le osservazioni pirandelliane non risultano tanto campate in aria.

L’avvento della televisione ha in un certo qual modo unificato, omologato in basso, la lingua italiana, ma non è riuscita a far scomparire del tutto le radici dialettali. Sono esse in definitiva che ancor oggi impediscono alla lingua italiana di diventare definitivamente una colonia dell’inglese.

Quella contro i dialetti è stata, per fortuna, un’altra guerra persa dal fascismo (la guerra alle mosche, la battaglia del grano, la battaglia demografica, la battaglia per l’autarchia eccetera).

Già, il fascismo…

La vulgata popolare racconta che il fascismo nacque perché i treni non arrivavano in orario a causa degli scioperi dei ferrovieri e perché i reduci della guerra ’15-’18 venivano vilipesi dai «rossi» imboscati e traditori della Patria. Mussolini, interventista, combattente, socialista, ex direttore dell’Avanti!, convinse gli industriali del Nord e gli agrari dell’Emilia Romagna, preoccupati dagli scioperi e dalla nascita di una forte organizzazione operaia ispirata dal Pc d’I. nato dalla scissione socialista del ’21, che il suo movimento non era una rivoluzione (anche se così la sbandierava) ma un sostanziale ritorno alla legge e all’ordine.

Se rivoluzione era, si trattava di una rivoluzione borghese con orizzonti borghesi e quindi bene accetta all’opinione pubblica e alla più importante stampa italiana. E infatti tanto la grande quanto la piccola borghesia vi si riconobbero.

La marcia su Roma, da Mussolini, fatta in vettura-letto e abilmente propagandata con toni epici, probabilmente sarebbe finita in una bolla di sapone davanti all’esercito pronto ad aprire il fuoco se Vittorio Emanuele III non avesse spalancato le porte al fascismo non firmando lo stato d’assedio.

Nel primo governo Mussolini, tra quelli dei fascisti, spiccano molti nomi di eminenti liberali, socialisti, cattolici, democratici. Da quel momento in poi, fatta eccezione per il brevissimo periodo immediatamente seguente al delitto Matteotti, il fascismo trovò la strada in discesa e in poco tempo seppe guadagnarsi il consenso degli italiani. I pochi che resistettero furono incarcerati, mandati al confino o comunque messi a tacere.

All’italiano del fascismo piacevano parecchie cose tra le quali l’autoritarismo, il decisionismo, il «me ne frego», il machismo e soprattutto piacque l’imposizione della divisa che permetteva una sorta di livellamento tra le classi.

Quando, all’inizio degli anni Trenta, il fascismo pretese il giuramento di fedeltà al partito da tutti coloro che in un modo o nell’altro erano dipendenti dallo Stato, non un magistrato, un burocrate, un poliziotto, un funzionario di qualsiasi ordine e grado si tirò indietro. Solo dodici docenti universitari opposero un netto rifiuto e furono mandati a casa.

Insomma, a un certo momento, la frequente scritta murale «Duce, tu sei tutti noi» rispecchiò la realtà italiana. Si disse che le adunate oceaniche di piazza Venezia erano il risultato di una precettazione capillare, ma non era assolutamente vero, l’italiano amava ascoltare la parola del capo sentendosi uno tra i tanti.

Oggi si può tranquillamente affermare che se Mussolini non avesse firmato il Patto d’acciaio con Hitler, costringendosi così a entrare nel conflitto, sarebbe morto di vecchiaia nel suo letto. Come accadde per Francisco Franco, che sul fronte italo-tedesco mandò pro forma una divisione o giù di lì e poi si tenne prudentemente in disparte.

Il consenso, come si sa, cominciò a calare a picco quando gli italiani si resero conto che la guerra era irrimediabilmente perduta.

Ma l’intervento a fianco di Hitler venne considerato dalla maggioranza degli italiani come il tragico errore di un Mussolini mal consigliato dai suoi gerarchi e dai suoi generali. La frase più comune in circolazione era: «Ha sbagliato a fare la guerra, ma è indubbio che cose buone ne ha fatte».

Insomma, una sorta d’assoluzione con tre avemarie e un paternoster per quell’unico sbaglio. La guerra era stata invece lo sbocco naturale, fatale, irreversibile della concezione fascista della ragione del più forte (nel caso specifico l’alleato tedesco) ma questo gli italiani non lo capirono o non lo vollero capire. Con conseguenze gravi.

Nel 1945, a Liberazione avvenuta, apparve sulla prestigiosa rivista politicoculturale Mercuriol’articolo di un grande giornalista, Herbert Matthews, intitolato: «Non l’avete ucciso». In esso, prendendo spunto dall’esecuzione di Mussolini e di molti suoi gerarchi, Matthews sosteneva non solo che il fascismo non era morto, ma che avrebbe continuato a vivere a lungo dentro gli italiani. Non certo nelle forme del ventennio, ma in certi modi di pensare e d’agire. E che l’infezione, profondamente diffusa, sarebbe durata molto, molto a lungo, decenni e decenni.

Allora, a chi scrive, quelle parole sembrarono esagerate, ma bastò pochissimo per modificare questo giudizio.

Quanto tempo dopo la caduta del fascismo l’Msi, che se ne proclamava l’erede, diventò una forza parlamentare? Parlino le date. Giorgio Almirante, già segretario di redazione e attivo collaboratore dell’infame rivista La difesa della razza, propugnatrice e sostenitrice delle leggi razziali, già sottosegretario nella repubblica di Salò, fonda il neofascista Msi nel 1946, meno di un anno dopo la caduta del fascismo, e nel 1948 (!) può sedersi con altri del suo partito alla Camera. Appena tre anni dopo la Liberazione, il neofascismo entra a far parte con pieno diritto dell’arco costituzionale.

