tag:blogger.com,1999:blog-91358335781551543082024-03-08T20:01:09.815+01:00Osservazione Materiale - Uno sguardo sul mondo"La cultura è un coltello affondato nel futuro per dimostrare che ciò che ci sembra ovvio e necessario è invece contingente e revocabile."
(Zygmunt Bauman)delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.comBlogger55125tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-62156219828606255522012-02-02T19:02:00.001+01:002012-02-08T15:53:27.011+01:00Quo vadis, Italia?<span style="background-color: cyan; font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px; text-align: left;">"Quo vadis, Italia?" di Antonio Polichetti - La Scuola di Pitagora Editrice</span><br />
<span style="background-color: cyan; font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px; text-align: left;"><br /></span><br />
<span style="background-color: cyan; font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px; text-align: left;">Quando lessi il libro di Naomi Klein, "Shock Economy", un'idea mi frullava per la testa per tutta la durata della lettura: gli italiani sono stati i veri inventori o precursori del moderno capitalismo dei disastri.</span><br />
<span style="background-color: cyan;"><span style="font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px; text-align: left;">Nel 1980, infatti, mentre</span><span class="text_exposed_show" style="display: inline; font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px; text-align: left;"> negli Stati Uniti veniva eletto, per la prima volta, Ronald Reagan, in Italia si verificò il terribile terremoto in Irpinia. Per cui, mente l'ex attore hollywoodiano restò impegnato nei successivi otto anni a diffondere e a concretizzare il neoliberismo selvaggio della Scuola di Chicago, che avrebbe gettato le basi per l'economia delle catastrofi, in Italia i politici corrotti, gli imprenditori parassitari settentrionali, la borghesia mafiosa e le organizzazioni criminali del Sud, le professioni liberali che mettono le loro competenze intellettuali a disposizione del malaffare, i pubblici funzionari infedeli, già la applicavano e la eseguivano diligentemente e già se la ridevano a crepapelle, manco fossero tutti dei Piscicelli De Vito prima maniera.<br />E, infatti, avevavo ottimi motivi per rallegrarsi, nonostante le devastazioni e le migliaia di morti provocate dal terremoto, perchè di lì a poco, grazie alla legge 219/81, che Polichetti definisce con termine ben azzeccato, "criminogena", si sarebbero spartiti la bellezza di 50mila miliardi di lire!<br />La consapevolezza che in Italia vi fossero caste e corporazioni che ingrassavano grazie alla spesa pubblica, sfruttando finanziamenti a pioggia, incentivi pubblici, risorse della collettività, e quant'altro, già era ben radicata nella mia testa a partire dagli anni '70 (soldi pubblici dati a fondo perduto alle imprese private decotte, che ricattavano lo stato e la società civile con la scusa e con la minaccia delle chiusure e dei licenziamenti; già nei '70, lo ricordo benissimo, si parlava di "socializzazione delle perdite d'impresa e di privatizzazione dei profitti"), ma dopo il terremoto dell' '80, la prassi di attingere truffaldinamente dalle casse dello stato si consolidò e si istituzionalizzò, potenziando e degenerando ulteriormente sia la casta politica che l'imprenditoria a rischio zero che le organizzazioni mafiose e camorristiche.<br />Si pensi dunque alla soddisfazione che ho provato leggendo questo libro di Polichetti che, con chiarezza e pertinacia, eleva questa constatazione ad analisi storico-politica e sociale della crisi italiana.<br />Anche se il testo del giovane autore napoletano passa in rassegna, con rigore scientifico ed esemplare metodologia di ricerca, avvalendosi di una vasta emerografia e di una notevole bibliografia, tutti gli episodi scandalosi e rovinosi della storia italiana della corruzione, dell'illegalità e del malaffare, non è il solito dossier di inchiesta, quello che ha scritto, ma un'opera di approfondimento nella quale la teoria storica, sociale e politica si intreccia efficacemente con la cronaca dei fatti esaminati.<br />Il libro, infatti, prologa con due capitoli storici che fanno risalire la crisi del Mezzogiorno d'Italia alla grande depressione economica del '600 (nel corso del quale secolo, i moti popolari nel Regno di Napoli furoni sconfitti lasciando mano libera all'ingordigia tributaria della corona spagnola e campo libero alla restaurazione del feudalesimo baronale) e la formazione del perverso e rapace "blocco sociale", che ha come fine lo spolpamento parassitario dello stato italiano e la appropriazione dei beni pubblici, all'ingresso nel governo unitario della cosiddetta "Sinistra storica".<br />Seguendo questo filo conduttore, l'autore ripercorre la storia italiana di oltre un secolo, dando una spiegazione convincente del per come e del perchè questo paese abbia vissuto perennemente sul debito pubblico, sul malaffare, sullo sfruttamento e sul consumo del territorio e delle risorse pubbliche. I fatti che vi si descrivono, esaminati in tante altre inchieste, servono, perciò, a convalidare la tesi che l'Italia è stata dalla sua fondazione dominata da un "capitalismo straccione" che ha azzerato il rischio e non ha mai esitato ad allacciare le più spregevoli alleanze e a perseguire i più schifosi obiettivi, pur di difendere i propri interessi e i propri privilegi. Checchè se ne dica, l'unità di Italia si è realizzata compiutamente in questa ignobile consociazione tra la borghesia, l'impresa e la finanza del nord e i latifondisti, prima, e la borghesia mafiosa e le organizzazioni criminali del sud, poi. Il tutto tenuto insieme dalla politica corrotta, dalle professioni liberali conniventi e dagli apparati dello stato compiacenti, che si sono sempre fatti servi prezzolati di questo patto scellerato.<br />Il libro, alla luce di queste teorie che prendono spunto dal pensiero progressista italiano, da quello meridionalista e da quello di Gramsci in particolare, nonchè, come ripetutamente ci avverte l'autore, dal pensiero umanistico meridionale di Giordano Bruno, dia Gianbattista Vico, di Gaetano Filangieri, di Mario Pagano, di Bertrando Spaventa e di Benedetto Croce, procede impeccabilmente nell' analisi fino al penultimo capitolo. Solo l'ultimo capitolo, quello che necessariamente tutti gli autori dedicano, dopo aver diagnosticato ampiamente la situazione, ai pronostici, agli auspici e ai progetti, mi lascia perplesso. Dopo averci parlato di "blocco sociale" dominante per tutto il libro (trascurando, però, il "blocco" antagonista che pure è stato attore di una certa prospettiva di rinnovamento; ma questo lo capisco, perchè l'obiettivo del libro è quello di dimostrare le responsabilità del disastro italiano), l'autore rilancia, appellandosi a chi? alla buona volontà dei politici, degli intellettuali e della stessa borghesia dei disastri?, solo l'unità politica, territoriale e istituzionale europea come soluzione finale, senza spiegarci chi e perchè la dovrebbe realizzare, o per meglio dire, sulle spalle di quale "blocco sociale" alternativo dovrebbe concretizzarsi. Ma, chiaramente, questo è un tema che dovrebbe investire, soprattutto, partiti, movimenti, associazioni e sindacati.</span>
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<span class="text_exposed_show" style="background-color: cyan; display: inline; font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px; text-align: left;"><br /></span><br />
<span class="text_exposed_show" style="background-color: #edeff4; color: #333333; display: inline; font-family: 'lucida grande', tahoma, verdana, arial, sans-serif; font-size: 11px; line-height: 14px; text-align: left;"><b>delinus</b></span>delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-85648945440901473772012-02-02T18:50:00.000+01:002012-02-02T18:52:08.160+01:00Morire di rifiuti, reportage da Napoli Nord<span style="color: #848485; font-size: 11px; text-transform: uppercase;">DI PETER POPHAM – </span><abbr class="published" style="border-bottom-style: none; border-color: initial; border-color: initial; border-image: initial; border-left-style: none; border-right-style: none; border-top-style: none; border-width: initial; border-width: initial; color: #848485; font-size: 11px; text-transform: uppercase;" title="2012-01-31T11:52:25+01:00">MARTEDÌ 31 GENNAIO 2012</abbr><br />
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<div style="background-color: white; color: #333333; font-family: 'Lucida Grande', Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 14px; line-height: 21px; margin-bottom: 1.25em; padding-bottom: 0px; padding-left: 0px; padding-right: 0px; padding-top: 0px;">
<strong>L’inviato speciale dell’Independent Peter Popham visita l’area nota come Triangolo della morte per l’alta incidenza di tumori di origine ambientale: ecco il racconto pubblicato dal giornale britannico</strong></div>
<hr style="background-color: white; color: #333333; font-family: 'Lucida Grande', Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 14px; line-height: 21px;" />
<div style="background-color: white; color: #333333; font-family: 'Lucida Grande', Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 14px; line-height: 21px; margin-bottom: 1.25em; padding-bottom: 0px; padding-left: 0px; padding-right: 0px; padding-top: 0px;">
Gli antichi romani chiamavano questa regione Campania felix, “felice Campania”, e si può ancora capire perché. Una volta era un paradiso terrestre: il Mar Tirreno pieno di pesci, il Vesuvio a sud, che minacciava distruzione, ma a cui è anche dovuta l’immensa fertilità del suolo.<br />
Qui, nella vasta pianura ad est di Napoli, sorsero città che, grazie a questa fertilità, erano ancora prospere ancora mille anni dopo. Diventarono importanti sedi della cultura: nel sedicesimo secolo una di queste, Nola, produsse il genio inquieto di Giordano Bruno, uno dei primi a giungere alla conclusione che la Terra girava intorno al sole, piuttosto che il contrario, e che le stelle erano altri soli con propri pianeti, e che erano infinitamente numerose e sarebbero esistite per sempre. Per questi oltraggi contro la fede la Chiesa lo bruciò sul rogo a Roma.<br />
L’uomo che mi guida nella città di Bruno e mi porta ad ammirare la vista del convento medievale di Sant’Angelo in Palco, sollevato in alto sopra la pianura come un grande pulpito, è un nolano come Bruno, ed estremamente orgoglioso della sua città, della sua storia e del suo patrimonio. E come Bruno, è toccato a lui di dire le le verità che le autorità non vogliono sentire.<br />
Il nome del cardiologo Alfredo Mazza, oggi un ancora giovane 40 enne, divenne noto non solo in Italia, sette anni fa quando, in un rapporto pubblicato da The Lancet Oncology, la rivista britannica sul cancro, definì “Triangolo della Morte” la zona delimitata al suo estremo orientale con la sua città natale e ad ovest con Marigliano e Acerra distanti rispettivamente 8 km e 17 km.<br />
La sua ricerca ha rivelato che in questa zona l’incidenza di alcuni tipi di cancro è massicciamente più alta che altrove in Italia. In tutta Italia, in media, 14 maschi ogni 100 mila muoiono di cancro al fegato, qui, la media è di 35,9. L’incidenza di cancro alla vescica è quasi due volte più elevata, e di leucemia il 30 per cento più alta. E anche se non in grado di dimostrarlo, aveva una spiegazione. “Duecentocinquantamila persone nella regione sono state esposte a sostanze inquinanti tossiche per decenni”, ha detto. “Per livello di inquinamento aria, acqua e prodotti della zona sono ben al di sopra dei livelli regolamentari.”<br />
L’inquinamento da automobili e camion in Campania non ha probabilmente rivali nel cuore industriale nel nord del paese. Ma per il dottor Mazza, la densità del traffico ha un significato diverso. “Questa zona è significativa in quanto è il crocevia più importante di autostrade nel sud Italia,” mi dice. In altre parole, Nola, Marigliano e Acerra sono molto facili da raggiungere. Se lo sviluppo moderno d’Italia avesse avuto luogo in un modo più equilibrato, con il sud che avesse goduto di investimenti simili a quelli nord, questa facilità di accesso avrebbe ormai trasformato il “Triangolo” del dottor Mazza in qualcosa di simile alla zona densamente industrializzata tra Milano e Bergamo. Ma nonostante il favoloso porto di Napoli, ciò non è mai accaduto. Quel che è successo invece è stato molto, molto peggio: questa entroterra di Napoli, grazie alle autostrade, è diventato la pattumiera, la pattumiera avvelenata, del Paese. E grazie a un padrino-pentito napoletano chiamato Nunzio Perrella, nei primi anni 1990 ha cominciato ad esser chiaro che la camorra, la mafia di Napoli, aveva scoperto un nuovo commercio lucrativo.<br />
Come le migliaia di fabbriche, raffinerie e altri impianti industriali del nord prosperarono durante il boom degli anni 1980 e 1990, qualche ignoto boss – un gangster, un influente uomo d’affari, forse un politico potente – colpirono con astuzia per dare alle industrie d’Italia un vantaggio esclusivo sulla concorrenza dell’intero continente. Invece di pagare profumatamente per avere i loro rifiuti tossici smaltiti correttamente da società specializzate, avrebbero pagato la criminalità organizzata per trasportarli via camion e semplicemente “perderli”. Le organizzazioni criminali si sarebbero fatte carico di tutta la cosa: i loro ben istruiti colletti bianchi avrebbero appianato le questioni burocratiche, falsificato i documenti, pagando per superare ogni ostacolo ufficiale, pagando anche i proprietari dei terreni dove i rifiuti tossici venivano sversati. I produttori, le raffinerie e il resto pagavano alle organizzazioni criminali solo una frazione di quello che sarebbe costato per ottenere il lavoro svolto in modo sicuro e legale.<br />
La camorra ha preso in consegna i rifiuti e se li è portati a casa – non per le strade densamente popolate di Napoli, ma nell’entroterra agricolo, “Campania felix”. Li ha scaricati sempre e ovunque: nei campi, in vecchi pozzi, in cave dismesse, all’interno o intorno ai canali. A volte ha semplicemente sepolto i rimorchi carichi o interrato i contenitori. A volte ha mescolato i rifiuti con il terriccio e lo ha sparso sui campi. La cosa è andata avanti per anni e, poiché lo Stato italiano, soprattutto nel sud, è notoriamente lassista, per lungo tempo nessuno ne è stato mai al corrente.<br />
Ma l’andirivieni di camion per tutta la notte non poteva certamente essere ignorato. Poi c’erano gli<span style="color: navy; text-decoration: underline;"><a href="http://denaro.it/denaro-eventi/" style="color: #333333; text-decoration: none;" target="_blank" title="denaro eventi"><span style="color: navy;">eventi</span></a></span> strani, che hanno la sfumatura di leggende metropolitane: fumo che esce dalla terra in condizioni di particolare, come se la terra fosse vulcanica; acqua dei canali o del suolo di una tonalità di blu malaticcio. E poi, quando gli anni sono diventati decenni, i giovani hanno cominciato ad ammalarsi.<br />
Carolina Capasso, che vive a Marigliano, ha perso suo figlio di 21 anni Andrea di sarcoma dei polmoni, uno dei tumori che, secondo il dottor Mazza, è più probabile che sia causato dai rifiuti tossici. “A poco a poco divenne chiaro che sempre più persone, soprattutto giovani, stavano avendo problemi di salute,” dice, ricordando gli albori della lenta consapevolezza locale del problema. “Hanno avuto allergie, leucemie, tumori vari. E mentre crescevano uno sarebbe morto di cancro, uno di leucemia, e gradualmente abbiamo iniziato a capire che c’era qualcosa di sbagliato. Nel 2009, mio figlio ha iniziato a sentirsi male e abbiamo scoperto che aveva il cancro:. un ragazzo di 21 “<br />
