lunedì 15 giugno 2009

Il coraggio e la morale di Enrico Berlinguer

Il coraggio di Berlinguer. di Paul Ginsborg
Sapeva come difendere la democrazia, ma non aveva un’idea convincente per farla crescere.
Paul Ginsborg ricorda il leader del Pci

Nel 1994, a dieci anni dalla sua morte, scrissi che nella storia della repubblica a Berlinguer spettava il ruolo del “leader politico che fece di più per salvare l’Italia e la sua democrazia in un periodo di grande travaglio” (Dialogo con Massimo D’Alema, Giunti). Oggi non posso che confermare quel giudizio. Per capire perché, bisogna tornare per un momento dentro la grande crisi della prima parte degli anni settanta.

La storia della repubblica è tragicamente segnata a intervalli regolari da crisi di ogni tipo: politiche, economiche, sociali e culturali. La crisi degli anni settanta fu certamente la più drammatica, e combinava più elementi. Il primo, quello economico, raggiunse il suo culmine nel 1974-1975: la crisi petrolifera aveva colpito l’Italia in modo particolarmente duro, la bilancia dei pagamenti era sempre più in rosso, le aziende più importanti erano fortemente indebitate, l’inflazione cresceva vertiginosamente. Nel 1975 l’inflazione era al 17 per cento, mentre il prodotto nazionale lordo registrava il risultato peggiore dalla fine della guerra: -3,50 per cento, cifra che quasi sicuramente sarà superata dai dati del 2009.

Allo stesso tempo l’Italia diventò uno dei principali teatri di un conflitto internazionale che abbracciava l’intero bacino del Mediterraneo. A est della penisola incombeva il nuovo modello di autoritarismo dei colonnelli greci. A ovest, la penisola iberica era scossa dalla rivoluzione portoghese del 1974-1975 e dalle incerte prospettive che si erano aperte in Spagna dopo la morte di Franco. Il Medio Oriente era in fiamme, la Turchia in mezzo a una guerra civile non dichiarata. Non a caso l’Economist definì il Mediterraneo come il “ventre molle della Nato”.

In Italia questo fu il momento storico delle grandi trame e della grande ondata del terrorismo. Posso solo accennare a questi eventi drammatici, ma per fortuna non tutti gli elementi della crisi coincidevano o convergevano nello stesso momento. Se così fosse stato, quasi sicuramente la democrazia repubblicana non sarebbe sopravvissuta. Nei primi anni settanta troviamo la variegata offensiva della strategia della tensione: le mosse di un ambasciatore americano irresponsabile, Graham Martin, e un capo dei servizi segreti, Vito Miceli, con “tendenze sospette”; la versione italiana particolarmente feroce della stagflazione nel 1974-1975; dal 1973 la crescita del terrorismo di estrema sinistra; alla fine del decennio la loggia P2.


Compromesso storico

I pericoli per la democrazia italiana, quindi, erano reali, e la risposta di Berlinguer – la difesa a oltranza delle istituzioni repubblicane, la creazione di una vasta alleanza democratica nel parlamento e nel paese, il compromesso storico, la netta scelta di campo internazionale per il suo partito (“mi sento più sicuro stando di qua”) – fu all’altezza della situazione.

Dopo il 1945 ogni leader comunista dell’occidente doveva conciliare interessi e lealtà diverse: di partito, di classe, di collocazione internazionale, di nazione. Nella situazione surriscaldata italiana degli anni settanta e sulla scia degli avvenimenti cileni, Berlinguer non esitò. “L’unità del popolo per salvare l’Italia” è il significativo titolo del lungo discorso con cui aprì il quattordicesimo congresso del Pci nel marzo del 1975. E in un discorso parlamentare del luglio 1977 osservò: “Eccezionale è stata la tenuta del paese di fronte alle prove tremende di questi ultimi anni di crisi economica e sociale, di trame antidemocratiche, di crociate integralistiche e di deflagrazione del terrorismo”.

Bisogna notare che questa grande sensibilità ai pericoli dell’epoca e ai possibili esiti catastrofici combaciava fortemente con la personalità di Berlinguer, non cupa ma certamente gravata dal peso della storia. Ma la sua sintonia con il momento, quelle sue antenne così sensibili ai rischi, avevano anche un rovescio della medaglia. Si può dire che Berlinguer avesse una visione lungimirante di come difendere la democrazia italiana, ma non un’idea così convincente di come farla crescere.

Gli anni dopo il 1976 dovevano essere, per usare le sue parole, un periodo di “profondo cambiamento nelle strutture politiche, economiche e sociali”. In realtà furono una continua richiesta di sacrifici, senza le contropartite necessarie per sostenere quella grande ondata di speranza e di richiesta di cambiamento che veniva dal voto del 1976. Ci furono certamente delle riforme in quegli anni, e almeno una fu importantissima, quella che istituiva il servizio sanitario nazionale nel 1978. Il Pci entrava nell’area di governo, ma invece di introdurre nuove e democratiche forme di gestione del potere sembrava adottare le abitudini degli altri partiti.