Il fascismo insomma è una fenice che non ha bisogno di ridursi in cenere per rinascere. Sessantaquattro anni di democrazia ancora non sono bastati a ripulire il sangue dell’italiano dentro il quale tuttora vivono cellule infette, pronte a trasformarsi in ogni occasione in virus pericolosi.

A parte le sempre più frequenti manifestazioni dichiaratamente fasciste, che vanno dal saluto romano negli stadi alle aggressioni tanto violente quanto immotivate a giovani di sinistra, a barboni, a extracomunitari (a proposito, quanti sono i condannati per il reato di apologia del fascismo?), il fenomeno più diffuso e certamente più pericoloso è rappresentato da certi comportamenti fascisti da parte di chi è convinto di non esserlo. Alcuni esempi: la richiesta della destra di espellere dall’Italia i contestatori del governo israeliano per la sanguinosa invasione di Gaza è quanto di più fascista e meno democratico si possa immaginare. L’idea di prendere le impronte digitali ai bambini rom è razzista e fascista insieme. È fascismo che il governo siluri il prefetto di Roma perché non d’accordo con alcune proposte del sindaco il quale, tra l’altro, usa portare la croce celtica al collo. È fascista la volontà di Berlusconi di mettere mano alla Costituzione senza il concorso dell’opposizione. Ricorda tanto il «noi tireremo dritto» di mussoliniana memoria. E si potrebbe continuare a lungo.

Le particelle di Majorana

Quasi sempre, nella sua lunga storia, l’italiano ha dimostrato di essere esattamente come le particelle di Majorana. Il grande fisico teorico, misteriosamente scomparso nel 1938, elaborò un’ipotesi rivoluzionaria secondo la quale, adopero le parole del fisico Andrea Vacchi, «il partner di antimateria di alcune particelle siano loro stesse». Come dire che non la coesistenza, ma l’inscindibile fusione degli opposti costituisce l’identità.

C’è uno splendido racconto di Borges nel quale un eretico e un custode della fede a lungo e ferocemente si contrappongono. Quando l’eretico infine brucia sul rogo, il suo volto, per un attimo, si rivela essere quello stesso del custode della fede che l’ha fatto condannare a quell’atroce morte. Non le due facce di una stessa medaglia dunque, ma una medaglia che ha nel recto e nel verso la medesima immagine.

Lo stesso soldato italiano che, diciannovenne, a Caporetto scelse di non combattere, lo ritrovi poco più che quarantenne a El Alamein che si batte sino alla morte. E non certo per ragioni, come dire, equivalenti: nel primo caso infatti si trattava di difendere il territorio italiano, nel secondo di mantenere una postazione italiana in territorio straniero.

Lo stesso italiano che divenne emigrante e che venne aiutato in terra straniera da coloro che l’ospitavano, col fornirgli lavoro e abitazione, oggi mal sopporta che in Italia ci sia gente pronta ad accogliere gli extracomunitari.

Lo stesso italiano che amò intensamente Mussolini, che l’applaudì freneticamente a Milano, pochi giorni dopo l’appese per i piedi al distributore di benzina di piazzale Loreto, sempre a Milano.

Lo stesso italiano che una volta stentava a campare in Friuli e mandava la moglie a far la cameriera a Roma o altrove oggi disprezza la cameriera venuta dal Sud.

Più banalmente: lo stesso italiano che divorzia dalla moglie, e che vive con l’amante dalla quale ha avuto due figli, partecipa compunto a una dimostrazione contro il divorzio e firma contro i dico. Ma di fronte al duplice comportamento dell’italiano nei riguardi dei dettami della Chiesa si potrebbe scrivere un trattato piuttosto voluminoso. Gli esempi potrebbero continuare a centinaia.

Nell’italiano, dentro la medesima persona, possono insomma convivere contemporaneamente Galileo Galilei e Giordano Bruno, Tommaso Campanella e padre Bresciani, don Abbondio e Savonarola.

L’italiano è ritenuto all’estero persona inaffidabile in quanto spesso non mantiene la parola data o non porta a termine l’impegno preso. E gli stranieri fanno l’esempio della nostra politica estera, capace dall’oggi al domani di mutare radicalmente corso e indirizzo e di far diventare gli alleati di ieri i nemici di oggi.

Per esempio, questo avvenne prima della guerra ’15-’18, lo stesso è avvenuto verso la fine della guerra ’40-’45.

Non si tratta di scarsa serietà, a mio avviso, ma del fatto che nel momento in cui dava la sua parola d’onore, in quell’italiano, e in quel preciso momento, aveva la prevalenza il segno +, ma il suo opposto, il segno –, era pur sempre contestualmente presente e pronto a farsi avanti.

C’è nel film Il Terzo uomo un’esemplare battuta del personaggio interpretato da Orson Welles (ma il regista dichiarò che a scriverla era stato lo stesso Welles) dove viene detto che il Rinascimento in Italia ebbe origine proprio nel periodo più acuto delle guerre fratricide, dei tradimenti, degli assassini.

Mentre dalla lunga, tranquilla, secolare pace degli svizzeri non è nato che l’orologio a cucù.

Questo paradossale segno di contraddizione non solo è riscontrabile con uno sguardo panoramico, ma lo si può continuare a vedere, zoommando lentamente, anche dentro un paese rinascimentale, dentro una via rinascimentale, dentro una casa rinascimentale, dentro un appartamento rinascimentale, dentro un italiano rinascimentale.