Incolpa, in particolare, un magazzino pieno di prodotti chimici agricoli vicino alla sua casa (Agrimonda, ndr), dove c’era stato un’esplosione e un incendio anni prima, all’indomani del quale, dice, l’emergenza non era mai stata adeguatamente affrontato – ma, come nel resto del Triangolo, collegare la causa con l’effetto è un compito senza speranza. “Sono convinto che mio figlio si è ammalato a causa di queste sostanze, la sostanza disgustosa che c’è a Marigliano,” va avanti. “A poco a poco abbiamo scoperto che nessuno faceva nulla. Andrea è stato malato di questo tipo di tumore per sette mesi [prima di morire]. Altri, sono morti, anche bambini. Quello che posso dirvi? Marigliano è una città dei morti viventi”.<br />
Pochi mesi dopo la morte di Andrea, Antonella Di Francesco lo seguì, contraendo il cancro della lingua e morendo all’età di 35 anni. Le loro famiglie vivevano una vicino all’altra, nella stessa abbandonata e fatiscente zona a Marigliano.<br />
Vado a far visita a Gennaro Di Francesco, padre di Antonella. Ha perso anche la moglie, morta sulla cinquantina, così ora vive da solo con sua nipote di 11 anni, Teresa, figlia di Antonella. Il loro appartamento al primo piano è privo di comfort. Siamo un paio di giorni prima di Natale quando faccio loro visita e vi è un grande albero di Natale in un angolo, con su ciuffi di ovatta. Gennaro, un operaio metallurgico, si sottopone alle mie domande, come si potrebbe fare per un esame del sangue, i suoi grandi occhi grigi ampi e vuoti. Teresa, scura di carnagione e con un sorriso da dolce zingara, mi fa una tazzina di caffè.<br />
Sono trascorsi due anni dalla diagnosi di Antonella, dice Gennaro. “E ‘stata in ospedale a Napoli per un mese, ha fatto radio e chemioterapia e ha cominciato a stare meglio, ma poi è peggiorata di nuovo. Poi l’ho portata in un ospedale per il cancro a Milano, dove hanno fatto un intervento per rimuoverle la mascella, poi ad un altro ospedale a Torino per un’altra operazione. “Niente di tutto questo l’ha aiutata. Alla fine dovevamo nutrirla attraverso un tubo nello stomaco.<br />
“Molti giovani sono morti qui intorno”, ricorda. “Dieci o 20, che io sappia, ed ancora oggi, ogni tanto sento di un altro.” I rifiuti tossici sono una presenza persistente. “Tutti sanno che è un problema, ma non lo ammettono e non fanno nulla. Perché è un grande business. I politici dicono che stanno per risolverlo, ma non lo fanno.”<br />
Allora, chiedo, dove il problema è concentrato? Qual è la fonte del veleno? “Vai a Boscofangone,” dice. “Al di là di Faibano. Ecco dove scaricano tutto”.<br />
Nomi di luogo come Boscofangone, letteralmente “bosco fangoso” e Pantano, fanno ritornare al passato remoto, quando questa zona era paludosa e soggetta a frequenti inondazioni. Nel 17° secolo i Borbone, sovrani spagnoli di Napoli, presero il problema in mano, costruendo 55 chilometri di canali, i Regi Lagni, da Nola verso il mare con altri 210 chilometri di canali secondari di alimentazione”, che producono l’immagine di una lisca di pesce”, come uno storico del luogo li definisce. E’ stata una magnifica impresa di ingegneria e ha mantenuto la pianura ben drenata per secoli. Fu solo con l’inizio degli anni del boom dopo la seconda guerra mondiale che le cose cominciarono ad andare storte.<br />
Guido da Marigliano a Polvica, cercando la nascosta Boscofangone, su un terreno che non è né città né campagna. Sacchetti di plastica della spazzatura sul lato della strada. Edifici industriali, tra cui un centro nuovo fiammante di riciclaggio dei rifiuti, si alternano a frutteti e campi di ortaggi, sono fermato a un certo punto da un branco di pecore sporche e dalle lunghe orecchie che attraversano la strada, per recarsi al pascolo in un campo. Questa zona non è passata dall’agricoltura all’industria – le due cose continuano a coesistere – ma è come se vivessero in diverse dimensioni, ognuna ignara dell’altra.<br />
Mi fermo in un bar nella città di Polvica, contro i monti del Partenio, segnati dalla cava, per chiedere indicazioni. Il vivido, panciuto barista, Massimo Bernardo di nome, con una faccia come quella di Gene Wilder, mi dice dove andare. “Svoltare a sinistra dalla stazione di servizio Esso, guidare fino alla piccola chiesa rotonda medievale,” dice. “Il canale Boscofangone comincia lì”.<br />
Il signor Bernardo sa tutto sul problema dei rifiuti tossici, ma si è convinto che è ormai tutto un problema del passato. “Sì, c’erano i camion che circolavano lungo il canale per tutta la notte, sversando i loro carichi,” ricorda. “Ma hanno ripulito tutto. Questo è il terreno migliore in Italia! Produciamo i migliori pomodori, le migliori patate, le migliori arance … Perché importare tutta quella roba dall’estero, se abbiamo i migliori prodotti qui? “Seguo le sue indicazioni. All’ingresso del canale, chiuso da una sbarra, c’è una nota ufficiale, che descrive “Interventi di Manutenzione straordinaria per l’adeguamento funzionale” (“Operazioni di manutenzione straordinaria per il funzionamento soddisfacente”) del canale dei Regi Lagni. Tracce di bulldozer lungo il percorso indicano che la “bonifica”, il clean-up, che è stato promesso di iniziare il 26 settembre 2011 e proseguire per 180 giorni, ha infatti preso il via: il canale non è più la distesa di schiuma con spazzatura come si vede in un video incredibile disponibile su YouTube, i suoi fianchi non sono più intasati di vecchi frigoriferi, lavatrici, sacchetti di plastica e barili di petrolio. Ma non sono scomparsi: dopo aver camminato per mezz’ora scopro che un nuovo carico di oggetti, tra cui uelli sopra elencati, sono stati scaricati direttamente nel canale, bloccando il flusso.<br />
Contrariamente alle opinioni velenose di attivisti locali, il lavoro per affrontare il degrado della zona è stato intrapreso. Il problema è che si è trattato di un una-tantum. Una volta puliti, i canali avrebbero bisogno di essere monitorati, protetti, custoditi. Avrebbero bisogno di essere reintegrati in vista della futura pianificazione della regione. Progetti elaborati dalle autorità locali prevedono km di canali alberati che attraversano aree ricreative e parchi archeologici – ma questi sono sogni irrealizzabili. Invece, il canale è una reliquia di un passato di cui pochi locali sembrano essere a conoscenza o preoccuparsi, e, a meno che protezioni adeguate siano messe in atto, gli sversatori aspettano semplicemente il loro momento per iniziare di nuovo le loro pratiche.<br />
Nel frattempo, c’è la questione di quale effetto molti anni di scarichi illegali hanno avuto sulla falda acquifera della regione e sulla catena alimentare. Emblematici di quel massiccio danno alla salute pubblica sono due grandi, ben squadrati cumuli di Dio-sa-cosa ad un paio di centinaia di metri dal canale, coperti con pesanti teli di polietilene nero: cumuli di rifiuti tossici che sono stati sequestrati e confiscati qui. Il telone ferma le emissioni di ciò che è dentro verso l’aria, ma non fa nulla per impedire le infiltrazioni nel terreno, nella falda freatica e quindi nella catena alimentare. Che è il cuore del problema, molto più delle visibili cicatrici di ciò che resta della campagna.<br />
In Italia è sempre difficile separare surriscaldate teorie della cospirazione dalla realtà. Anche un osservatore astuto e ben informato come il dottor Mazza sembra avere un debole per le maligne ed ampie spiegazioni degli eventi. “Il problema dei rifiuti tossici non è venuto per caso”, mi dice appena ci incontriamo. “E’ il risultato di un patto tra criminalità organizzata, i poteri forti dello Stato, i servizi segreti e, forse, la massoneria, un patto per salvare l’industria della nazione.” La distruzione dell’ambiente di questa regione, secondo questa teoria, è considerato come un prezzo accettabile da pagare. Si tratta di una spiegazione affascinante, ma come la maggior parte di tali teorie è a corto di prove: non ho visto alcuna prova utile a dimostrare che il disastro della Campania sia il risultato di un complotto diabolico. Indubbiamente l’Italia settentrionale ha usato questa regione come una vasta area di discarica senza licenza. Indubbiamente i responsabili degli sversamenti sono stati boss di camorra o persone sul loro libro paga. Ugualmente senza ombra di dubbio l’incidenza di alcuni tipi di cancro e malformazioni genetiche è scandalosamente alta. Al di là di questi fatti, però, è impossibile affermare con convinzione che vi è stato un terribile piano – impossibile ma anche inutile. La logica economica di quello che le bande hanno fatto è evidente.<br />
Scaricare rifiuti tossici è un problema particolare con implicazioni terribili per la salute pubblica, ma fa parte di una crisi molto più grande e apparentemente insolubile in questa regione che coinvolge lo smaltimento dei rifiuti di ogni genere. L’immagine persistente di Napoli nel mondo esterno non è più della grande città, la baia immensa con il Vesuvio alle spalle, ma di strade fiancheggiate da montagne di spazzatura domestica non raccolta. Questo fenomeno rivoltante va e viene – ho la fortuna di visitare la città quando si è a livelli bassi – ma come il problema dei rifiuti tossici, non è mai veramente risolto.<br />
Venti o più anni fa, la camorra è riuscita ad ottenere un quasi-monopolio nello smaltimento di rifiuti di ogni tipo in Campania. Ora continuano a usare questo potere come strumento di ricatto ogni volta che un nuovo sindaco o altro funzionario minaccia di rompere il meccanismo facendo rispettare la raccolta differenziata dei rifiuti (che esiste a malapena qui) o adotti altre misure decisive per risolvere il problema in modo permanente. In questo, le forze politiche locali hanno lasciato il gioco nelle mani delle bande, orchestrando ostilità verso nuovi inceneritori. E l’accomodante, simpatica natura del personaggio locale, persone come Massimo Bernardo, con la sua allegra certezza che il problema dei rifiuti tossico è stato risolto – non aiuta molto.<br />
Piera Mucerino, una donna del posto che da anni partecipa a campagne contro il problema dei rifiuti tossici, dice che il problema è che la gente si rassegna. E’ ossessionata dai risultati di un esperimento che una volta letto. “Hanno messo un cane in una gabbia”, spiega. “Hanno mandato scosse elettriche lungo il lato destro della gabbia, il cane si è spostato a sinistra, poi hanno mandato le scosse lungo il lato sinistro e il cane si è spostato a destra, poi hanno messo in corrente tutta la gabbia:.. il cane si è arreso ed è rimasto dov’era. Poi, con le scosse ancora in corso attraverso tutta la gabbia, hanno aperto la porta. Il cane è rimasto dov’era. “Siamo così”, conclude. “Rassegnazione. Non importa cosa succede, alla fine non ci muoviamo. Ci sediamo lì e lo accettiamo. Le persone reagiscono alle cattive notizie, ma dopo un po’ dimenticano e vanno avanti con la loro vita. E quando altri muoiono di cancro semplicemente sperano che non succeda a loro, o pregano Dio. Invece di fare una grande battaglia per tutti, la gente dice, “farò una piccola battaglia per me”. Per Andrea e Antonella e molti altri nella Campania Infelix, le piccole battaglie sono finite male.</div>
<div style="background-color: white; color: #333333; font-family: 'Lucida Grande', Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 14px; line-height: 21px; margin-bottom: 1.25em; padding-bottom: 0px; padding-left: 0px; padding-right: 0px; padding-top: 0px;">
fonte: <a href="http://denaro.it/blog/2012/01/31/morire-di-rifiuti-reportage-da-napoli-nord/" style="background-color: transparent;">http://denaro.it/blog/2012/01/31/morire-di-rifiuti-reportage-da-napoli-nord/</a></div>
<div style="background-color: white; color: #333333; font-family: 'Lucida Grande', Arial, Helvetica, sans-serif; font-size: 14px; line-height: 21px; margin-bottom: 1.25em; padding-bottom: 0px; padding-left: 0px; padding-right: 0px; padding-top: 0px;">
<br /></div>delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-32643301646984924942011-12-20T20:22:00.002+01:002011-12-20T20:26:36.659+01:00Governo tecnico dei Sindacati<b>Alla domanda dell'intervistatore del Corriere: Lei al posto di Monti che avrebbe fatto?,
la segretaria della Cgil Camusso ha risposto:
«Lo abbiamo detto molte volte. Avremmo introdotto forme serie di prelievo sulle grandi ricchezze e non misure così leggere che rasentano la trasparenza. Avremmo messo un sano tetto alle retribuzioni più alte e alla pluralità di incarichi pubblici e cumuli multipli tra stipendi e pensioni d'oro. E avremmo fatto cose più incisive sull'evasione, solo per fare qualche esempio».
Si tratta qui di una posizione non solo di difesa dei diritti dei lavoratori, cosa che i Sindacati finalmente hanno preso a cuore, ma di una posizione programmatica anche se limitata ad alcuni aspetti. Del resto Camusso precisa nella stessa intervista che é necessario prendere misure di rilancio dell'economia, per le quali sono necessarie decisioni esattamente opposte a quelle che il governo sta cercando di prendere.
Sono misure quelle di Monti che hanno per scopo di trasferire buona parte del reddito della popolazione verso i grandi capitalisti. Il governo Monti, formalmente illegale, é il rappresentante dell'1% della popolazione, ciononostante pretende imporre misure che riguardano il 99% della stessa. Al confronto i Sindacati sono in questo momento la forza piú rappresentativa della popolazione residente in Italia. Se si vuole affrontare una crisi con responsabilitá é necessario che le soluzioni siano guidate da forze che hanno l'appoggio e la fiducia dei lavoratori, e che comunque hanno una struttura che permette alla massa, quando fosse necessario, di poter intervenire per correggere e riorentare il loro operato.
Se si lasciano i banchieri a decidere le misure per risolvere la crisi attuale del capitalismo l'unica conclusione sará la catastrofe.
I Sindacati hanno in questo momento la responsabilitá di essere gli unici a poter fermare la riduzione a schiavitú economica del popolo italiano. Solo con gli scioperi e le mobilitazioni non ci sará nessuna possibilitá di interferire nel programma del governo. Le lotte potranno invece avere una capacitá di mobilitare il 99% se si intrevederá uno sbocco programmatico e di potere.
Lo sbocco puó essere: Governo Tecnico dei Sindacati Contro la Crisi! </b><br />
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NicolaiCaiazza</b><br />
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20/12/2011</b>delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-33465311241468004312011-11-17T20:32:00.000+01:002011-11-17T20:32:17.760+01:00Esulto per la caduta di Berlusconi, ma non gioisco per MontiIl giorno dopo il golpe militare di Pinochet, a Santiago del Cile arrivarono i "Chicago boys", gli economisti cresciuti alla scuola liberista di Milton Friedman, per prendere in mano le sorti economiche del paese e per guidarlo verso quella rinascita neo-liberista che ci ha portato, diritto diritto, al capitalismo selvaggio, alla globalizzazione sconsiderata, ai suoi scempi, alle sue ripetute crisi, all'abbattimento dello stato sociale e al rigonfiamento del debito degli stati e delle famiglie.
Oggi, il capitalismo finanziario e l'imperialismo bancario, non hanno più bisogno della mano dei colonnelli: insediano direttamente gli economisti di parte e i banchieri di fiducia al governo di quello che rimane degli stati nazionali. E' proprio ciò che sta accadendo in Italia con la nascita del governo Monti, con il quale si inaugura la nuova fase di governo diretto delle banche e dei circoli finanziari e la sottomissione definitiva della politica all'economia e alla finanza.