Ancora nel 1978 Norberto Bobbio notava “un potere ascendente” nella società italiana, il prodotto di anni di mobilitazione di massa nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri. Ma questo “potere ascendente” non trovava gli esiti politici sperati. C’era il bisogno di difendere la democrazia e allo stesso tempo di innovare, di essere – nelle parole di un appunto di Antonio Tatò a Berlinguer del febbraio 1978 – “conservatori e rivoluzionari”.

L’austerità

Questa considerazione mi porta a una seconda questione: l’austerità, una “occasione per trasformare l’Italia”, come recita il titolo di un suo famoso scritto pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1977. Tra le voci internazionali che negli anni settanta criticarono il modello di modernità capitalistica, una delle più alte e intelligenti fu quella di Berlinguer. Nelle sue conclusioni al convegno degli intellettuali del 15 gennaio 1977, Berlinguer sostenne la necessità di abbandonare “l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario”.

Nel 1983, al sedicesimo congresso del Pci, in un discorso che per molti aspetti rappresentò il suo testamento morale e politico, tornò sui temi dello spreco, del consumo e del declino: “La società capitalistica contemporanea ha prodotto e produce sempre più un inaridimento dell’uomo… una spinta esasperata al consumismo individuale, alla avidità di denaro, di successo, di potere, considerati il fine primo dell’esistenza umana”.

Di fronte a queste tendenze Berlinguer propose una nuova austerità, concepita non in termini di un angusto puritanesimo, ma come l’accettazione generale del bisogno di invertire le principali tendenze della società moderna, eliminando le distorsioni più vistose. L’austerità era “rigore, efficienza, severità”, ma mirava a creare “una società più giusta, meno diseguale, relativamente più libera, più democratica, più umana”. E doveva farlo non solo all’interno delle società capitalistiche avanzate, ma nei rapporti tra nord e sud del mondo. Come nel caso della sua difesa della democrazia, così nelle sue riflessioni sui consumi e sugli sprechi è difficile non apprezzare le posizioni di Berlinguer, il loro peso anticipatorio, il loro senso di giustizia.

Sul degrado pubblico il leader comunista giocava in casa: aveva uno spiccato senso del pubblico e della necessità di cambiarne radicalmente il volto, di contestare il degrado e l’inefficienza della pubblica amministrazione, la corruzione endemica della vita pubblica italiana, il ruolo spesso negativo dei partiti. Essendo comunista, Berlinguer aveva anche un’idea forte dell’importanza dei servizi pubblici: gli asili nidi, le scuole e (guarda caso) il servizio sanitario nazionale, così fortemente voluto da lui e da suo fratello Giovanni.

In questo campo i loro discorsi dell’epoca risuonano forti e chiari ancora oggi. La stessa cosa si può dire per i rapporti tra nord e sud del mondo. Berlinguer dimostrava una sensibilità forte verso quei “due terzi del mondo, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di inferiorità rispetto ai popoli e ai paesi che hanno finora dominato la vita mondiale”.

Ma l’austerità era anche una critica incessante ai consumi privati, e qui Berlinguer si trovava su un terreno molto più insidioso. I comunisti italiani avevano sempre dedicato molta attenzione al mondo della produzione, ma molto meno a quello del consumo. La critica di Berlinguer resta generica, manca una prima tipologia dei consumi privati, una vera capacità di operare distinzioni nel mondo della cultura materiale e immateriale.

Questa lacuna ha molto a che fare con l’analisi berlingueriana della crisi di cui ho parlato prima. Un’analisi spesso catastrofica, che lasciava poco spazio a una dialettica più sfumata. I consumi privati moderni avevano certamente forti elementi di futilità. Ma avevano anche elementi liberatori che non andavano sottovalutati in nessun modo: le possibilità di ampliare le scelte individuali, di viaggiare, di comunicare, di rispondere ai desideri in quel campo che il sociologo Colin Campbell ha definito “edonismo immaginativo autonomo”.

Tutto questo non corrisponde al concetto di “austerità”, e non a caso la proposta di Berlinguer ha avuto vita breve. La sua intuizione era giusta, ma la parola “austerità” non era quella adatta e la condanna dei consumi individuali troppo indiscriminata. Nel mondo contemporaneo l’individualismo non si traduce automaticamente in egoismo e atomizzazione. Il consumismo moderno non è solo inaridimento dell’uomo. è soprattutto una ricerca di identità in un mondo insicuro e di nuovo in crisi. Il massimo tributo che possiamo offrire a Berlinguer è cercare di andare oltre il punto in cui fu costretto a passare il testimone, e soddisfare pienamente questo bisogno di identità, che si basa senz’altro sull’individuo, ma in un nuovo contesto collettivo che dobbiamo ancora costruire insieme.

Paul Ginsborg è uno storico britannico. Insegna storia dell’Europa contemporanea all’università degli studi di Firenze. Il suo ultimo libro è La democrazia che non c’è (Einaudi 2006).
Questo articolo è il testo del discorso tenuto alla camera dei deputati durante la commemorazione di Enrico Berlinguer, organizzata dal Partito democratico il 21 maggio 2009.

[Fonte Internazionale]


La questione morale. Ieri e oggi
di Eugenio Scalfari
«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer.
«I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».

La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.

Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
Noi sostenemmo che le storture produttive e, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire. . .

«La Repubblica» 28 luglio 1981

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