E, naturalmente, anche dentro un italiano d’oggi.

Il rutto del pievano

Ossia gli italiani e il loro passato. Cantava Curzio Malaparte negli anni del consenso al fascismo: «Val più un rutto del tuo pievano/ che l’America e la sua boria./ Dietro all’ultimo italiano/ c’è cento secoli di storia».

Senonché sono gli italiani a essere boriosi e non dei cento secoli di storia, che ignorano del tutto, ma dei rutti del loro pievano.

L’italiano non ha una visione totale della storia d’Italia, ha semmai una certa visione di dettaglio, limitata cioè alle minute vicende del suo vicino territorio, del suo paese d’origine, e addirittura del quartiere dove è avvenuta la sua nascita.

Può tuttalpiù rapportarsi con le vicende del paese limitrofo, ma solo perché esso è il suo rivale diretto nel campionato di calcio.

L’italiano è come un marziano caduto nottetempo al centro di quattro case abitate. Gli basterà venire a sapere dove si trova la sua abitazione, la parrocchia, l’osteria, il municipio. La sua curiosità non si spingerà oltre.

Il Palio di Siena con le sue rivalità tra contrade, che arrivano a un fanatismo sconosciuto persino ai tifosi della curva Sud, è lo specchio del forte legame che unisce l’italiano al suo habitat.

E questo spiega in parte il grande successo politico della Lega Nord. All’infuori di questo perimetro, l’orizzonte dell’italiano è da miopi.

Durante la guerra ’15-’18 il maggior numero di renitenti alla leva (mi rifaccio a documenti dello Stato maggiore) e di disertori fu riscontrato tra i contadinisoldati che provenivano dal Sud, specialmente siciliani e calabresi, i quali non capivano perché dovessero andare a difendere i cavolfiori dei contadini del Nord.

Alla domanda se amava la sua patria, Brecht un giorno rispose che non aveva nessuna ragione d’amare la finestra dalla quale era caduto bambino. Gli italiani amano invece quella finestra e il terreno sottostante sul quale hanno battuto la testa.

Nel 1942, mi pare, sulla rivista Primato che dirigeva il ministro Bottai, venne pubblicata una vignetta di Amerigo Bartoli. Mostrava Benedetto Croce seduto nel suo studio intento a scrivere. Alle sue spalle Hegel sbirciava quello che Croce andava scrivendo e poi diceva: «Ciò che più ammiro in Lei, Maestro, è il senso della Storiella».

Ecco, gli italiani non hanno il senso della Storia, ma della Storiella.

Facendo un certo sforzo, riescono a prendere in considerazione la microstoria, ma da queste visioni parziali e minute non riescono a ricostrure la grande visione generale.

Del Risorgimento sanno appena che lo zio Lello, fratello del nonno della madre, era quello scapestrato, quello sventato che abbandonò la famiglia per andare a farsi ammazzare da uno che manco conosceva.

L’unica storia che l’italiano conosce veramente, e a fondo, è quella del gioco del calcio. Non solo sa a memoria nomi, soprannomi, vizi, difetti, gol segnati, mogli e amanti di ogni giocatore che della sua squadra ha fatto parte dalle origini ai giorni nostri, ma anche di quelli delle squadre rivali.

Per la Storia invece è un’altra storia.

Perché la Storia comporta l’uso critico della memoria e gli italiani essenzialmente tendono ad essere smemorati o ad avere la memoria corta. Se la Storia è veramente magistravitae, gli italiani non hanno mai frequentato quella scuola.

La memoria corta

Quella parte del cervello che ha il compito d’archiviare la nostra vita nel suo insieme (non solo i fatti accaduti nel corso dell’esistenza, ma anche le letture che abbiamo fatto, gli spettacoli visti, i concerti ai quali abbiamo assistito, le mostre alle quali siamo andati) possiede, nell’italiano, una sorta di deleteautomatico che entra in azione assai presto, consentendo una scarsissima autonomia alla memoria.

Fatti sgradevoli già ripetutamente accaduti nel corso degli anni, quando si ripresentano, all’italiano sembrano sempre nuovi.

«Non si è mai vista un’inondazione simile a Roma!».

Poi si va a guardare nelle facciate dei palazzi romani e si scopre che alcune lapidi ci mostrano che l’acqua nel Seicento o nel Settecento raggiunse livelli di gran lunga superiori a quelli attuali.

È un esempio banale, lo so.

Ma mi pare che sia stato T.S. Eliot a dire che l’inferno consiste nella memoria, ai dannati viene fatto ricordare tutto, persino quanto costava un etto di margarina nel 1928.

Se l’inferno fosse veramente la memoria, l’italiano andrebbe direttamente in paradiso.

Di un evento che l’ha appassionato, soprattutto perché strombazzato dai giornali e dalle televisioni, l’italiano ne conserva il ricordo solo per qualche settimana, al massimo per qualche mese.

A meno che non si tratti di cronaca nera, allora la persistenza mnemonica è assai più lunga. Ma per una ragione semplicissima e cioè che gli italiani immediatamente si dividono in due partiti ferocemente contrapposti: gli innocentisti e i colpevolisti. Senza la minima cognizione delle carte processuali, senza essere a conoscenza dei dettagli dell’indagine, decidono a primo acchito se l’accusato è innocente o colpevole. A pelle. Al solo guardarlo.

L’innocentista, sia detto per inciso, resterà fermamente ancorato alla propria convinzione anche quando i giudici della Cassazione, di fronte a prove schiaccianti, avranno condannato all’ergastolo il colpevole.