Sia ben chiaro: a tutto questo, oltre al trend e alla speculazione internazionali, ha concorso lo sciagurato governo Berlusconi, che già di per sè aveva installato, a Palazzo Chigi, il governo diretto del monopolista e dei suoi affari, condendolo di populismo illusionistico e di sciovinismo corporativo e territoriale. Ma la finanza internazionale doveva prevalere sugli interessi particolari sia degli stati nazionali che dell'affarista spregiudicato e manipolatore di turno. Per questo la borghesia italiana, alleata con la finanza internazionale, ha deciso che era venuto il momento di mettere da parte l'inconcludente e scandalistico Berlusconi per far posto a un governo che fosse diretta espressione di quella speculazione internazionale che, come si dice a Napoli, prima ci "ciacca" (cioè, ci ferisce, ci fa venire i bitorzoli) e poi fa finta di medicarci.
Per tutto questo, se sono contento che sia finalmente finita l'insulsa era berlusconiana, allo stesso tempo non mi viene proprio di gioire per Monti che, prevedo, applicherà quelle ricette iperliberiste volte a rafforzare il potere e la ricchezza della grande finanza internazionale e ad assottigliare il già ridotto tenore di vita degli italiani.delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-81567476760610602582011-09-24T10:26:00.002+02:002011-09-24T10:26:57.304+02:00LE GRANDI RICCHEZZE DEI PICCOLI COMUNILE GRANDI RICCHEZZE DEI PICCOLI COMUNI
di Gerardo Troncone presidente dell'Archeoclub di Avellino.
Uno dei volti più belli dell'Italia è costituito dai suoi innumerevoli tesori d'arte e di storia. Negli ultimi anni, i trenta più grandi musei hanno avuto circa 25 milioni di visitatori (con il 50% concentrato nei sei più importanti, Musei Vaticani e Uffizi in testa), le località d'arte sono state fra le mete più ambite, visitate da oltre la metà degli stranieri arrivati in Italia, il turismo e l'industria della cultura costituiscono una voce significativa del Prodotto interno lordo nazionale, con un fatturato di circa 70 miliardi, pari a circa il 5%.
Tutto ciò malgrado un'azione politica nel settore a dir poco dissennata e dagli esiti paradossali. Basti citare l'ultimo rapporto della Corte dei Conti al ministero per i Beni Culturali, dove si legge che l'archeologia potrebbe “essere il primo volano del turismo culturale in Italia, con tutte le implicazioni sul piano scientifico ed economico” e dove si rileva il dato a dir poco inquietante, che da una parte i fondi a disposizione del ministero sono scesi in dieci anni dallo 0,41% allo 0,25% del Pil, mentre dall'altra il 55% delle risorse disponibili nel 2010 (in tutto circa 550 milioni di euro) non è stata spesa, cioè è rimasta nel cassetto del ministero.
Non è certo per caso che l'Italia in quarant'anni è passata dal primo al quinto posto delle mete turistiche globali (Sergio Rizzo, “Corriere della Sera” del 23 maggio 2011). Per consolarsi, spesso ci si riempie la bocca col dire che l'Italia possiede il 70% dell'intero patrimonio mondiale, il che non corrisponde affatto al vero, se si pensa agli immensi tesori ancora sepolti, ad esempio, in Cina o in Africa.
Il vero primato dell'Italia è costituito non tanto dalla quantità dei beni culturali che possediamo, quanto delle caratteristiche di tale patrimonio. In effetti, contrariamente a quanto avviene in quasi tutti gli altri Paesi del Mondo, il nostro patrimonio è diffuso nell'intero territorio nazionale ed è nello stesso tempo quasi ovunque stratificato nei millenni. Le bellezze artistiche e paesaggistiche sono disseminate dalle Alpi alla Sicilia, ed esprimono una storia che possiamo leggere attraverso molteplici stratificazioni, che vanno dal Paleolitico alla Magna Grecia, dal periodo romano alla Cristianità, dal Medioevo al Rinascimento all'Età Moderna.
Il territorio italiano, storicamente policentrico, offre nel suo insieme l'idea di un grande museo diffuso, con i suoi oltre duemila siti archeologici, le decine di migliaia di chiese, castelli, fortificazioni, giardini, dimore storiche. Non necessariamente poi questo tesoro lo si deve ammirare nel chiuso dei grandi musei. Esso non ha confini: lo si può godere anche solo passeggiando per strada, standosene seduti su una panchina all'ombra di un tiglio, entrando in una piccola cappella a pregare. Innumerevoli sono i tesori d'arte custoditi in luoghi sconosciuti ai più e ancor oggi l'etichetta di minore grava su una parte vastissima del nostro patrimonio, che spesso è visto come un peso e non come un'irrinunciabile occasione di uno sviluppo, in grado oltretutto di dare lavoro a centinaia di migliaia di giovani, specialmente nel Mezzogiorno.
Nell'ambito di questo vasto e ancora inesplorato patrimonio culturale minore non va dimenticato che dei circa ottomila Comuni italiani oltre mille possiedono centri storici di altissimo pregio: sono questi piccoli borghi che, se adeguatamente valorizzati, ben potrebbero diventare musei di se stessi, e dove lo stesso edificio museale tradizionale potrebbe non essere più necessario, bastando anche un polo di gestione del sistema.
La manovra economica in atto, figlia di una maggioranza arrogante e di un'opposizione distratta, prevede una non meglio precisata soppressione proprio dei piccoli Comuni, moltissimi dei quali – in Irpinia tutti – hanno la prerogativa di avere ostinatamente salvato il proprio borgo antico, cuore pulsante della memoria collettiva, luogo dell'anima.
Si dimentica ancora una volta che molti piccoli Comuni (quelli irpini in primis) sono rimasti tali anche perchè hanno scelto la strada del vivere a misura d'uomo, del rispetto del territorio, dell'uso moderato e corretto delle risorse disponibili, laddove per diventare grandi (o grossi) altri Comuni hanno imboccato la via dell'espansione selvaggia e indiscriminata, del sacco delle coste e dei paradisi naturali, che è la stessa strada dei periodici e ricorrenti dissesti naturali (frane, alluvioni, terremoti, eccetera).
Oggi si propone una norma che non produce quasi nulla in termini economici (si parla dello 0,2 per mille dell'intera manovra, cioè quanto si risparmierebbe con la riduzione di una quindicina di poltrone parlamentari), che fra cavilli interpretativi e furbate varie probabilmente non sarà neanche attuata, e della quale resterà solo il senso amaro della stupidità e dell'ignoranza di chi l'ha voluta.
A prescindere da tutto e per concludere, mettiamoci davanti agli occhi uno a caso dei parlamentari campani di oggi (senza scomodare la faccia rubizza del ministro che impazzava a reti unificate con il cravattone verde, la giacca azzurra, i pantaloni arancio e i calzini chissà). Visto che valgono all'incirca la stessa cifra, pensate che sia meglio mantenere la sua poltrona o cento piccoli Comuni?
Gerardo Troncone presidente dell'Archeoclub di Avellino
(da: Il Mattino - Avellino del 20 settembre 2011)delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-35792335874473997912011-09-23T17:15:00.001+02:002011-09-23T17:19:37.550+02:00Manuel Castells: Sacrifici umani in nome dei mercati
Il socialista José Luis Rodríguez Zapatero passerà alla storia come il peggior presidente della Spagna democratica. Il suo predecessore, José María Aznar (del partito popolare), almeno aveva una certa coerenza ideologica. La pantomima dell’ultima riforma costituzionale, che prevede l’inserimento della norma del pareggio di bilancio, è stata orchestrata dai due più grandi partiti del paese con il favore della notte e dell’estate e colpisce al cuore la democrazia e l’autonomia dello stato.
Una riforma necessaria, così ci dicono, imposta da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy per contrastare la sfiducia dei mercati nei confronti del debito spagnolo. Questa sfiducia avrebbe potuto innescare a sua volta la crisi di altri debiti europei, soprattutto di quello italiano, e affondare l’euro. Riportare a galla la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda è difficile. Salvare la Spagna dalla bancarotta è impossibile sia per le finanze tedesche sia per quelle francesi.
Ecco il motivo, dunque, della pressione sul governo spagnolo, che da tempo ha ormai abbandonato qualsiasi velleità di sovranità economica per sottostare alle profezie sul comportamento dei mercati. Un potere supremo e misterioso che dev’essere placato con dei sacrifici umani: i tagli alla spesa sociale colpiscono la sanità, l’istruzione e le pensioni. In altre parole, la vita.
Ma chi sono i mercati? Qualcuno di voi conosce personalmente qualche mercato? I mercati sono gli investimenti gestiti dagli intermediari finanziari. Ma cosa vogliono gli investitori e i loro intermediari? L’equilibrio fiscale? Garantire la solvibilità del debito a lungo termine? No. Il vero motore degli investimenti è il guadagno, puro, semplice e a breve termine. È così che funziona il mondo della finanza. È dal guadagno che dipendono i dividendi degli azionisti, ma soprattutto le commissioni e i bonus degli operatori finanziari.
I guadagni a breve termine si ottengono in diversi modi, anche scommettendo sull’altalena del valore dei titoli finanziari, compresi i titoli di stato e le valute nazionali. Per alcuni, insomma, la svalutazione del debito sovrano spagnolo e l’aumento degli interessi sui titoli di stato potrebbero essere un buon affare. I grandi guadagni sono possibili proprio grazie alle turbolenze finanziarie. L’apatia economica è la prospettiva più nera per i mercati. È per questo che la Spagna e l’euro potrebbero fallire, non per il debito.
In realtà, non si pensa a salvare l’economia spagnola, ma a sfruttare la crisi per legare le mani ai rappresentanti politici dei cittadini nel caso in cui abbiano la tentazione di ascoltare i loro elettori invece dei mercati nell’interpretazione che ne danno Merkel, Sarkozy e tutti quelli che mettono in salvo la pelle politica nei loro paesi a spese degli altri europei. Una dimostrazione della disunione europea.
Il punto della questione è che in nome dei mercati si impone una riforma costituzionale senza consultare i cittadini, facendola approvare da una maggioranza parlamentare che potrebbe cambiare nel giro di tre mesi. Di questo passo si delegittima la costituzione, considerata intoccabile in certe situazioni ma manipolata nel giro di pochi giorni quando conviene ai politici in carica. In questo modo non sarebbe mai stato possibile approvare la costituzione del 1978 che, per quanto imperfetta, è riuscita a garantire la coesistenza politica sulla base di un consenso comune e costruttivo, che ora è stato infranto senza un valido motivo.
Eppure i cittadini dovrebbero avere la possibilità di dire la loro: anche se scegliessero la cosa sbagliata, è comunque un loro diritto. È inaccettabile che i politici invochino la democrazia come garanzia di legittimità per poi intervenire autonomamente su questioni così importanti sfruttando il parlamento come se il paese fosse di loro proprietà. Pensiamo invece all’Islanda: dopo mesi di mobilitazione sociale, un referendum ha imposto le nuove regolamentazioni finanziarie, l’allontanamento dei politici responsabili del crac e il rifiuto di pagare i debiti delle banche. Da quel giorno, per gli islandesi le cose sono migliorate.
Se la crisi della democrazia spagnola, che ha indignato gran parte della popolazione, era già profonda, questa vergognosa riforma costituzionale annienta la credibilità dei politici che l’hanno votata. E, nel frattempo, complica la vita al prossimo candidato premier socialista Alfredo Pérez Rubalcaba, che fino a pochi giorni fa si era dannato per salvare la faccia al suo partito e a tutta la classe politica spagnola cercando di ascoltare le richieste dei cittadini. Se la costituzione la dettano i mercati, allora facciamo comandare i banchieri. Ma se i cittadini contano ancora qualcosa, allora potrebbero rifondare pacificamente la democrazia e ripulire le istituzioni da certi partiti che hanno messo radici in parlamento come se fosse una loro tenuta protetta dal filo spinato, e noi fossimo i loro braccianti. Accampamento contro accampamento. Cinismo politico contro speranze dei cittadini. Spezziamolo questo filo spinato.
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(Manuel Castells è un sociologo spagnolo
Traduzione di Sara Bani.
Internazionale, numero 915, 16 settembre 2011)</b>
delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-78451749275945865932009-07-08T18:51:00.002+02:002009-07-08T18:54:21.979+02:00Lettera aperta al papa Benedetto XVI perché non riceva Berlusconi in udienza né pubblica né privata dopo il G8 dell’Aquila"Con sgomento apprendiamo dalla stampa l’eventualità che lei possa <br />concedere udienza privata all’attuale presidente del consiglio <br />italiano, Silvio Berlusconi. Egli per parare il diluvio di <br />indignazione e disprezzo che gli si è scatenato contro a livello <br />mondiale per i suoi comportamenti indecenti che sono anche la <br />negazione della morale cattolica che tanto sbandiera nei suoi <br />deliranti proclami, ha fatto capire che dopo il G8 cercherà di <br />strappare alla Santa Sede un incontro con il Pontefice a conclusione <br />del summit dell’Aquila. L’unico modo, a suo giudizio, per «troncare le <br />polemiche». <br />Mons. Mariano Crociata, segretario della Cei, senza fare riferimenti <br />personali, ha detto parole gravi che avremmo voluto ascoltare già da <br />tempo, ma non è mai troppo tardi. Il segretario della Cei afferma che <br />stiamo assistendo «ad un disprezzo esibito nei confronti di tutto ciò <br />che dice pudore, sobrietà, autocontrollo e allo sfoggio di un <br />libertinaggio gaio e irresponsabile». Non si deve quindi pensare che <br />«non ci sia gravità di comportamenti o che si tratti di affari <br />privati, soprattutto quando sono implicati minori» (Omelia in memoria <br />di Santa Maria Goretti, a Latina 5 luglio 2009). <br />Sì, perché tra le varie sconcezze del presidente del consiglio <br />(compagnia con donne a pagamento), vi sono riferimenti precisi di <br />rapporti con minorenni (testimonianza della moglie) e di cui il <br />presidente ha dato diverse differenti letture, nonostante abbia <br />spergiurato sulla testa dei figli. <br />Le parole del segretario della Cei hanno toccato nel segno la <br />depravazione in cui è caduta la presidenza del consiglio italiana, <br />disperatamente alla ricerca di un salvagente per salvare la faccia e <br />offendere il mondo civile e cattolico con lo show dell’udienza. A <br />Silvio Berlusconi nulla importa del papa e della Chiesa cattolica e <br />della sua morale come della dottrina sociale, a lui interessa di farsi <br />vedere «urbi et orbi» insieme al papa e così cercare di parare le <br />richieste pressanti che da tutto il mondo arrivano perché esca di <br />scena dignitosamente, se ne capace. <br />La supplichiamo, per amore della sua e nostra Chiesa, che è ancora <br />inorridita e scossa, non lo riceva pubblicamente né privatamente <br />perché lei darebbe un colpo mortale alla credibilità della gerarchia <br />della Chiesa che ha preso posizione solo dopo la mobilitazione del <br />mondo cattolico e del mondo civile che in internet ha raggiunto <br />livelli di esasperazione molto elevati. <br />Se lo riceve, la visita sarà usata strumentalmente per dire che il <br />papa è con Berlusconi e quindi tutte le sue ignominie, depravazioni e <br />corruttele troverebbero facile copertura morale. La morale che lei <br />dovrebbe rappresentare diventerebbe una farsa di copertura <br />dell’immoralità di un uomo presuntuoso e malato che ancora non si è <br />degnato di rispondere pubblicamente del suo operato come ha chiesto la <br />libera stampa, mentre è andato in tv dove senza contraddittorio, ha <br />esaltato le sue gesta di corrotto corruttore, aggiungendo sprezzante a <br />sua giustificazione che «la gente mi vuole così». <br />Inevitabilmente lei diventerebbe complice agli occhi dei fedeli <br />semplici e dei non credenti ancora attenti alla Chiesa. In nome di Dio <br />e della dignità del nostro popolo e della serietà dell’etica non lo <br />riceva, perché se lo riceve, lei perderà moltissimi fedeli che già <br />sono sulla soglia". <br />In fede <br />Paolo Farinella, prete <br /><br /><br />FIRMA L'APPELLO su MicroMega.net e passaparola! <br /><br /><br />http://temi.repubblica.it/micromega-appello/?action=vediappello&idapp... <br /><br /><br />(8 luglio 2009)delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-39742671727911749552009-06-15T18:45:00.003+02:002009-06-15T19:02:17.833+02:00Chi è veramente Elio Letizia?ISSO, ESSA E 'A MALAVITA <br /> <br />di ROSITA PRAGA [ 29/05/2009] <br /> <br /><br />A Napoli gli investigatori della Direzione Antimafia stanno indagando sui possibili collegamenti fra Elio Benedetto Letizia, il padre dell'ormai celebre Noemi, e il ceppo che a Casal di Principe ha visto per anni egemone il clan capitanato da Armando, Giovanni e Franco Letizia, gruppo di fuoco del boss Giuseppe Setola, area Bidognetti. Tutti alleati degli Scissionisti di Secondigliano. Qui, nell'attesa di sviluppi giudiziari, proviamo a mettere in fila alcune impressionanti coincidenze, con le tessere di un puzzle che vanno al loro posto una dopo l'altra. Ed un Paese che, se le ipotesi investigative fossero confermate, si troverebbe a dover raccogliere la sfida finale. <br /><br /><br />Potrebbe suonare solo come un'omonimia, un cognome strano, uguale al nome di una donna. E che ricorre. Poi il cerchio delle coincidenze comincia a stringersi. E prende corpo l'ipotesi che Benedetto Letizia detto Elio, padre dell'aspirante starlette Noemi, lungi dall'essere mai stato autista di Craxi o militante di Forza Italia o qualsiasi altra boutade messa in circolazione, sia originario dello stesso ceppo di Casal di Principe dal quale provengono Franco e Giovanni Letizia, gruppo di fuoco del boss Giuseppe Setola. Lo stesso commando capace di sparare in fronte ed ammazzare sei extracomunitari in un colpo solo per avvertire gli altri che, se si intende trafficare droga in zona, bisogna sottostare alle “regole”. E pagare. <br /><br /><br />Ma chi e' veramente Benedetto-Elio Letizia? Da Castelvolturno all'Agro Aversano fino a Secondigliano, molti lo sanno fin dall'inizio di questa storia. Ma non parlano. Tacciono di fronte ai tanti cronisti venuti da ogni parte del mondo. Pero' a Enrico Fierro, inviato dell'Unita', qualcuno ha detto: lascia stare, su questa storia meglio non metterci le mani. Bolle, scotta. Il cinquantenne Benedetto Letizia, noto finora al Comune di Napoli (dove e' in servizio) piu' che altro per un vecchio inciampo giudiziario - fu arrestato nel ‘93 nell'ambito di un'inchiesta sulle compravendite di licenze commerciali - per tutti e' un uomo tranquillo. E anche la gazzarra di visure camerali e catastali messa su dai giornali, non ha potuto scoprire altro che modesti immobili intestati a Noemi e un paio di societa' dedite al commercio di profumi. Solo una bufala, allora, la storia della parentela? «Non dimentichiamo - dice un attento osservatore di queste dinamiche - che molto spesso i clan si servono proprio di personaggi “puliti”, o quasi, per tenere i contatti con esponenti delle istituzioni». <br /><br /><br />A gettare benzina sul fuoco, realizzando la classica “excusatio non petita”, sono poche settimane fa alcuni giornalisti del casertano. Ventiquattr'ore di fuoco, quel 19 maggio. Dopo la cattura in Spagna del boss Raffaele Amato, a Secondigliano un blitz porta in manette quasi cento persone ritenute affiliate agli Scissionisti. In nottata arriva l'arresto a San Cipriano d'Aversa del boss Franco Letizia, uno fra i cento latitanti piu' ricercati d'Italia. E siamo proprio negli stessi giorni in cui, fra gossip e cronaca, i giornali, le tv e il web sono letteralmente invasi da quel nome: Letizia. Alle 12 e 18 in punto nelle redazioni arriva un lancio Ansa. E' firmato dalla giovane corrispondente casertana Rosanna Pugliese: nessuna parentela - si legge - tra l'arrestato Franco Letizia ed il papa' di Noemi, lo affermano «gli inquirenti che operano nel casertano». Che bisogno c'era di quella perentoria smentita, a fronte di una notizia mai data? E soprattutto, perche' rifarsi ad un termine generico come “gli inquirenti”, senza precisare se si tratta della squadra mobile, della Procura (di Napoli o di Caserta?) oppure di altre forze dell'ordine? Un sito locale, Caserta Sette, non perde l'occasione per rilanciare la non-notizia. E con tono stizzito se la prende con chiunque osi pensare che esista quella parentela. <br /><br /><br />Mentre scriviamo, alla Voce risulta invece che sono in corso indagini top secret alla Procura di Napoli proprio per accertare il possibile collegamento fra i Letizia di Secondigliano (Benedetto detto Elio, ma anche altri suoi stretti congiunti) e il clan Letizia affiliato ai Casalesi. Un legame che, se fosse accertato, nella “vicenda Papi”, spiegherebbe tutto. O quasi. Qualcuno, in Campania ed oltre, sa bene da tempo cosa significa pronunciare alcuni grossi nomi. E perche', se telefona uno con quel nome, se si spinge fino a chiedere a un leader politico di mostrarsi alla nazione intera, intervenendo ad una festa di paese, lui potrebbe essere costretto ad acconsentire. Ma in ossequio alla ragion di stato sarebbe obbligato a far credere - perfino alla moglie e ai figli - che si tratti d'una storia di corna e minorenni, piuttosto che rivelare al Paese e al mondo la verita'. <br /><br /><br />Scrive Fierro sull'Unita' del 22 maggio: «La camorra, soggetto da maneggiare con cura in questa storia. Anche se i tanti set di questo reality non aiutano a tenerla a debita distanza. Secondigliano (il quartiere monstre dove i Letizia hanno alcune loro attivita'); Portici, la citta'-quartiere dove vivono Noemi e sua madre, e Casoria, il paesone della festa. In ognuno di questi luoghi i clan hanno un controllo ferreo del territorio. Sanno tutto. Di tutti». In attesa delle conclusioni alle quali giungeranno i pm della Dda, noi qui proviamo a mettere insieme le tessere del puzzle. Che cominciano a combaciare in maniera impressionante. Se risultasse provato il collegamento fra i Letizia, sarebbe allora piu' realistico immaginare quale sia stato il vero motivo di quell'appuntamento cui il premier, suo malgrado, non poteva mancare, pur avendo cercato con ogni mezzo fin dalla mattina - e poi nelle frenetiche telefonate fatte in quei misteriosi 50 minuti di sosta dentro l'aereo, a Capodichino - di sottrarsi. Alla fine va. E resta per quasi un'ora a colloquio “riservato” - dice chi c'era - con Elio Benedetto Letizia, prima di darsi in pasto ai fotografi.<br /><br /><br />. IL POTERE DI GOMORRA <br /><br /><br />Troppo forte, il potere d'intimidazione di quella holding multinazionale che, come ci ha raccontato Gomorra, comunica i suoi messaggi attraverso i simboli. L'uomo accusato di essersi portato via la donna di un boss, per esempio, viene crivellato non alla testa o al cuore, ma “mmiez ‘e palle”; quello che ha tradito gli accordi, facendo catturare uno del clan, dovra' essere “incaprettato”, legato come un capretto sul banco della macelleria, e fatto ritrovare nella posa piu' grottesca e mostruosa che si possa immaginare per un essere umano. Cosi' anche la presenza fisica di una personalita', in certi luoghi ed occasioni, vale piu' di cento rassicurazioni verbali. Magari arriva a suggello di un condizionamento che durava gia' da mesi. E del quale la bella - e quasi certamente ignara - Noemi non era che un altro “segnale”. La sua presenza al fianco del primo ministro (come nell'ormai famoso ricevimento di fine anno a Villa Madama) serviva per affermare all'esterno che il rapporto con gli uomini del napoletano e del casertano stava andando avanti. <br /><br /><br />Del resto, lo strapotere finanziario raggiunto dalle imprese dei clan camorristici - anche attraverso la presenza di loro vertici nelle logge massoniche coperte - praticamente non ha uguali. Lo ha spiegato poche settimane fa Roberto Saviano agli studenti della Normale di Pisa nel corso di una lezione: nessuna, fra le altre mafie del mondo (russa, cinese o slava che sia) e' autonoma rispetto alle cosche italiane. Tutte hanno come modello di partenza Cosa Nostra, ‘Ndrine e Camorra. Ma i gruppi esteri non si sono mai del tutto affrancati: sullo scacchiere internazionale, nei paradisi fiscali, per muovere da un capo all'altro dei contimenti denaro, armi, stupefacenti, organi ed esseri umani, devono sempre e ancora in qualche modo “dare conto” ai clan italiani. <br /><br /><br />Dal punto di vista dell'economia criminale, poi, che interi pezzi dell'Italia siano ormai ricattabili da parte dei clan camorristici, non e' una novita'. Una holding multinazionale, ma pur sempre malavitosa; forze strutturate e uomini che, pur trovandosi ormai a gestire le leve del potere finanziario (il giro di affari delle mafie, secondo uno studio recente di Confesercenti, e' pari a 125 miliardi di dollari l'anno, circa il 7% del Pil nazionale), non rinunciano ai vecchi e collaudati metodi per affermare il loro potere. Un commando di fuoco pronto a sequestrare, a sparare in faccia, tenere in ostaggio magari i figli di un alto esponente politico. Ed e' cosi' che possono maturare, per i posti chiave di governo - ad esempio la presidenza di una strategica Provincia o un sottosegretariato - le nomine di personaggi ritenuti gia' nelle lore stesse zone di origine impresentabili, per i legami con la camorra dei loro uomini piu' stretti. <br /><br /><br />MARONI ALLA CARICA <br /><br /><br />Come s'inscrive, nello scenario che stiamo ipotizzando, l'autentica impennata nella lotta ai clan camorristici impressa nelle ultime settimane da Roberto Maroni, ministro degli Interni, e da Antonio Manganelli, capo della Polizia? «Berlusconi - dice un esperto di intelligence che preferisce restare anonimo - probabilmente sara' presto lasciato al suo destino. Lo dimostra il livello di fibrillazione da cui e' stato colto dopo l'episodio di Casoria, gli errori a raffica, le dichiarazioni avventate. A reggere saldamente il timone dello Stato che non si arrende e' ora il Viminale, da cui non a caso negli ultimi mesi e' partito un pressing senza precedenti nel contrasto ai Casalesi e ai loro alleati, gli Scissionisti di Secondigliano. Operazioni che hanno liquidato quasi interamente il clan Letizia». <br /><br /><br /><br />L'escalation nella lotta alla malavita organizzata del casertano ha inizio esattamente dopo la strage di Castelvolturno, il 19 settembre dello scorso anno, quando sei nordafricani residenti nella vasta area a rischio della Domiziana, sul litorale di Caserta, vengono massacrati in un raid di camorra teso - si capira' in seguito - a riaffermare il predominio sulla zona del boss dei Casalesi Giuseppe Setola, al cui clan sono affiliati i Letizia. Appena dieci giorni dopo, il 30 settembre, i Carabinieri del comando di Caserta arrestano gli artefici dell'eccidio. Sono Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo ed il ventottenne Giovanni Letizia, gia' ricercato per un altro omicidio collegato alla connection politica-rifiuti: quello dell'imprenditore Michele Orsi. I militari li sorprendono in due villini di villeggiatura a Quarto, sempre in zona domizia. «Secondo il pentito Oreste Spagnuolo - scrivera' Roberto Saviano - Giovanni Letizia quando uccise Michele Orsi indossava una parrucca e ai piedi aveva un paio di Hogan di tela. Poi gli venne fame e andarono a mangiare con Letizia che aveva ancora le scarpe sporche di sangue ma preferiva pulirle con la spugnetta anziche' buttarle. Quando il suo capo chiese perche' perdesse tempo a lavarle rischiando di essere beccato, Giovanni Letizia gli rispose che Orsi non valeva le sue scarpe». 14 gennaio 2009. In un edificio diroccato di Trentula Ducenta, al confine con il Lazio, finisce la latitanza del boss Giuseppe Setola. Con lui viene fermata la moglie, Stefania Martinelli. Fra il 9 e l'11 marzo la Dda partenopea mette a segno un altro colpo mortale per i Casalesi con l'arresto di altri uomini legati a Franco Letizia, cugino di Giovanni, considerato il reggente del clan. Fra loro anche il trentatreenne Vincenzo Letizia detto ‘o schizzato. 