A proposito di giudici e di giustizia. Essendo siciliano, citerò alcuni modi di dire della mia terra.

Cu havi dinari e amicizia / teni ’n culu la giustizia.
(Chi ha denari e amici / se ne può fregare della giustizia.)
Fari la giustizia a manicu di mola. (Far giustizia in modo storto.)
Judici, presidenti e avvucati / ’n Paradisu nun ne attrovati.
(Giudici, presidenti e avvocati / in Paradiso non ne troverete.)
La furca è pi lo poviru, la giustizia pi lu fissa.
(La forca è per il povero, la giustizia per il fesso.)
La liggi per l’amici s’interpreta, pi l’autri s’applica.
(La legge per gli amici s’interpreta, per tutti gli altri s’applica.)
Lu codici è fattu da li cappeddri pi ghiri ’n culo a li coppuli.
(Il codice è fatto dai signori per andare in culo ai berretti.)

Potrei continuare a lungo. La sfiducia nella giustizia è totale, basandosi sulla convinzione diffusa che essa sia uno strumento dei ricchi (che non incappano mai nelle sue maglie) usato contro i poveri. Una giustizia di classe.

E credo che in ogni regione del Sud d’Italia ci siano modi di dire similari.

Colpa dell’amministrazione della giustizia borbonica, m’è capitato di leggere da qualche parte. Le cose non stanno così: se la giustizia borbonica non fu un modello, quella italiana postunitaria non migliorò per niente la situazione, a volte la peggiorò.

L’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1876 è in proposito assai esplicita.

Scriveva Pirandello su quegli anni ne I vecchi e i giovani: «Povera Isola, trattata come terra di conquista! (…) e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo, e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati ministeriali (…) l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori…».

Questo divario sull’amministrazione della giustizia al Sud e al Nord, salvo la parentesi fascista, continuò anche dopo la Liberazione, con la magistratura del Sud completamente asservita al potere, cioè alla Dc.

Si deve ad alcuni eroici magistrati siciliani in prima linea nella lotta contro la mafia, e che ci lasciarono la vita, il risveglio della solidarietà dei cittadini verso la giustizia.

Ma il punto massimo del consenso si verificò al tempo di Mani Pulite, quando la magistratura milanese fece piazza pulita della corruzione partitica e, praticamente, spazzò via la Prima Repubblica.

Dalle ceneri di essa nacque inopinatamente un affarista milanese che seppe trasformarsi in uomo politico. Aveva molti conti aperti con la giustizia. E quindi, appena arrivato al potere, si è dedicato anima e corpo alla distruzione del sistema giudiziario, con continue leggi ad personam e addirittura arrivando ad affermare che i giudici sono esseri mentalmente tarati. È singolare come, in un’occasione, abbia usato contro i giudici le stesse parole adoperate dal gran capo mafioso Totò Riina.

Ad ogni modo, dato il larghissimo seguito di cui dispone, ha abolito il divario tra Sud e Nord: l’italiano di Palermo e quello di Bergamo ora sono felicemente concordi nella sfiducia totale verso la giustizia.

L’italiano che ha preso una multa per sosta vietata, oggi si sente autorizzato a dichiararsi vittima della giustizia.

(10 marzo 2009)


da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/camilleri-cose-un-italiano/

lunedì 23 febbraio 2009

TEMPESTA DI DEBITI

Tempesta di debiti
[Da Der Spiegel e Internazionale]

[Mentre si discute di "bad bank" e di "bailout", l'Italia arriva alla crisi finanziaria mondiale con il terzo debito pubblico più consistente al mondo].

Qual è la differenza tra socialismo e capitalismo? Nel socialismo le banche prima vengono nazionalizzate e poi falliscono, mentre nel capitalismo succede il contrario. Molti conoscevano già questa battuta quando l’hanno sentita dire ad Angela Merkel. Ma naturalmente ascoltarla dalle labbra della cancelliera tedesca, che in questi giorni è costretta a nazionalizzare le banche, fa un altro effetto. In una serata di gennaio, a Francoforte sul Meno, durante un evento organizzato dalla banca Metzler, Merkel ha messo in guardia dalle conseguenze dell’eccessivo indebitamento pubblico e ha pronunciato due frasi significative: “Si dice che gli stati non possano fallire”. Breve pausa: “Be’, è una voce priva di fondamento”. è vero, anche gli stati possono fallire. Per esempio quando hanno debiti così alti che non riescono più a pagare gli interessi. Il senso delle parole della cancelliera era che il governo deve fissare un limite ai suoi debiti. Non deve sopravvalutare le sue capacità di salvare l’economia, altrimenti rischia di essere travolto dalla crisi. Le somme che gli stati devono raccogliere per proteggere il sistema finanziario dal collasso sono in costante crescita. E gli sforzi dei governi si stanno intensificando a causa delle conseguenze drammatiche della crisi sull’economia reale. Tutto è cominciato con il crollo dei mutui ipotecari statunitensi, ma nel giro di pochi mesi l’economia mondiale ha dovuto affrontare la più grave minaccia dai tempi della grande depressione degli anni trenta. I governi hanno messo a disposizione delle banche miliardi di euro sotto forma di garanzie, crediti e aiuti diretti. Questo denaro è in gran parte andato in fumo e ora, quasi dappertutto, sono previsti nuovi interventi. La parola del momento è bailout, salvataggio: significa che lo stato libera le banche dai loro debiti. Ma questo non vuol dire che i rischi spariscono, cambiano semplicemente proprietario: passano allo stato, cioè ai contribuenti. Nessuno, però, sa quanto sia alto il prezzo da pagare e se alla fine lo stato sarà davvero in grado di pagarlo. Le somme in gioco sono nell’ordine di migliaia di miliardi. Secondo l’economista statunitense Nouriel Roubini, le perdite del settore finanziario statunitense sono arrivate a 3.600 miliardi di dollari. Finora ci sono stati circa 1.000 miliardi di dollari tra perdite e svalutazioni in tutto il mondo. Ma se anche lo stato andrà in crisi, chi lo salverà? Se nessuno sarà più disposto a fargli credito, sarà costretto a fallire. La bolla del debito pubblico è l’ultima bolla concepibile. Incredibile? Fino a un anno fa la nazionalizzazione dei debiti delle banche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania sembrava impensabile, mentre oggi a molti sembra una cosa naturale. Pochi mesi fa la nazionalizzazione dei colossi dei mutui Federal national mortgage association (Fannie Mae) e Federal home loan mortgage association (Freddie Mac) avrebbe suscitato uno scandalo.

Siamo tutti keynesiani

Oggi il clima è cambiato, tutti invocano l’aiuto dello stato e il suo denaro. Perfino il Wall Street Journal ha intitolato di recente un articolo: “Siamo di nuovo tutti keynesiani”. E il finanziere George Soros chiede apertamente la nazionalizzazione delle banche. Già, perché nelle scorse settimane la situazione economica degli Stati Uniti è peggiorata drasticamente. Quasi ogni giorno arrivano notizie di licenziamenti e, dopo le ultime cifre poco rassicuranti, cresce la paura di altre voragini nei bilanci delle banche. Il governo guidato da Barack Obama adotterà presto una strategia chiara. “Il presidente annuncerà misure eccezionali per prendere il controllo della situazione”, assicura Kenneth Rogoff, docente di economia all’università di Harvard. Si parla di una parziale statalizzazione dei principali istituti di credito e di una bad bank pubblica, cioè una società creata appositamente per comprare tutti i titoli spazzatura invendibili. Secondo Simon Johnson, docente di economia al Massachusetts institute of technology (Mit) ed ex capo economista del Fondo monetario internazionale (Fmi), i costi della bad bank sarebbero di circa mille miliardi di dollari. Ma la rottamazione dei titoli non sarà suficiente. “Le banche dovranno essere ricapitalizzate”, sottolinea Johnson, e per farlo serviranno altri 250 miliardi di dollari. Di fronte a queste cifre, Obama ha detto chiaramente, già prima del suo insediamento, cosa succederà nei prossimi anni: “Dovremo convivere con un deficit di migliaia di miliardi”. Questo significa che i pericoli per la stabilità economica sono enormi: il deficit di bilancio degli americani ha già raggiunto i livelli della seconda guerra mondiale. Negli ultimi tre mesi del 2008 le spese degli Stati Uniti hanno superato di circa 480 miliardi di dollari le entrate. E nel 2009 si prevede un deficit di circa 1.200 miliardi di dollari, pari all’8 per cento del pil. Inoltre Obama vuole far approvare un pacchetto di misure anticrisi da circa 800 miliardi di dollari, che farebbero aumentare il deficit fino all’11 per cento del pil. A questo si aggiungono altre uscite legate alla recessione, come per esempio i costi crescenti della previdenza sociale. Obama, infatti, non vuole rinunciare ai costosi progetti di riforme del suo programma elettorale, come l’assicurazione sanitaria per tutti gli statunitensi. Già ora quasi tutte le entrate dello stato vengono fagocitate da quattro grandi voci di spesa: il welfare, la difesa, la sanità e gli interessi sul debito pubblico. Tutto il resto deve essere finanziato con nuovi debiti. Un fatto pericoloso, innanzitutto perché i compratori per i titoli di stato americani, cioè degli strumenti con cui lo stato finanzia i suoi debiti, potrebbero diminuire. Secondo gli esperti, il rischio è ancora contenuto. Anzi, la domanda di titoli del tesoro americano, considerati relativamente sicuri, è insolitamente elevata. “Tuttavia, se il prossimo tentativo di salvataggio dell’economia fallirà, la credibilità finanziaria degli Stati Uniti ne uscirà compromessa”, avverte Johnson. In ogni caso, aggiunge Rogoff, gli americani avvertiranno chiaramente gli effetti dell’indebitamento. Per anni l’inflazione resterà alta, fino al 6 per cento. “E per un lungo periodo, forse sei o sette anni, assisteremo a una crescita annua molto lenta, intorno all’1 o al 2 per cento”. Nel prossimo futuro, inoltre, Obama non potrà fare a meno di alzare le tasse per sostenere il bilancio pubblico. Leonard Burman, capo del Centro indipendente di politica iscale, avverte: “Spendere mille miliardi per impedire il crollo economico mondiale è un investimento giusto. Ma se non stiamo attenti alle conseguenze a lungo termine, ci troveremo di fronte a una crisi economica molto peggiore di quella attuale”. Gli Stati Uniti non sono i soli ad avere problemi.
La Gran Bretagna è sull’orlo del baratro: gli immobili sono sopravvalutati, le famiglie sono indebitate pesantemente, il settore finanziario non riesce a riprendersi. La fiducia nelle capacità del paese di uscire dalla crisi diminuisce sempre di più, come si vede dalla drammatica svalutazione della sterlina: oggi la moneta britannica vale circa 1 euro, mentre pochi mesi fa era ancora a 1,4. “Non investirò più in Gran Bretagna”, dichiara il finanziere Jim Rogers, mentre l’economista Willem Buiter, ex consulente della Banca d’Inghilterra, mette in guardia dal “rischio che il paese faccia la fine dell’Islanda”. L’Italia ha il terzo debito pubblico al mondo, pari al 106 per cento del pil nazionale. Finora questo fatto non costituiva un grave problema, dato che il paese ha sempre avuto una quota consistente di risparmio. Bastava far arrivare i risparmi nelle tasche dello stato: a questo servono i Buoni del tesoro (Btp), che oggi, secondo il ministro dell’economia Giulio Tremonti, rappresentano “l’investimento in assoluto più solido e sicuro”. Ma negli ultimi tempi non tutti sono d’accordo, e meno che mai gli italiani. Così l’emissione di titoli di metà gennaio ha trovato compratori solo dopo che il tasso d’interesse è stato alzato in modo