3 aprile 2009. La Mobile di Caserta arresta Armando Letizia, 56 anni. Considerato elemento di spicco del clan, Armando e' zio di Giovanni Letizia e padre del latitante Franco. Il cerchio si stringe intorno a quest'ultimo, che sara' tratto in manette il 19 maggio. Ma quella domenica 26 aprile, il giorno dell'arrivo di Berlusconi a Casoria per il compleanno di Noemi, un'altra e piu' rilevante cattura forse e' gia' nell'aria. All'alba del 29 aprile la Direzione Investigativa Antimafia di Napoli sorprende Michele Bidognetti, fratello del boss Francesco Bidognetti (detenuto al 41 bis eppure ancora in grado - secondo gli inquirenti - di impartire ordini), ma soprattutto parente del collaboratore di giustizia Domenico Bidognetti. <br /><br /><br />Un gruppo criminale strettamente collegato a quello dei Setola e, quindi, ai Letizia. «Una storia - fanno notare in ambienti giudiziari del casertano - che puzza lontano un miglio di rifiuti. Non va dimenticato che per i Bidognetti questa e' stata sempre una fra le piu' lucrose attivita'. E che molte operazioni messe a segno recentemente dalle forze dell'ordine nascono dalle rivelazioni su quel maleodorante business rese da una gola profonda del settore come Gaetano Vassallo». Senza contare, su tutto, la presenza degli imprenditori-camorristi del settore rifiuti Michele e Sergio Orsi: il primo ucciso proprio per mano del clan Letizia quando era in procinto di collaborare con la magistratura. Il secondo, arrestato nell'ambito di un'operazione anticamorra di febbraio scorso, era invece stato prosciolto nel 2007 da analoghe accuse. Al suo fianco, come penalista, c'era l'avvocato Ferdinando Letizia dello studio Stellato di Santa Maria Capua Vetere. Casertano, 35 anni, Ferdinando Letizia e' anche consigliere comunale a Castelvolturno e capogruppo della lista “Liberamente”, sul cui sito internet si esaltano le gesta del leader Silvio Berlusconi. Il colpo inferto ai trafficanti di rifiuti con l'apertura dell'inceneritore di Acerra, il timore di perdere gli appalti da milioni di euro che ruotano intorno all'affare munnezza, potrebbero insomma essere fattori non del tutto estranei al clima rovente delle ultime settimane. <br /><br /><br /><br />IL MILAN? ALL'OLIMPIA <br /><br /><br />Ma torniamo ai segnali. A quegli avvenimenti forse solo in apparenza “curiosi” che avevano preceduto la famosa sera del 26 aprile. Quella domenica a giocare sul campo del San Paolo c'era stata l'Inter. Ma il 22 marzo a Napoli per una sfida di campionato era sbarcato il Milan. Che per la prima volta aveva abbandonato i consueti, sfavillanti hotel del lungomare partenopeo con vista sul golfo, per andare ad alloggiare in una delle piu' desolate periferie dell'hinterland: Sant'Antimo, Hotel Olimpia. Terra di inceneritori, ecoballe e Cdr. Al confine col triangolo della morte Nola-Marigliano-Acerra. Comune, Sant'Antimo, due volte sciolto per infiltrazioni camorristiche. Area infestata da sversamenti illegali di materiali tossici. E non lontana da quell'agro aversano da cui trae le sue origini il gruppo Setola-Bidognetti-Letizia. <br /><br /><br /><br />L'Hotel Olimpia rientra nell'impero economico della famiglia Cesaro, che in zona possiede anche l'unico presidio sanitario disponibile per uno fra i territori piu' densamente popolati d'Italia, il Centro Igea, ed una serie di altre lucrose attivita'. Leader della famiglia e' Luigi Cesaro, deputato Pdl, candidato in pole position per la presidenza della Provincia di Napoli. Sui suoi pregressi legami coi clan della zona si soffermava a lungo (come la Voce ha ricordato nel numero di maggio scorso) la relazione di fuoco redatta dai commissari prefettizi inviati a Sant'Antimo dopo lo scioglimento per camorra del 1991. <br /><br /><br /><br />Ecco i passaggi chiave. «I collegamenti di taluni degli amministratori con la malavita organizzata - clan Puca e Verde - si estrinsecano attraverso rapporti di parentela e/o cointeressi in attivita' economiche e patrimoniali». «La cointeressenza in attivita' economiche si coglie soffermandosi sugli accordi in materia di appalti fra i clan di Pasquale Puca ed il clan Verde, che operano rispettivamente attraverso le cooperative “La Paola” e “Raggio di Sole”, addivenendo in tal modo ad una spartizione dei settori dell'economia locale. Della Cooperativa “Raggio di Sole” e' socio il consigliere comunale Antimo Cesaro unitamente ai fratelli Raffaele (legale rappresentante) e Luigi». Ancora: «Lo stesso consigliere Aniello Cesaro risulta citato a comparire dalla Autorita' Giudiziaria in ordine a molteplici attivita' estorsive messe in atto da Pasquale Puca, capo dell'omonimo clan camorristico operante in Sant'Antimo e Casandrino; risulta avere in atto procedimenti per truffa, interesse privato in atti d'ufficio, omissione in atti d'ufficio e peculato». Diciannove anni dopo, di Luigi Cesaro (e del suo “gemello” politico Nicola Cosentino, sottosegretario all'Economia), parla Gaetano Vassallo, come ricorda l'Espresso in un'inchiesta di settembre 2008. E qui tornano le coincidenze. Perche' se le verbalizzazioni del pentito dovessero trovare conferma, a favorire l'attivita' imprenditoriale dei Cesaro non sarebbe stato un clan qualsiasi. Ma il gruppo di Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte. <br /><br /><br />IL BOOMERANG <br /><br /><br />Sto pensando di riferire in aula sul caso Letizia. Ma ci devo riflettere». 23 maggio. E' appena scoppiato il caso Mills (la condanna per corruzione dell'avvocato David Mills, che tira il ballo lo stesso premier) e siamo a poche ore da un altro storico annuncio di analogo tenore: «riferiro' alla Camera sulla vicenda Mills». Perche', allora, mentre tutti parlano di Mills, lo stesso Cavaliere torna a porre l'accento sulla storia dei suoi rapporti con Noemi Letizia e la sua famiglia? La risposta potrebbe stare tutta in una ricostruzione dei fatti che comincia a circolare a Napoli. E che trae spunto da quelle mezze frasi dette “col cuore in mano” prima dal papa' di Noemi («il mio rapporto con Berlusconi? Preferisco non approfondire, siamo legati da un segreto»), poi dalla mamma Anna Palumbo: «non chiedetecelo, non possiamo dire di piu'...». Dopo la valanga di stridenti contraddizioni abbattutasi sul resoconto che lo stesso Cavaliere aveva voluto rendere negli studi di Porta a Porta (dalla bufala del Benedetto Letizia autista di Craxi, subito sbugiardata dal figlio dell'ex leader socialista Bobo, alle secche smentite di Franco Malvano e Fulvio Martusciello che addirittura - aveva detto il premier a Bruno Vespa - gli erano stati segnalati quella sera da Letizia), ora lo staff del presidente deve mettere a punto una versione inattaccabile. E se colpisse anche i sentimenti, se saltasse fuori una storia di buona sanita', meglio. E' partita cosi' la caccia di alcuni cronisti alle notizie d'agenzia di quel maledetto 29 luglio 2001 quando l'appena diciannovenne Yuri Letizia, fratello di Noemi che in quel periodo prestava servizio militare, perse tragicamente la vita a bordo di una Fiat punto andatasi a schiantare contro gli alberi sulla Salaria. E' stato un articolo di Francesco Lo Sardo sul quotidiano Europa a gettare in campo l'ipotesi: «pare sia stato dopo questa tragica morte - scrive il 15 maggio - che, in qualche modo e per qualche speciale ragione, si sia cementato il legame tra il signor Elio Letizia e Silvio Berlusconi». La ricostruzione potrebbe essere gia' pronta: «Prima - fa sapere il premier - li lascio andare avanti, perche' cosi' si mostrano per quello che sono. E sara' un boomerang tale che si vergogneranno, e perderanno consenso e la stima degli elettori, perche' in questa vicenda tutto e' piu' che pulito». <br /> <br />da: http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=211delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-79397479643918364112009-06-15T18:41:00.000+02:002009-06-15T18:43:35.039+02:00Il coraggio e la morale di Enrico BerlinguerIl coraggio di Berlinguer. di Paul Ginsborg<br />Sapeva come difendere la democrazia, ma non aveva un’idea convincente per farla crescere.<br />Paul Ginsborg ricorda il leader del Pci<br /><br />Nel 1994, a dieci anni dalla sua morte, scrissi che nella storia della repubblica a Berlinguer spettava il ruolo del “leader politico che fece di più per salvare l’Italia e la sua democrazia in un periodo di grande travaglio” (Dialogo con Massimo D’Alema, Giunti). Oggi non posso che confermare quel giudizio. Per capire perché, bisogna tornare per un momento dentro la grande crisi della prima parte degli anni settanta.<br /><br />La storia della repubblica è tragicamente segnata a intervalli regolari da crisi di ogni tipo: politiche, economiche, sociali e culturali. La crisi degli anni settanta fu certamente la più drammatica, e combinava più elementi. Il primo, quello economico, raggiunse il suo culmine nel 1974-1975: la crisi petrolifera aveva colpito l’Italia in modo particolarmente duro, la bilancia dei pagamenti era sempre più in rosso, le aziende più importanti erano fortemente indebitate, l’inflazione cresceva vertiginosamente. Nel 1975 l’inflazione era al 17 per cento, mentre il prodotto nazionale lordo registrava il risultato peggiore dalla fine della guerra: -3,50 per cento, cifra che quasi sicuramente sarà superata dai dati del 2009.<br /><br />Allo stesso tempo l’Italia diventò uno dei principali teatri di un conflitto internazionale che abbracciava l’intero bacino del Mediterraneo. A est della penisola incombeva il nuovo modello di autoritarismo dei colonnelli greci. A ovest, la penisola iberica era scossa dalla rivoluzione portoghese del 1974-1975 e dalle incerte prospettive che si erano aperte in Spagna dopo la morte di Franco. Il Medio Oriente era in fiamme, la Turchia in mezzo a una guerra civile non dichiarata. Non a caso l’Economist definì il Mediterraneo come il “ventre molle della Nato”.<br /><br />In Italia questo fu il momento storico delle grandi trame e della grande ondata del terrorismo. Posso solo accennare a questi eventi drammatici, ma per fortuna non tutti gli elementi della crisi coincidevano o convergevano nello stesso momento. Se così fosse stato, quasi sicuramente la democrazia repubblicana non sarebbe sopravvissuta. Nei primi anni settanta troviamo la variegata offensiva della strategia della tensione: le mosse di un ambasciatore americano irresponsabile, Graham Martin, e un capo dei servizi segreti, Vito Miceli, con “tendenze sospette”; la versione italiana particolarmente feroce della stagflazione nel 1974-1975; dal 1973 la crescita del terrorismo di estrema sinistra; alla fine del decennio la loggia P2. <br /><br /><br />Compromesso storico<br /><br />I pericoli per la democrazia italiana, quindi, erano reali, e la risposta di Berlinguer – la difesa a oltranza delle istituzioni repubblicane, la creazione di una vasta alleanza democratica nel parlamento e nel paese, il compromesso storico, la netta scelta di campo internazionale per il suo partito (“mi sento più sicuro stando di qua”) – fu all’altezza della situazione.<br /><br />Dopo il 1945 ogni leader comunista dell’occidente doveva conciliare interessi e lealtà diverse: di partito, di classe, di collocazione internazionale, di nazione. Nella situazione surriscaldata italiana degli anni settanta e sulla scia degli avvenimenti cileni, Berlinguer non esitò. “L’unità del popolo per salvare l’Italia” è il significativo titolo del lungo discorso con cui aprì il quattordicesimo congresso del Pci nel marzo del 1975. E in un discorso parlamentare del luglio 1977 osservò: “Eccezionale è stata la tenuta del paese di fronte alle prove tremende di questi ultimi anni di crisi economica e sociale, di trame antidemocratiche, di crociate integralistiche e di deflagrazione del terrorismo”.<br /><br />Bisogna notare che questa grande sensibilità ai pericoli dell’epoca e ai possibili esiti catastrofici combaciava fortemente con la personalità di Berlinguer, non cupa ma certamente gravata dal peso della storia. Ma la sua sintonia con il momento, quelle sue antenne così sensibili ai rischi, avevano anche un rovescio della medaglia. Si può dire che Berlinguer avesse una visione lungimirante di come difendere la democrazia italiana, ma non un’idea così convincente di come farla crescere.<br /><br />Gli anni dopo il 1976 dovevano essere, per usare le sue parole, un periodo di “profondo cambiamento nelle strutture politiche, economiche e sociali”. In realtà furono una continua richiesta di sacrifici, senza le contropartite necessarie per sostenere quella grande ondata di speranza e di richiesta di cambiamento che veniva dal voto del 1976. Ci furono certamente delle riforme in quegli anni, e almeno una fu importantissima, quella che istituiva il servizio sanitario nazionale nel 1978. Il Pci entrava nell’area di governo, ma invece di introdurre nuove e democratiche forme di gestione del potere sembrava adottare le abitudini degli altri partiti.<br /><br />Ancora nel 1978 Norberto Bobbio notava “un potere ascendente” nella società italiana, il prodotto di anni di mobilitazione di massa nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri. Ma questo “potere ascendente” non trovava gli esiti politici sperati. C’era il bisogno di difendere la democrazia e allo stesso tempo di innovare, di essere – nelle parole di un appunto di Antonio Tatò a Berlinguer del febbraio 1978 – “conservatori e rivoluzionari”. <br /><br />L’austerità<br /><br />Questa considerazione mi porta a una seconda questione: l’austerità, una “occasione per trasformare l’Italia”, come recita il titolo di un suo famoso scritto pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1977. Tra le voci internazionali che negli anni settanta criticarono il modello di modernità capitalistica, una delle più alte e intelligenti fu quella di Berlinguer. Nelle sue conclusioni al convegno degli intellettuali del 15 gennaio 1977, Berlinguer sostenne la necessità di abbandonare “l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario”.<br /><br />Nel 1983, al sedicesimo congresso del Pci, in un discorso che per molti aspetti rappresentò il suo testamento morale e politico, tornò sui temi dello spreco, del consumo e del declino: “La società capitalistica contemporanea ha prodotto e produce sempre più un inaridimento dell’uomo… una spinta esasperata al consumismo individuale, alla avidità di denaro, di successo, di potere, considerati il fine primo dell’esistenza umana”.<br /><br />Di fronte a queste tendenze Berlinguer propose una nuova austerità, concepita non in termini di un angusto puritanesimo, ma come l’accettazione generale del bisogno di invertire le principali tendenze della società moderna, eliminando le distorsioni più vistose. L’austerità era “rigore, efficienza, severità”, ma mirava a creare “una società più giusta, meno diseguale, relativamente più libera, più democratica, più umana”. E doveva farlo non solo all’interno delle società capitalistiche avanzate, ma nei rapporti tra nord e sud del mondo. Come nel caso della sua difesa della democrazia, così nelle sue riflessioni sui consumi e sugli sprechi è difficile non apprezzare le posizioni di Berlinguer, il loro peso anticipatorio, il loro senso di giustizia.<br /><br />Sul degrado pubblico il leader comunista giocava in casa: aveva uno spiccato senso del pubblico e della necessità di cambiarne radicalmente il volto, di contestare il degrado e l’inefficienza della pubblica amministrazione, la corruzione endemica della vita pubblica italiana, il ruolo spesso negativo dei partiti. Essendo comunista, Berlinguer aveva anche un’idea forte dell’importanza dei servizi pubblici: gli asili nidi, le scuole e (guarda caso) il servizio sanitario nazionale, così fortemente voluto da lui e da suo fratello Giovanni.<br /><br />In questo campo i loro discorsi dell’epoca risuonano forti e chiari ancora oggi. La stessa cosa si può dire per i rapporti tra nord e sud del mondo. Berlinguer dimostrava una sensibilità forte verso quei “due terzi del mondo, che non tollerano più di vivere in condizioni di fame, di miseria, di inferiorità rispetto ai popoli e ai paesi che hanno finora dominato la vita mondiale”.<br /><br />Ma l’austerità era anche una critica incessante ai consumi privati, e qui Berlinguer si trovava su un terreno molto più insidioso. I comunisti italiani avevano sempre dedicato molta attenzione al mondo della produzione, ma molto meno a quello del consumo. La critica di Berlinguer resta generica, manca una prima tipologia dei consumi privati, una vera capacità di operare distinzioni nel mondo della cultura materiale e immateriale.<br /><br />Questa lacuna ha molto a che fare con l’analisi berlingueriana della crisi di cui ho parlato prima. Un’analisi spesso catastrofica, che lasciava poco spazio a una dialettica più sfumata. I consumi privati moderni avevano certamente forti elementi di futilità. Ma avevano anche elementi liberatori che non andavano sottovalutati in nessun modo: le possibilità di ampliare le scelte individuali, di viaggiare, di comunicare, di rispondere ai desideri in quel campo che il sociologo Colin Campbell ha definito “edonismo immaginativo autonomo”.<br /><br />Tutto questo non corrisponde al concetto di “austerità”, e non a caso la proposta di Berlinguer ha avuto vita breve. La sua intuizione era giusta, ma la parola “austerità” non era quella adatta e la condanna dei consumi individuali troppo indiscriminata. Nel mondo contemporaneo l’individualismo non si traduce automaticamente in egoismo e atomizzazione. Il consumismo moderno non è solo inaridimento dell’uomo. è soprattutto una ricerca di identità in un mondo insicuro e di nuovo in crisi. Il massimo tributo che possiamo offrire a Berlinguer è cercare di andare oltre il punto in cui fu costretto a passare il testimone, e soddisfare pienamente questo bisogno di identità, che si basa senz’altro sull’individuo, ma in un nuovo contesto collettivo che dobbiamo ancora costruire insieme.<br /><br />Paul Ginsborg è uno storico britannico. Insegna storia dell’Europa contemporanea all’università degli studi di Firenze. Il suo ultimo libro è La democrazia che non c’è (Einaudi 2006). <br />Questo articolo è il testo del discorso tenuto alla camera dei deputati durante la commemorazione di Enrico Berlinguer, organizzata dal Partito democratico il 21 maggio 2009. <br /> <br />[Fonte Internazionale] <br /><br /><br />La questione morale. Ieri e oggi<br />di Eugenio Scalfari<br />«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer.<br />«I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia». <br /><br />La passione è finita? <br />Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora... <br /><br />Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana. <br />È quello che io penso. <br /> <br />Per quale motivo? <br />I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti. <br /> <br />Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle. <br />E secondo lei non corrisponde alla situazione? <br />Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo. <br />La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. <br /> <br />Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive. <br />In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità. <br /> <br />Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura? <br />Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani? <br /> <br />Veniamo alla seconda diversità. <br />Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata. <br /> <br />Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti. <br />Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi. <br /> <br />Non voi soltanto. <br />È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee? <br /> <br />Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico. <br />Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate. <br /> <br />Dunque, siete un partito socialista serio... <br />...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo... <br /> <br />Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società? <br />No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese. <br /> <br />Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no? <br />Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e senza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta. <br /> <br />Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché? <br />La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude. <br /> <br />Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere? <br />Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili. <br />consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità. <br /><br />Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito... <br />Noi sostenemmo che le storture produttive e, comunque, la situazione economica dei paesi industrializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati. <br /> <br />E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare? <br />Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire. . . <br /><br />«La Repubblica» 28 luglio 1981delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-54086585507750234802009-06-02T21:56:00.000+02:002009-06-02T21:57:59.079+02:00Cade la maschera del clownCade la maschera del clown <br />Articolo di Società cultura e religione, pubblicato lunedì 1 giugno 2009 in Gran Bretagna.<br />[The Times] <br /><br />[Editoriale]<br /><br />Berlusconi deve rispondere alle accuse sulle sue frequentazioni femminili e alle domande sul suo comportamento inadeguato. La qualità del governo non è un affare privato.<br /><br />L’aspetto più sgradevole del comportamento di Silvio Berlusconi non è il fatto che egli sia un buffone sciovinista, né che gli piaccia fare baldoria con donne di cinquant’anni più giovani di lui, abusando della sua posizione per offrire loro lavori da modella, da assistente personale o perfino, per assurdo, da candidata al Parlamento Europeo. Quello che è più sconvolgente è il totale disprezzo con cui tratta l’opinione pubblica italiana.<br /><br />Questo vecchio Casanova forse trova il suo atteggiamento da playboy divertente, o perfino audace, vantandosi delle sue conquiste, umiliando sua moglie e facendo commenti che per molte donne sarebbero grottescamente inappropriati. Non è il primo né l’unico il cui comportamento indegno non è adatto alla carica che ricopre. Ma quando gli vengono poste delle domande legittime sui propri rapporti che riguardano lo scandalo e i quotidiani lo incalzano perché dia delle spiegazioni su delle relazioni che sono quanto meno sconcertanti, la maschera del clown cade. Minaccia quei giornali e quelle televisioni che lui stesso controlla, invoca la legge per proteggere la sua “privacy”, rilascia delle dichiarazioni evasive e contraddittorie e in seguito promette in maniera melodrammatica che si dimetterà se scoperto a mentire.<br /><br />La vita privata di Berlusconi è certamente privata. Ma come ha scoperto il Presidente Clinton, gli scandali non si conciliano con le cariche importanti. Ai suoi critici, Berlusconi risponde che lui rimane in vetta nei sondaggi di popolarità, che lui controlla saldamente il suo governo e che non sarà intimidito da quelli che lui definisce come tentativi dell’opposizione di diffamarlo. Inoltre, molti dicono che l’Italia non è l’America: il quadro di riferimento basato sull’etica puritana presente negli Stati Uniti non ha mai dominato la vita pubblica italiana, e pochi tra gli italiani si scandalizzano per uno che va a donne. Ma questa è pura condiscendenza. Gli italiani, allo stesso modo degli americani, capiscono benissimo cos’è e cosa non è accettabile. E come gli americani, considerano che un occultamento della verità sia spregevole.<br /><br />Pochi tra i media in Italia sono in grado di sostenere quest’opinione senza la paura di pagarne il prezzo. Ma è merito de La Repubblica l’aver posto continuamente delle domande sui rapporti tra il Presidente del Consiglio e la diciottenne Noemi Letizia, la cui collana ricevuta come regalo di compleanno è stata il pretesto usato dalla moglie di Berlusconi per chiedere il divorzio. Alla maggior parte di queste domande, ed è sulla bocca di ogni elettore italiano confuso, non c’è stata una risposta soddisfacente. Come e quando ha conosciuto la sua famiglia? E’ stato Berlusconi a chiedere delle foto ad un’agenzia di modelle e ad iniziare i rapporti con Noemi Letizia? E’ vero quello che c’è scritto su molti resoconti i quali affermano che dozzine di giovani donne sono state invitate a partecipare a delle feste presso la sua villa in Sardegna?<br /><br />Berlusconi ha promesso di spiegare tutto in Parlamento. Ma difficilmente avrà rassicurato i suoi critici dopo l’ingiunzione di questo fine settimana con la quale ha bloccato la pubblicazione di circa 700 fotografie che avevano la pretesa di mostrare cosa fosse successo in quelle feste. E non è stato aiutato nemmeno dallo sventurato ministro degli Affari Esteri, il quale ha cercato di difendere il suo capo facendo notare che in Italia l’età per il sesso consenziente è 14 anni - come se ciò fosse rilevante.<br /><br />Ma è importante tutto ciò? Alcuni italiani diranno di no. Altri diranno che gli estranei non si devono immischiare. Ma i votanti italiani, nel periodo finale prima delle elezioni europee, dovrebbero riflettere su come il loro governo viene gestito, sui candidati considerati adatti a Strasburgo e sulla sincerità del loro Presidente del Consiglio in tempi di crisi politica ed economica.<br /><br />E questo riguarda anche altri. L’Italia ospiterà gli incontri del G8 quest’anno. Discussioni importanti avranno luogo in questa sede, in cui i governi occidentali premono per una maggiore cooperazione nella lotta al terrorismo e alla criminalità internazionale. Berlusconi si considera amico di Vladimir Putin. Il suo Paese è un membro importante della Nato. Fa anche parte della zona euro, messa alla prova dalla crisi finanziaria globale. Non sono soltanto gli elettori italiani a chiedersi che cosa sta succedendo. Se lo chiedono anche i perplessi alleati dell’Italia.<br /><br />da: http://italiadallestero.info/archives/5811delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-8036659633700653502009-03-10T17:44:00.001+01:002009-03-10T17:46:39.414+01:00COS'E' UN ITALIANOAppunti per una definizione<br />Camilleri: Cos’è un italiano<br />di Andrea Camilleri<br /><br />Non sono uno storico, un sociologo, un antropologo, niente di tutto questo. Sono soltanto un raccontastorie, un romanziere italiano particolarmente attento, questo sì, ai suoi connazionali.<br /><br />E quindi non è un caso che tutte le citazioni a supporto o a pretesto siano tratte dalla letteratura, non da testi di storia.<br /><br />Perciò tutto quello che segue, e che farà sicuramente storcere la bocca agli addetti ai lavori, va preso col beneficio d’inventario.<br /><br />Premessa generale<br /><br />Se si prova a cambiare la domanda in cosa sia un francese o un tedesco, si può rispondere abbastanza agevolmente, magari mettendo in fila tutta una serie di luoghi comuni.<br /><br />Certo, anche per gli italiani sono stati coniati luoghi comuni, tipo «italiani brava gente», ma non credo che gli abissini gassati o i libici deportati siano dello stesso parere. E, senza andare troppo indietro nella storia, non penso che possano dichiararsi d’accordo nemmeno gli extracomunitari che quotidianamente sbarcano sulle nostre coste.<br /><br />Quando si fece l’Europa unita, molti italiani del Nord temettero di perdere, oltre ai soldini, anche la loro identità. Beati loro, che credevano di averne una. Alcuni padani, per affermarla, si sposarono col rito celtico che nessuno sa con esattezza in cosa consista.<br /><br />Comunque è chiaro che i riti celtici o l’adorazione del fiume Po non hanno nulla da spartire con certi riti del Sud come lo scioglimento del sangue di san Gennaro o il Festino di Santa Rosalia.<br /><br />Allora, come si fa a chiamare con lo stesso nome di italiano un contadino friulano e un contadino siciliano? Mi pare che ai suoi tempi anche il cancelliere Metternich, di fronte alle aspirazioni unitarie italiane, si sia posto suppergiù la stessa domanda. E aveva poi così tanto torto chi disse che l’Italia era solo un’espressione geografica? E il politico italiano il quale affermò che una volta fatta l’Italia bisognava fare gli italiani non ammetteva implicitamente che il senso di unità nazionale era da noi ancora del tutto assente?<br /><br />Prima di andare oltre, occorre chiarire come ho inteso il termine «italiano». Diciamo che ho preso a esempio l’italiano cosiddetto medio («ammesso e non concesso / che l’italiano medio è un poco fesso», cantava Laura Betti un quarantennio fa), vale a dire i risultati di una media statistica e ho cercato d’individuare tra di essi un comune denominatore diverso dal titolo di studio, tipo d’impiego, stipendio mensile eccetera. Ma gli uomini non sono numeri, ciascun individuo ha una propria individualità che rende non solo difficile, ma altamente improbabile la precisione del risultato globale. In altre parole, una ricerca cosiffatta di un comune denominatore rischia di non tener conto di tutto quello che può contraddire l’assunto stesso.<br /><br />Mi spiego meglio: non ricordo chi sosteneva che se un tale in un giorno si è mangiato due polli e un altro tale invece non ha neppure desinato, statisticamente risulterà che ne hanno mangiato uno a testa.<br /><br />Allora: per fare un esempio pratico: italiani brava gente? La mia risposta è no, ma ciò non toglie che tra gli italiani ci sia tanta, tantissima brava gente.<br /><br />Ad ogni modo, tratti comuni sono riscontrabili, alcuni visibili a occhio nudo, altri percepibili soltanto attraverso esami di laboratorio.<br /><br />È stato durante il periodo fascista che si è messo in atto il massimo sforzo d’unificazione, con provvedimenti di migrazioni interne e d’abolizione di caratteri distintivi regionalistici.<br /><br />Vennero soprattutto presi di mira i dialetti il cui uso fu severamente proibito a scuola, nei luoghi pubblici, in teatro, al cinema.<br /><br />Ma subito dopo il Minculpop, ossia il ministero della Cultura popolare, emanò una circolare con la quale le compagnie teatrali dialettali di Gilberto Govi (genovese), dei fratelli De Filippo (napoletana) e di Cesco Baseggio (veneziana) erano esentate dalla proibizione.<br /><br />Si trattava di una palese contraddizione, tanto più che le tre compagnie riscuotevano un grande successo su tutto il territorio nazionale, facendo un’indiretta propaganda dei dialetti.<br /><br />Ma questa contraddizione mi offre l’occasione per stabilire un primo tratto comune.<br /><br />L’uso dei dialetti<br /><br />È fuor di dubbio che la letteratura dialettale, con Ruzante, Meli, Porta, Belli, Goldoni, Pirandello, De Filippo, abbia spesso prodotto capolavori entrati a far parte del patrimonio culturale dell’intera nazione.<br /><br />Ma qual era, e qual è, l’uso dei rispettivi dialetti nel parlar comune?<br /><br />In un articolo degli ultimi anni dell’Ottocento, intitolato «Prosa moderna», Luigi Pirandello così scriveva: «L’uso della lingua italiana, è cosa vecchia detta e ridetta, non esiste. A Milano si parla il dialetto lombardo, a Torino il piemontese, a Firenze il fiorentino, a Venezia il veneziano, a Palermo il siciliano e così via di seguito, ciascun dialetto ha il suo tipo fonetico, il suo tipo morfologico, il suo stampo sintattico particolare: mettete ora un siciliano e un piemontese, non del tutto illetterati, a parlare insieme. Bene, per intendersi (…) sentiranno il bisogno di appellarsi a una favella comune, alla nazionale, a quella che dovrebbe unir tutti i popoli, poiché l’Italia è unita, alla lingua italiana. (…) Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? Si parla o si vuol parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuole essere la lingua italiana parlatain Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto.<br /><br />Pirandello porta l’esempio di due «non del tutto illetterati». Ma se l’esempio si fosse riferito a due illetterati? Oppure decisamente a due analfabeti?<br /><br />C’è un racconto di De Roberto, dal titolo La paura, che fotografa la realtà linguistica all’interno di una trincea della guerra ’15-’18: ogni soldato parla il dialetto della regione di provenienza. E tra di loro si intendono a gesti, a occhiate.<br /><br />Dunque uno dei comuni denominatori degli italiani è stato, almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, la diversificazione dialettale. Come spesso capita da noi, un tratto unificante è costituito da una diversità.<br /><br />Posso spiegarmi meglio facendo ancora ricorso a Pirandello. Egli dichiara, in un articolo intitolato «Teatro siciliano», che risale allo stesso periodo di quello citato in precedenza: «Un grandissimo numero di parole di un dato dialetto sono su per giù – tolte le alterazioni fonetiche – quelle stesse della lingua, ma come concetti delle cose, non come particolare sentimento di esse».<br /><br />Semplificando: di una data cosa, la lingua ne esprime il concetto, mentre il dialetto ne esprime i sentimenti.<br /><br />Il comune sentire italiano, cioè a dire il provare uno stesso sentimento di gioia o di esecrazione davanti a un certo evento, nascerebbe dunque dal pensar dialettale. La concettualizzazione operata dalla lingua porterebbe invece a reazioni non omogenee.<br /><br />Forse, a ben considerare l’origine notarile del volgare («sao ko kelle terre» eccetera), le osservazioni pirandelliane non risultano tanto campate in aria.<br /><br />L’avvento della televisione ha in un certo qual modo unificato, omologato in basso, la lingua italiana, ma non è riuscita a far scomparire del tutto le radici dialettali. Sono esse in definitiva che ancor oggi impediscono alla lingua italiana di diventare definitivamente una colonia dell’inglese.