consistente. E quest’anno scadranno titoli di stato a breve termine per un valore di 220 miliardi di euro. A dicembre il ministro del lavoro Maurizio Sacconi ha messo in guardia dal pericolo di una completa bancarotta dello stato se i Btp restassero invenduti: “Ci potrebbero essere problemi nel pagamento degli stipendi e delle pensioni, e finiremmo come l’Argentina”. Bilanci in deficit. La Gran Bretagna come l’Islanda, l’Italia come l’Argentina. Non c’è da stupirsi che i cittadini si preoccupino. Mai prima d’ora, dai tempi della grande depressione, era stato adombrato il pericolo del fallimento di uno stato in Europa. I bilanci della maggior parte dei paesi dell’Unione europea non sono in buone condizioni. Gli esperti finanziari della Commissione europea stimano che il deficit pubblico nei sedici stati della zona euro raggiungerà il 4 per cento del pil quest’anno e salirà al 4,4 per cento l’anno prossimo. Secondo gli accordi di Maastricht, nell’Ue la soglia massima consentita sarebbe il 3 per cento, ma 17 stati membri la supereranno già nel 2010. Tra questi ci sono tutti i grandi paesi – la Germania (4,2 per cento), la Francia (5 per cento), la Spagna (5,7 per cento) e la Gran Bretagna (9,6 per cento) – e alcuni stati più piccoli come l’Irlanda, che prevede di arrivare al 13 per cento. Sono previsioni ancora sulla carta. “Ma prima o poi,” avverte il ministro delle finanze austriaco Josef Pröll, “arriverà il momento di pagare il conto”. Con i suoi colleghi dell’Ue, Pröll ha lanciato un appello per un cambiamento di rotta. “Agli stimoli fiscali”, spiega, “deve seguire al più presto il risanamento dei bilanci”. Ma nessuno sa ancora come farlo. Alla commissione economia del parlamento europeo, il commissario dell’Ue per gli affari economici e monetari, Joaquín Almunia, è stato sommerso di domande su questo argomento. Almunia ha annunciato che raccomanderà ad almeno sei paesi di ridurre il loro deficit di bilancio, ma non ha spiegato come dovranno farlo. Alcuni stati non prendono neanche in considerazione l’idea di sanare i loro conti. Al contrario, si sforzano di immettere la massima quantità di denaro nell’economia. E con il tempo diventerà sempre più difficile riequilibrare i bilanci. “Sui mercati finanziari i paesi piccoli sono schiacciati da quelli più grandi, che assorbono sempre più miliardi con le loro emissioni di titoli di stato”, hanno rinfacciato ad Almunia i deputati del parlamento europeo. “È vero”, ha risposto il commissario, ma non si può certo “abolire il libero mercato dei capitali”. Per risolvere il problema, Jean-Claude Juncker, capo del governo e ministro delle finanze lussemburghese, ha proposto che i sedici paesi della zona euro emettano titoli di credito comuni, gli Eurobond. L’idea ha raccolto consensi tra i piccoli, ma ha incassato un netto rifiuto dai grandi, in particolare da Berlino. Finora il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrück è riuscito a ottenere denaro in prestito a condizioni particolarmente vantaggiose, perché la Germania è considerata un debitore molto afidabile. Ma se dovesse riempire le sue casse con gli Eurobond, Berlino dovrebbe pagare tre miliardi di euro in più già quest’anno. Anche Pröll è poco convinto: secondo lui, gli Eurobond sono come dare “il permesso di contrarre debiti a spese degli altri”. Alcuni paesi dell’Unione continuano a indebitarsi da anni senza preoccuparsi delle conseguenze, ma con la crisi attuale non fanno che peggiorare i loro problemi. Devono pagare interessi più alti sui titoli, perché la loro credibilità di debitori è sempre più bassa. I più colpiti sono la Spagna, l’Italia, l’Irlanda e soprattutto la Grecia. Chi deve prendere denaro in prestito così a caro prezzo scivola presto in un diabolico circolo vizioso di tassi sempre più alti, che a loro volta comportano nuovi debiti. A quel punto le agenzie di rating abbassano il giudizio sull’afidabilità del paese e i tassi salgono ancora. In passato paesi come l’Italia, la Grecia e la Spagna avevano risolto il problema svalutando le loro monete: in questo modo diminuiva il peso degli interessi sul debito pubblico e si assicuravano migliori prospettive alle esportazioni. Oggi con la moneta unica non possono più farlo. Questi vecchi rimedi sono tabù, a meno di non voler uscire dalla zona euro. La possibile disintegrazione di Eurolandia è un tema molto discusso sui mercati finanziari. Ma la possibilità che i paesi troppo indebitati escano spontaneamente dalla moneta unica non è contemplata dagli accordi comunitari. E del resto è poco verosimile, perché aggraverebbe i problemi: la loro credibilità sarebbe ancora più bassa, i crediti diventerebbero ancora più cari e i vecchi debiti dovrebbero essere saldati comunque in euro. E con una moneta svalutata i costi salirebbero ulteriormente. Il commissario europeo per le imprese e l’industria Günter Verheugen ritiene che la prospettiva dell’abbandono della moneta unica faccia parte di una campagna “contro l’euro lanciata dagli speculatori anglosassoni”. Ma in realtà cosa succede quando fallisce uno stato della zona euro? Prendiamo per esempio la Grecia, che