<br /><br />Quella contro i dialetti è stata, per fortuna, un’altra guerra persa dal fascismo (la guerra alle mosche, la battaglia del grano, la battaglia demografica, la battaglia per l’autarchia eccetera).<br /><br />Già, il fascismo…<br /><br />La vulgata popolare racconta che il fascismo nacque perché i treni non arrivavano in orario a causa degli scioperi dei ferrovieri e perché i reduci della guerra ’15-’18 venivano vilipesi dai «rossi» imboscati e traditori della Patria. Mussolini, interventista, combattente, socialista, ex direttore dell’Avanti!, convinse gli industriali del Nord e gli agrari dell’Emilia Romagna, preoccupati dagli scioperi e dalla nascita di una forte organizzazione operaia ispirata dal Pc d’I. nato dalla scissione socialista del ’21, che il suo movimento non era una rivoluzione (anche se così la sbandierava) ma un sostanziale ritorno alla legge e all’ordine.<br /><br />Se rivoluzione era, si trattava di una rivoluzione borghese con orizzonti borghesi e quindi bene accetta all’opinione pubblica e alla più importante stampa italiana. E infatti tanto la grande quanto la piccola borghesia vi si riconobbero.<br /><br />La marcia su Roma, da Mussolini, fatta in vettura-letto e abilmente propagandata con toni epici, probabilmente sarebbe finita in una bolla di sapone davanti all’esercito pronto ad aprire il fuoco se Vittorio Emanuele III non avesse spalancato le porte al fascismo non firmando lo stato d’assedio.<br /><br />Nel primo governo Mussolini, tra quelli dei fascisti, spiccano molti nomi di eminenti liberali, socialisti, cattolici, democratici. Da quel momento in poi, fatta eccezione per il brevissimo periodo immediatamente seguente al delitto Matteotti, il fascismo trovò la strada in discesa e in poco tempo seppe guadagnarsi il consenso degli italiani. I pochi che resistettero furono incarcerati, mandati al confino o comunque messi a tacere.<br /><br />All’italiano del fascismo piacevano parecchie cose tra le quali l’autoritarismo, il decisionismo, il «me ne frego», il machismo e soprattutto piacque l’imposizione della divisa che permetteva una sorta di livellamento tra le classi.<br /><br />Quando, all’inizio degli anni Trenta, il fascismo pretese il giuramento di fedeltà al partito da tutti coloro che in un modo o nell’altro erano dipendenti dallo Stato, non un magistrato, un burocrate, un poliziotto, un funzionario di qualsiasi ordine e grado si tirò indietro. Solo dodici docenti universitari opposero un netto rifiuto e furono mandati a casa.<br /><br />Insomma, a un certo momento, la frequente scritta murale «Duce, tu sei tutti noi» rispecchiò la realtà italiana. Si disse che le adunate oceaniche di piazza Venezia erano il risultato di una precettazione capillare, ma non era assolutamente vero, l’italiano amava ascoltare la parola del capo sentendosi uno tra i tanti.<br /><br />Oggi si può tranquillamente affermare che se Mussolini non avesse firmato il Patto d’acciaio con Hitler, costringendosi così a entrare nel conflitto, sarebbe morto di vecchiaia nel suo letto. Come accadde per Francisco Franco, che sul fronte italo-tedesco mandò pro forma una divisione o giù di lì e poi si tenne prudentemente in disparte.<br /><br />Il consenso, come si sa, cominciò a calare a picco quando gli italiani si resero conto che la guerra era irrimediabilmente perduta.<br /><br />Ma l’intervento a fianco di Hitler venne considerato dalla maggioranza degli italiani come il tragico errore di un Mussolini mal consigliato dai suoi gerarchi e dai suoi generali. La frase più comune in circolazione era: «Ha sbagliato a fare la guerra, ma è indubbio che cose buone ne ha fatte».<br /><br />Insomma, una sorta d’assoluzione con tre avemarie e un paternoster per quell’unico sbaglio. La guerra era stata invece lo sbocco naturale, fatale, irreversibile della concezione fascista della ragione del più forte (nel caso specifico l’alleato tedesco) ma questo gli italiani non lo capirono o non lo vollero capire. Con conseguenze gravi.<br /><br />Nel 1945, a Liberazione avvenuta, apparve sulla prestigiosa rivista politicoculturale Mercuriol’articolo di un grande giornalista, Herbert Matthews, intitolato: «Non l’avete ucciso». In esso, prendendo spunto dall’esecuzione di Mussolini e di molti suoi gerarchi, Matthews sosteneva non solo che il fascismo non era morto, ma che avrebbe continuato a vivere a lungo dentro gli italiani. Non certo nelle forme del ventennio, ma in certi modi di pensare e d’agire. E che l’infezione, profondamente diffusa, sarebbe durata molto, molto a lungo, decenni e decenni.<br /><br />Allora, a chi scrive, quelle parole sembrarono esagerate, ma bastò pochissimo per modificare questo giudizio.<br /><br />Quanto tempo dopo la caduta del fascismo l’Msi, che se ne proclamava l’erede, diventò una forza parlamentare? Parlino le date. Giorgio Almirante, già segretario di redazione e attivo collaboratore dell’infame rivista La difesa della razza, propugnatrice e sostenitrice delle leggi razziali, già sottosegretario nella repubblica di Salò, fonda il neofascista Msi nel 1946, meno di un anno dopo la caduta del fascismo, e nel 1948 (!) può sedersi con altri del suo partito alla Camera. Appena tre anni dopo la Liberazione, il neofascismo entra a far parte con pieno diritto dell’arco costituzionale.<br /><br />Il fascismo insomma è una fenice che non ha bisogno di ridursi in cenere per rinascere. Sessantaquattro anni di democrazia ancora non sono bastati a ripulire il sangue dell’italiano dentro il quale tuttora vivono cellule infette, pronte a trasformarsi in ogni occasione in virus pericolosi.<br /><br />A parte le sempre più frequenti manifestazioni dichiaratamente fasciste, che vanno dal saluto romano negli stadi alle aggressioni tanto violente quanto immotivate a giovani di sinistra, a barboni, a extracomunitari (a proposito, quanti sono i condannati per il reato di apologia del fascismo?), il fenomeno più diffuso e certamente più pericoloso è rappresentato da certi comportamenti fascisti da parte di chi è convinto di non esserlo. Alcuni esempi: la richiesta della destra di espellere dall’Italia i contestatori del governo israeliano per la sanguinosa invasione di Gaza è quanto di più fascista e meno democratico si possa immaginare. L’idea di prendere le impronte digitali ai bambini rom è razzista e fascista insieme. È fascismo che il governo siluri il prefetto di Roma perché non d’accordo con alcune proposte del sindaco il quale, tra l’altro, usa portare la croce celtica al collo. È fascista la volontà di Berlusconi di mettere mano alla Costituzione senza il concorso dell’opposizione. Ricorda tanto il «noi tireremo dritto» di mussoliniana memoria. E si potrebbe continuare a lungo.<br /><br />Le particelle di Majorana<br /><br />Quasi sempre, nella sua lunga storia, l’italiano ha dimostrato di essere esattamente come le particelle di Majorana. Il grande fisico teorico, misteriosamente scomparso nel 1938, elaborò un’ipotesi rivoluzionaria secondo la quale, adopero le parole del fisico Andrea Vacchi, «il partner di antimateria di alcune particelle siano loro stesse». Come dire che non la coesistenza, ma l’inscindibile fusione degli opposti costituisce l’identità.<br /><br />C’è uno splendido racconto di Borges nel quale un eretico e un custode della fede a lungo e ferocemente si contrappongono. Quando l’eretico infine brucia sul rogo, il suo volto, per un attimo, si rivela essere quello stesso del custode della fede che l’ha fatto condannare a quell’atroce morte. Non le due facce di una stessa medaglia dunque, ma una medaglia che ha nel recto e nel verso la medesima immagine.<br /><br />Lo stesso soldato italiano che, diciannovenne, a Caporetto scelse di non combattere, lo ritrovi poco più che quarantenne a El Alamein che si batte sino alla morte. E non certo per ragioni, come dire, equivalenti: nel primo caso infatti si trattava di difendere il territorio italiano, nel secondo di mantenere una postazione italiana in territorio straniero.<br /><br />Lo stesso italiano che divenne emigrante e che venne aiutato in terra straniera da coloro che l’ospitavano, col fornirgli lavoro e abitazione, oggi mal sopporta che in Italia ci sia gente pronta ad accogliere gli extracomunitari.<br /><br />Lo stesso italiano che amò intensamente Mussolini, che l’applaudì freneticamente a Milano, pochi giorni dopo l’appese per i piedi al distributore di benzina di piazzale Loreto, sempre a Milano.<br /><br />Lo stesso italiano che una volta stentava a campare in Friuli e mandava la moglie a far la cameriera a Roma o altrove oggi disprezza la cameriera venuta dal Sud.<br /><br />Più banalmente: lo stesso italiano che divorzia dalla moglie, e che vive con l’amante dalla quale ha avuto due figli, partecipa compunto a una dimostrazione contro il divorzio e firma contro i dico. Ma di fronte al duplice comportamento dell’italiano nei riguardi dei dettami della Chiesa si potrebbe scrivere un trattato piuttosto voluminoso. Gli esempi potrebbero continuare a centinaia.<br /><br />Nell’italiano, dentro la medesima persona, possono insomma convivere contemporaneamente Galileo Galilei e Giordano Bruno, Tommaso Campanella e padre Bresciani, don Abbondio e Savonarola.<br /><br />L’italiano è ritenuto all’estero persona inaffidabile in quanto spesso non mantiene la parola data o non porta a termine l’impegno preso. E gli stranieri fanno l’esempio della nostra politica estera, capace dall’oggi al domani di mutare radicalmente corso e indirizzo e di far diventare gli alleati di ieri i nemici di oggi.<br /><br />Per esempio, questo avvenne prima della guerra ’15-’18, lo stesso è avvenuto verso la fine della guerra ’40-’45.<br /><br />Non si tratta di scarsa serietà, a mio avviso, ma del fatto che nel momento in cui dava la sua parola d’onore, in quell’italiano, e in quel preciso momento, aveva la prevalenza il segno +, ma il suo opposto, il segno –, era pur sempre contestualmente presente e pronto a farsi avanti.<br /><br />C’è nel film Il Terzo uomo un’esemplare battuta del personaggio interpretato da Orson Welles (ma il regista dichiarò che a scriverla era stato lo stesso Welles) dove viene detto che il Rinascimento in Italia ebbe origine proprio nel periodo più acuto delle guerre fratricide, dei tradimenti, degli assassini.<br /><br />Mentre dalla lunga, tranquilla, secolare pace degli svizzeri non è nato che l’orologio a cucù.<br /><br />Questo paradossale segno di contraddizione non solo è riscontrabile con uno sguardo panoramico, ma lo si può continuare a vedere, zoommando lentamente, anche dentro un paese rinascimentale, dentro una via rinascimentale, dentro una casa rinascimentale, dentro un appartamento rinascimentale, dentro un italiano rinascimentale.<br /><br />E, naturalmente, anche dentro un italiano d’oggi.<br /><br />Il rutto del pievano<br /><br />Ossia gli italiani e il loro passato. Cantava Curzio Malaparte negli anni del consenso al fascismo: «Val più un rutto del tuo pievano/ che l’America e la sua boria./ Dietro all’ultimo italiano/ c’è cento secoli di storia».<br /><br />Senonché sono gli italiani a essere boriosi e non dei cento secoli di storia, che ignorano del tutto, ma dei rutti del loro pievano.<br /><br />L’italiano non ha una visione totale della storia d’Italia, ha semmai una certa visione di dettaglio, limitata cioè alle minute vicende del suo vicino territorio, del suo paese d’origine, e addirittura del quartiere dove è avvenuta la sua nascita.<br /><br />Può tuttalpiù rapportarsi con le vicende del paese limitrofo, ma solo perché esso è il suo rivale diretto nel campionato di calcio.<br /><br />L’italiano è come un marziano caduto nottetempo al centro di quattro case abitate. Gli basterà venire a sapere dove si trova la sua abitazione, la parrocchia, l’osteria, il municipio. La sua curiosità non si spingerà oltre.<br /><br />Il Palio di Siena con le sue rivalità tra contrade, che arrivano a un fanatismo sconosciuto persino ai tifosi della curva Sud, è lo specchio del forte legame che unisce l’italiano al suo habitat.<br /><br />E questo spiega in parte il grande successo politico della Lega Nord. All’infuori di questo perimetro, l’orizzonte dell’italiano è da miopi.<br /><br />Durante la guerra ’15-’18 il maggior numero di renitenti alla leva (mi rifaccio a documenti dello Stato maggiore) e di disertori fu riscontrato tra i contadinisoldati che provenivano dal Sud, specialmente siciliani e calabresi, i quali non capivano perché dovessero andare a difendere i cavolfiori dei contadini del Nord.<br /><br />Alla domanda se amava la sua patria, Brecht un giorno rispose che non aveva nessuna ragione d’amare la finestra dalla quale era caduto bambino. Gli italiani amano invece quella finestra e il terreno sottostante sul quale hanno battuto la testa.<br /><br />Nel 1942, mi pare, sulla rivista Primato che dirigeva il ministro Bottai, venne pubblicata una vignetta di Amerigo Bartoli. Mostrava Benedetto Croce seduto nel suo studio intento a scrivere. Alle sue spalle Hegel sbirciava quello che Croce andava scrivendo e poi diceva: «Ciò che più ammiro in Lei, Maestro, è il senso della Storiella».<br /><br />Ecco, gli italiani non hanno il senso della Storia, ma della Storiella.<br /><br />Facendo un certo sforzo, riescono a prendere in considerazione la microstoria, ma da queste visioni parziali e minute non riescono a ricostrure la grande visione generale.<br /><br />Del Risorgimento sanno appena che lo zio Lello, fratello del nonno della madre, era quello scapestrato, quello sventato che abbandonò la famiglia per andare a farsi ammazzare da uno che manco conosceva.<br /><br />L’unica storia che l’italiano conosce veramente, e a fondo, è quella del gioco del calcio. Non solo sa a memoria nomi, soprannomi, vizi, difetti, gol segnati, mogli e amanti di ogni giocatore che della sua squadra ha fatto parte dalle origini ai giorni nostri, ma anche di quelli delle squadre rivali.<br /><br />Per la Storia invece è un’altra storia.<br /><br />Perché la Storia comporta l’uso critico della memoria e gli italiani essenzialmente tendono ad essere smemorati o ad avere la memoria corta. Se la Storia è veramente magistravitae, gli italiani non hanno mai frequentato quella scuola.<br /><br />La memoria corta<br /><br />Quella parte del cervello che ha il compito d’archiviare la nostra vita nel suo insieme (non solo i fatti accaduti nel corso dell’esistenza, ma anche le letture che abbiamo fatto, gli spettacoli visti, i concerti ai quali abbiamo assistito, le mostre alle quali siamo andati) possiede, nell’italiano, una sorta di deleteautomatico che entra in azione assai presto, consentendo una scarsissima autonomia alla memoria.<br /><br />Fatti sgradevoli già ripetutamente accaduti nel corso degli anni, quando si ripresentano, all’italiano sembrano sempre nuovi.<br /><br />«Non si è mai vista un’inondazione simile a Roma!».<br /><br />Poi si va a guardare nelle facciate dei palazzi romani e si scopre che alcune lapidi ci mostrano che l’acqua nel Seicento o nel Settecento raggiunse livelli di gran lunga superiori a quelli attuali.<br /><br />È un esempio banale, lo so.<br /><br />Ma mi pare che sia stato T.S. Eliot a dire che l’inferno consiste nella memoria, ai dannati viene fatto ricordare tutto, persino quanto costava un etto di margarina nel 1928.<br /><br />Se l’inferno fosse veramente la memoria, l’italiano andrebbe direttamente in paradiso.<br /><br />Di un evento che l’ha appassionato, soprattutto perché strombazzato dai giornali e dalle televisioni, l’italiano ne conserva il ricordo solo per qualche settimana, al massimo per qualche mese.<br /><br />A meno che non si tratti di cronaca nera, allora la persistenza mnemonica è assai più lunga. Ma per una ragione semplicissima e cioè che gli italiani immediatamente si dividono in due partiti ferocemente contrapposti: gli innocentisti e i colpevolisti. Senza la minima cognizione delle carte processuali, senza essere a conoscenza dei dettagli dell’indagine, decidono a primo acchito se l’accusato è innocente o colpevole. A pelle. Al solo guardarlo.<br /><br />L’innocentista, sia detto per inciso, resterà fermamente ancorato alla propria convinzione anche quando i giudici della Cassazione, di fronte a prove schiaccianti, avranno condannato all’ergastolo il colpevole.<br /><br />A proposito di giudici e di giustizia. Essendo siciliano, citerò alcuni modi di dire della mia terra.<br /><br />Cu havi dinari e amicizia / teni ’n culu la giustizia.