nei prossimi due anni ha bisogno di 48 miliardi per saldare i vecchi debiti e che nel frattempo deve tappare dei nuovi buchi nel suo bilancio. Se la Grecia si dichiarasse insolvente, eviterebbe conseguenze peggiori per il momento grazie all’appartenenza alla zona euro. La moneta unica si svaluterebbe un po’, ma dal momento che l’economia greca non ha una grande rilevanza in Europa, le ripercussioni sarebbero contenute. Anche le conseguenze per la Grecia resterebbero limitate: grazie all’euro, che comunque è una valuta forte, non ci sarebbe nessuna crisi del mercato al dettaglio né accaparramenti delle merci né la nascita di un mercato nero. Quindi non ci sarebbe nessuna ripercussione nell’economia reale né un aumento della disoccupazione. La vita di uno stato insolvente difeso dall’Ue è relativamente facile. Ma è molto più importante capire come reagirebbe Bruxelles. Potrebbe dichiarare la Grecia un caso straordinario e sostenerla con un prestito ponte, ma le conseguenze sarebbero fatali: per quale motivo, infatti, i paesi più deboli dovrebbero preoccuparsi in futuro di saldare i loro debiti, sapendo che c’è sempre qualcuno pronto a dargli una mano? L’Ue, al contrario, potrebbe assumere una posizione più rigida. Questo sarebbe giusto nei confronti degli stati membri che hanno tenuto in ordine i loro bilanci, ma non sarebbe sostenibile in termini politici. Gli investitori, infatti, comincerebbero a evitare tutti gli stati su cui grava anche il più piccolo sospetto di scarsa solvibilità. A quel punto il rischio paese aumenterebbe e il virus greco comincerebbe a estendersi ad altri paesi, che rischierebbero di fallire. Questo caso, del tutto teorico, preparerebbe effettivamente la fine dell’euro: la moneta unica può reggere la bancarotta di un paese, ma non una serie di fallimenti. Rating vacillanti Gli euroscettici avevano avvertito fin dall’inizio che un giorno la moneta unica avrebbe potuto frantumarsi a causa delle tensioni all’interno della zona euro. Ora vedono confermati i loro timori, anche se per ora scenari simili sono solo ipotetici. La Germania, per esempio, non ha grossi problemi di inanziamento. Ma di fronte alle voragini miliardarie che si aprono ogni giorno, anche gli acquirenti dei suoi titoli di stato cominciano a preoccuparsi. Molti investitori si chiedono già oggi come si presenti il futuro per gli stati con un rating AAA, il giudizio di massima afidabilità. L’équipe di Alexander Kockerbeck, analista dell’agenzia di rating statunitense Moody’s, ha sottoposto l’economia tedesca a una simulazione: ha raccolto i dati relativi agli scenari più pessimisti, e per gli anni 2010 e 2011 ha previsto un crollo dell’economia tedesca pari al 3 per cento all’anno. Nei suoi modelli il debito pubblico è salito dal 70 all’80 per cento del pil. “In questo caso per far pagare gli interessi legati al debito pubblico bisognerebbe usare circa il 7 per cento del gettito fiscale”, spiega Kockerbeck, che ritiene questa quota ancora sostenibile per Berlino. Se gli interessi arrivassero al 10 per cento delle entrate fiscali, invece, la valutazione AAA comincerebbe a vacillare, facendo esplodere i costi dello stato. Normalmente, in una situazione di rating elevato e di congiuntura favorevole, i governi contraggono debiti con una procedura piuttosto semplice. In Germania, per esempio, lo stato emette titoli a rendimento fisso con scadenze che possono variare da un giorno a trent’anni. Altri paesi, come la Francia e la Gran Bretagna, emettono addirittura obbligazioni cinquantennali. La collocazione dei titoli di stato avviene per lo più grazie a delle aste, dette tender, nel corso delle quali i compratori fanno le loro offerte. Quanto più alto è il numero di acquirenti, tanto più vantaggiosa è l’emissione per lo stato e tanto più basso è il tasso d’interesse. L’abbattimento del debito pubblico, invece, è una questione molto più complessa. In teoria lo stato dovrebbe rimborsare i prestiti alle scadenze fissate. Ma succede molto raramente: di regola i governi non estinguono i debiti, ma li rinnovano. Anzi, ogni anno contraggono nuovi prestiti, e così fanno aumentare gli interessi. Già oggi la Germania spende 43 miliardi di euro all’anno di interessi sul debito pubblico. è la seconda voce di spesa nel suo bilancio. L’unico settore in cui Berlino spende di più è la previdenza sociale. Ma se i tassi d’interesse arrivassero ai livelli elevati raggiunti nel 1995, già oggi la Germania sarebbe costretta a spendere 20 miliardi di euro in più all’anno. Senza contare gli altri debiti che potrebbe contrarre in futuro a causa della crisi economica. Nessuno sa fino a che punto aumenterà l’indebitamento né come farà lo stato a liberarsene prima che il pagamento degli interessi lo strangoli. Il metodo più difficile per rimborsare i prestiti è risparmiare, quello più facile è usare l’inflazione, cioè stampare denaro fresco con cui pagare i debitori. L’inconveniente dell’inflazione è che quando la banca centrale immette nuove banconote nel sistema economico, la moneta si svaluta. Poco male, visto che l’obiettivo principale dello stato è sbarazzarsi dei suoi debiti. Qualunque sia il metodo attuato, il conto lo pagano i contribuenti. Nei periodi di crisi l’abbattimento del debito pubblico attraverso il rimborso dei titoli è possibile solo se il governo alza le tasse o taglia la spesa pubblica. La svalutazione della moneta causata dall’inflazione, invece, è compensata dai prezzi crescenti. Finora il processo ha funzionato in modo piuttosto nascosto. Dalla fine degli anni novanta la quantità di denaro in circolazione è triplicata sia negli Stati Uniti sia in Europa. E con l’attuale diluvio di liquidità le banche centrali vogliono impedire il crollo del sistema finanziario e dell’economia reale, ma stanno spianando la strada alla prossima crisi. Il costo del denaro è molto contenuto: la Federal reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, ha abbassato il tasso di sconto praticamente a zero, mentre la Banca centrale europea si è fermata al 2 per cento, anche se sono molto probabili altre riduzioni. Se le misure di salvataggio funzionano e l’economia si riprende, le autorità monetarie aumenteranno di nuovo i tassi facendo rientrare il pericolo dell’inflazione. Se invece la crisi continua e le banche centrali immettono altra liquidità nel sistema, potrebbe subentrare una fase di inflazione galoppante, che aprirebbe le porte alla bancarotta dei paesi troppo indebitati. Fenomeno universale In uno studio realizzato per l’Fmi, gli economisti statunitensi Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno analizzato le crisi finanziarie degli ultimi otto secoli, arrivando alla conclusione che la bancarotta dello stato “è un fenomeno praticamente universale”.
Molti paesi ne hanno affrontata perfino più di una. La Francia, per esempio, si è trovata in condizioni di insolvenza otto volte tra il 1500 e il 1800. La Spagna è fallita sette volte nell’Ottocento. Situazioni di questo tipo si sono verificate in tutte le epoche e in ogni parte del mondo. Quindi sarebbe sbagliato credere che la bancarotta dello stato sia “una particolarità della finanza moderna”. Nella maggior parte dei casi il tracollo finanziario è stato causato dall’enorme fabbisogno di capitale provocato dalle guerre. Ma i governi sono sempre riusciti a evitare la rovina totale. Hanno dimostrato una straordinaria inventiva nel trovare il modo per liberarsi dei loro obblighi a spese delle banche, delle imprese e soprattutto dei cittadini. La soluzione più semplice è rifiutarsi di pagare i debiti. Andò così nel 1557, quando il re di Spagna, Filippo II, non fu più in grado di restituire i prestiti ottenuti per finanziare le sue campagne militari contro i Paesi Bassi e l’impero ottomano. Le grandi banche tedesche dei Fugger e dei Welser subirono un tracollo da cui non riuscirono più a riprendersi. Ma la crisi delle finanze statali diventò ancora più facile da risolvere quando si diffuse la cartamoneta. A quel punto bastava solo disporre di una macchina da stampa. I francesi cominciarono a usare questo metodo nel settecento per ridurre gli enormi debiti lasciati dal re Sole, Luigi XIV. E da allora i governi hanno sempre avuto questa tentazione. Nel 1914 il Reich tedesco decise di abbandonare il sistema aureo, in base al quale chiunque poteva scambiare le proprie banconote con la quantità di oro che rappresentavano. Così il denaro in circolazione balzò rapidamente da 13 a 60 miliardi di marchi, mentre l’offerta di merci diminuì di un terzo. Di conseguenza, i prezzi salirono alle stelle. Questi sviluppi culminarono nel 1933 in un periodo di iperinflazione: all’epoca per comprare un dollaro bisognava sborsare 4,2 miliardi di marchi. Le banconote tedesche venivano stampate in più di 130 tipograie private. Solo una radicale riforma valutaria avrebbe potuto frenare la svalutazione del denaro. Da allora la paura dell’iperinflazione e della perdita dei risparmi è profondamente radicata nella memoria collettiva, soprattutto in quella dei tedeschi.

Ora è il momento di avere di nuovo paura?

In confronto a molti altri paesi, la Germania se la cava abbastanza bene: ha un’economia relativamente solida, non dipende fortemente dal settore finanziario, come la Gran Bretagna, né è costretta a fare troppo affidamento sugli investitori stranieri, come succede agli Stati Uniti. L’Islanda, invece, è praticamente sul lastrico e nell’Europa orientale ci sono molti paesi, come la Lettonia, che devono chiedere aiuto all’Fmi e alla Banca dell’Europa orientale. Nella zona euro alcuni stati dovrebbero sicuramente lottare per la loro sopravvivenza se non fossero protetti della moneta unica. Gli Stati Uniti, infine, puntano sul fatto che, nonostante i loro enormi problemi, sono ancora considerati sicuri e che il dollaro resiste grazie all’enorme quantità di capitale investito dai cinesi nei titoli di stato di Washington. Tutto bene, allora? Chi crede che gli stati abbiano imparato dagli errori del passato si illude, avvertono Reinhart e Rogoff. In realtà, potrebbe succedere ancora che un paese fallisca. In qualsiasi momento. Una cosa comunque è chiara: in questa crisi non c’è più niente di impensabile.

“Internazionale”, n. 782