<br />(Chi ha denari e amici / se ne può fregare della giustizia.)<br />Fari la giustizia a manicu di mola. (Far giustizia in modo storto.)<br />Judici, presidenti e avvucati / ’n Paradisu nun ne attrovati.<br />(Giudici, presidenti e avvocati / in Paradiso non ne troverete.)<br />La furca è pi lo poviru, la giustizia pi lu fissa.<br />(La forca è per il povero, la giustizia per il fesso.)<br />La liggi per l’amici s’interpreta, pi l’autri s’applica.<br />(La legge per gli amici s’interpreta, per tutti gli altri s’applica.)<br />Lu codici è fattu da li cappeddri pi ghiri ’n culo a li coppuli.<br />(Il codice è fatto dai signori per andare in culo ai berretti.)<br /><br />Potrei continuare a lungo. La sfiducia nella giustizia è totale, basandosi sulla convinzione diffusa che essa sia uno strumento dei ricchi (che non incappano mai nelle sue maglie) usato contro i poveri. Una giustizia di classe.<br /><br />E credo che in ogni regione del Sud d’Italia ci siano modi di dire similari.<br /><br />Colpa dell’amministrazione della giustizia borbonica, m’è capitato di leggere da qualche parte. Le cose non stanno così: se la giustizia borbonica non fu un modello, quella italiana postunitaria non migliorò per niente la situazione, a volte la peggiorò.<br /><br />L’inchiesta Franchetti-Sonnino del 1876 è in proposito assai esplicita.<br /><br />Scriveva Pirandello su quegli anni ne I vecchi e i giovani: «Povera Isola, trattata come terra di conquista! (…) e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo, e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi al servizio dei deputati ministeriali (…) l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori…».<br /><br />Questo divario sull’amministrazione della giustizia al Sud e al Nord, salvo la parentesi fascista, continuò anche dopo la Liberazione, con la magistratura del Sud completamente asservita al potere, cioè alla Dc.<br /><br />Si deve ad alcuni eroici magistrati siciliani in prima linea nella lotta contro la mafia, e che ci lasciarono la vita, il risveglio della solidarietà dei cittadini verso la giustizia.<br /><br />Ma il punto massimo del consenso si verificò al tempo di Mani Pulite, quando la magistratura milanese fece piazza pulita della corruzione partitica e, praticamente, spazzò via la Prima Repubblica.<br /><br />Dalle ceneri di essa nacque inopinatamente un affarista milanese che seppe trasformarsi in uomo politico. Aveva molti conti aperti con la giustizia. E quindi, appena arrivato al potere, si è dedicato anima e corpo alla distruzione del sistema giudiziario, con continue leggi ad personam e addirittura arrivando ad affermare che i giudici sono esseri mentalmente tarati. È singolare come, in un’occasione, abbia usato contro i giudici le stesse parole adoperate dal gran capo mafioso Totò Riina.<br /><br />Ad ogni modo, dato il larghissimo seguito di cui dispone, ha abolito il divario tra Sud e Nord: l’italiano di Palermo e quello di Bergamo ora sono felicemente concordi nella sfiducia totale verso la giustizia.<br /><br />L’italiano che ha preso una multa per sosta vietata, oggi si sente autorizzato a dichiararsi vittima della giustizia.<br /><br />(10 marzo 2009)<br /><br /><br />da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/camilleri-cose-un-italiano/delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-17972037590622612862009-02-23T18:56:00.001+01:002009-02-24T19:59:41.669+01:00TEMPESTA DI DEBITITempesta di debiti<br />[Da Der Spiegel e Internazionale]<br /><br />[Mentre si discute di "bad bank" e di "bailout", l'Italia arriva alla crisi finanziaria mondiale con il terzo debito pubblico più consistente al mondo].<br /><br />Qual è la differenza tra socialismo e capitalismo? Nel socialismo le banche prima vengono nazionalizzate e poi falliscono, mentre nel capitalismo succede il contrario. Molti conoscevano già questa battuta quando l’hanno sentita dire ad Angela Merkel. Ma naturalmente ascoltarla dalle labbra della cancelliera tedesca, che in questi giorni è costretta a nazionalizzare le banche, fa un altro effetto. In una serata di gennaio, a Francoforte sul Meno, durante un evento organizzato dalla banca Metzler, Merkel ha messo in guardia dalle conseguenze dell’eccessivo indebitamento pubblico e ha pronunciato due frasi significative: “Si dice che gli stati non possano fallire”. Breve pausa: “Be’, è una voce priva di fondamento”. è vero, anche gli stati possono fallire. Per esempio quando hanno debiti così alti che non riescono più a pagare gli interessi. Il senso delle parole della cancelliera era che il governo deve fissare un limite ai suoi debiti. Non deve sopravvalutare le sue capacità di salvare l’economia, altrimenti rischia di essere travolto dalla crisi. Le somme che gli stati devono raccogliere per proteggere il sistema finanziario dal collasso sono in costante crescita. E gli sforzi dei governi si stanno intensificando a causa delle conseguenze drammatiche della crisi sull’economia reale. Tutto è cominciato con il crollo dei mutui ipotecari statunitensi, ma nel giro di pochi mesi l’economia mondiale ha dovuto affrontare la più grave minaccia dai tempi della grande depressione degli anni trenta. I governi hanno messo a disposizione delle banche miliardi di euro sotto forma di garanzie, crediti e aiuti diretti. Questo denaro è in gran parte andato in fumo e ora, quasi dappertutto, sono previsti nuovi interventi. La parola del momento è bailout, salvataggio: significa che lo stato libera le banche dai loro debiti. Ma questo non vuol dire che i rischi spariscono, cambiano semplicemente proprietario: passano allo stato, cioè ai contribuenti. Nessuno, però, sa quanto sia alto il prezzo da pagare e se alla fine lo stato sarà davvero in grado di pagarlo. Le somme in gioco sono nell’ordine di migliaia di miliardi. Secondo l’economista statunitense Nouriel Roubini, le perdite del settore finanziario statunitense sono arrivate a 3.600 miliardi di dollari. Finora ci sono stati circa 1.000 miliardi di dollari tra perdite e svalutazioni in tutto il mondo. Ma se anche lo stato andrà in crisi, chi lo salverà? Se nessuno sarà più disposto a fargli credito, sarà costretto a fallire. La bolla del debito pubblico è l’ultima bolla concepibile. Incredibile? Fino a un anno fa la nazionalizzazione dei debiti delle banche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania sembrava impensabile, mentre oggi a molti sembra una cosa naturale. Pochi mesi fa la nazionalizzazione dei colossi dei mutui Federal national mortgage association (Fannie Mae) e Federal home loan mortgage association (Freddie Mac) avrebbe suscitato uno scandalo. <br /><br />Siamo tutti keynesiani <br /><br />Oggi il clima è cambiato, tutti invocano l’aiuto dello stato e il suo denaro. Perfino il Wall Street Journal ha intitolato di recente un articolo: “Siamo di nuovo tutti keynesiani”. E il finanziere George Soros chiede apertamente la nazionalizzazione delle banche. Già, perché nelle scorse settimane la situazione economica degli Stati Uniti è peggiorata drasticamente. Quasi ogni giorno arrivano notizie di licenziamenti e, dopo le ultime cifre poco rassicuranti, cresce la paura di altre voragini nei bilanci delle banche. Il governo guidato da Barack Obama adotterà presto una strategia chiara. “Il presidente annuncerà misure eccezionali per prendere il controllo della situazione”, assicura Kenneth Rogoff, docente di economia all’università di Harvard. Si parla di una parziale statalizzazione dei principali istituti di credito e di una bad bank pubblica, cioè una società creata appositamente per comprare tutti i titoli spazzatura invendibili. Secondo Simon Johnson, docente di economia al Massachusetts institute of technology (Mit) ed ex capo economista del Fondo monetario internazionale (Fmi), i costi della bad bank sarebbero di circa mille miliardi di dollari. Ma la rottamazione dei titoli non sarà suficiente. “Le banche dovranno essere ricapitalizzate”, sottolinea Johnson, e per farlo serviranno altri 250 miliardi di dollari. Di fronte a queste cifre, Obama ha detto chiaramente, già prima del suo insediamento, cosa succederà nei prossimi anni: “Dovremo convivere con un deficit di migliaia di miliardi”. Questo significa che i pericoli per la stabilità economica sono enormi: il deficit di bilancio degli americani ha già raggiunto i livelli della seconda guerra mondiale. Negli ultimi tre mesi del 2008 le spese degli Stati Uniti hanno superato di circa 480 miliardi di dollari le entrate. E nel 2009 si prevede un deficit di circa 1.200 miliardi di dollari, pari all’8 per cento del pil. Inoltre Obama vuole far approvare un pacchetto di misure anticrisi da circa 800 miliardi di dollari, che farebbero aumentare il deficit fino all’11 per cento del pil. A questo si aggiungono altre uscite legate alla recessione, come per esempio i costi crescenti della previdenza sociale. Obama, infatti, non vuole rinunciare ai costosi progetti di riforme del suo programma elettorale, come l’assicurazione sanitaria per tutti gli statunitensi. Già ora quasi tutte le entrate dello stato vengono fagocitate da quattro grandi voci di spesa: il welfare, la difesa, la sanità e gli interessi sul debito pubblico. Tutto il resto deve essere finanziato con nuovi debiti. Un fatto pericoloso, innanzitutto perché i compratori per i titoli di stato americani, cioè degli strumenti con cui lo stato finanzia i suoi debiti, potrebbero diminuire. Secondo gli esperti, il rischio è ancora contenuto. Anzi, la domanda di titoli del tesoro americano, considerati relativamente sicuri, è insolitamente elevata. “Tuttavia, se il prossimo tentativo di salvataggio dell’economia fallirà, la credibilità finanziaria degli Stati Uniti ne uscirà compromessa”, avverte Johnson. In ogni caso, aggiunge Rogoff, gli americani avvertiranno chiaramente gli effetti dell’indebitamento. Per anni l’inflazione resterà alta, fino al 6 per cento. “E per un lungo periodo, forse sei o sette anni, assisteremo a una crescita annua molto lenta, intorno all’1 o al 2 per cento”. Nel prossimo futuro, inoltre, Obama non potrà fare a meno di alzare le tasse per sostenere il bilancio pubblico. Leonard Burman, capo del Centro indipendente di politica iscale, avverte: “Spendere mille miliardi per impedire il crollo economico mondiale è un investimento giusto. Ma se non stiamo attenti alle conseguenze a lungo termine, ci troveremo di fronte a una crisi economica molto peggiore di quella attuale”. Gli Stati Uniti non sono i soli ad avere problemi. <br />La Gran Bretagna è sull’orlo del baratro: gli immobili sono sopravvalutati, le famiglie sono indebitate pesantemente, il settore finanziario non riesce a riprendersi. La fiducia nelle capacità del paese di uscire dalla crisi diminuisce sempre di più, come si vede dalla drammatica svalutazione della sterlina: oggi la moneta britannica vale circa 1 euro, mentre pochi mesi fa era ancora a 1,4. “Non investirò più in Gran Bretagna”, dichiara il finanziere Jim Rogers, mentre l’economista Willem Buiter, ex consulente della Banca d’Inghilterra, mette in guardia dal “rischio che il paese faccia la fine dell’Islanda”. L’Italia ha il terzo debito pubblico al mondo, pari al 106 per cento del pil nazionale. Finora questo fatto non costituiva un grave problema, dato che il paese ha sempre avuto una quota consistente di risparmio. Bastava far arrivare i risparmi nelle tasche dello stato: a questo servono i Buoni del tesoro (Btp), che oggi, secondo il ministro dell’economia Giulio Tremonti, rappresentano “l’investimento in assoluto più solido e sicuro”. Ma negli ultimi tempi non tutti sono d’accordo, e meno che mai gli italiani. Così l’emissione di titoli di metà gennaio ha trovato compratori solo dopo che il tasso d’interesse è stato alzato in modo consistente. E quest’anno scadranno titoli di stato a breve termine per un valore di 220 miliardi di euro. A dicembre il ministro del lavoro Maurizio Sacconi ha messo in guardia dal pericolo di una completa bancarotta dello stato se i Btp restassero invenduti: “Ci potrebbero essere problemi nel pagamento degli stipendi e delle pensioni, e finiremmo come l’Argentina”. Bilanci in deficit. La Gran Bretagna come l’Islanda, l’Italia come l’Argentina. Non c’è da stupirsi che i cittadini si preoccupino. Mai prima d’ora, dai tempi della grande depressione, era stato adombrato il pericolo del fallimento di uno stato in Europa. I bilanci della maggior parte dei paesi dell’Unione europea non sono in buone condizioni. Gli esperti finanziari della Commissione europea stimano che il deficit pubblico nei sedici stati della zona euro raggiungerà il 4 per cento del pil quest’anno e salirà al 4,4 per cento l’anno prossimo. Secondo gli accordi di Maastricht, nell’Ue la soglia massima consentita sarebbe il 3 per cento, ma 17 stati membri la supereranno già nel 2010. Tra questi ci sono tutti i grandi paesi – la Germania (4,2 per cento), la Francia (5 per cento), la Spagna (5,7 per cento) e la Gran Bretagna (9,6 per cento) – e alcuni stati più piccoli come l’Irlanda, che prevede di arrivare al 13 per cento. Sono previsioni ancora sulla carta. “Ma prima o poi,” avverte il ministro delle finanze austriaco Josef Pröll, “arriverà il momento di pagare il conto”. Con i suoi colleghi dell’Ue, Pröll ha lanciato un appello per un cambiamento di rotta. “Agli stimoli fiscali”, spiega, “deve seguire al più presto il risanamento dei bilanci”. Ma nessuno sa ancora come farlo. Alla commissione economia del parlamento europeo, il commissario dell’Ue per gli affari economici e monetari, Joaquín Almunia, è stato sommerso di domande su questo argomento. Almunia ha annunciato che raccomanderà ad almeno sei paesi di ridurre il loro deficit di bilancio, ma non ha spiegato come dovranno farlo. Alcuni stati non prendono neanche in considerazione l’idea di sanare i loro conti. Al contrario, si sforzano di immettere la massima quantità di denaro nell’economia. E con il tempo diventerà sempre più difficile riequilibrare i bilanci. “Sui mercati finanziari i paesi piccoli sono schiacciati da quelli più grandi, che assorbono sempre più miliardi con le loro emissioni di titoli di stato”, hanno rinfacciato ad Almunia i deputati del parlamento europeo. “È vero”, ha risposto il commissario, ma non si può certo “abolire il libero mercato dei capitali”. Per risolvere il problema, Jean-Claude Juncker, capo del governo e ministro delle finanze lussemburghese, ha proposto che i sedici paesi della zona euro emettano titoli di credito comuni, gli Eurobond. L’idea ha raccolto consensi tra i piccoli, ma ha incassato un netto rifiuto dai grandi, in particolare da Berlino. Finora il ministro delle finanze tedesco Peer Steinbrück è riuscito a ottenere denaro in prestito a condizioni particolarmente vantaggiose, perché la Germania è considerata un debitore molto afidabile. Ma se dovesse riempire le sue casse con gli Eurobond, Berlino dovrebbe pagare tre miliardi di euro in più già quest’anno. Anche Pröll è poco convinto: secondo lui, gli Eurobond sono come dare “il permesso di contrarre debiti a spese degli altri”. Alcuni paesi dell’Unione continuano a indebitarsi da anni senza preoccuparsi delle conseguenze, ma con la crisi attuale non fanno che peggiorare i loro problemi. Devono pagare interessi più alti sui titoli, perché la loro credibilità di debitori è sempre più bassa. I più colpiti sono la Spagna, l’Italia, l’Irlanda e soprattutto la Grecia. Chi deve prendere denaro in prestito così a caro prezzo scivola presto in un diabolico circolo vizioso di tassi sempre più alti, che a loro volta comportano nuovi debiti. A quel punto le agenzie di rating abbassano il giudizio sull’afidabilità del paese e i tassi salgono ancora. In passato paesi come l’Italia, la Grecia e la Spagna avevano risolto il problema svalutando le loro monete: in questo modo diminuiva il peso degli interessi sul debito pubblico e si assicuravano migliori prospettive alle esportazioni. Oggi con la moneta unica non possono più farlo. Questi vecchi rimedi sono tabù, a meno di non voler uscire dalla zona euro. La possibile disintegrazione di Eurolandia è un tema molto discusso sui mercati finanziari. Ma la possibilità che i paesi troppo indebitati escano spontaneamente dalla moneta unica non è contemplata dagli accordi comunitari. E del resto è poco verosimile, perché aggraverebbe i problemi: la loro credibilità sarebbe ancora più bassa, i crediti diventerebbero ancora più cari e i vecchi debiti dovrebbero essere saldati comunque in euro. E con una moneta svalutata i costi salirebbero ulteriormente. Il commissario europeo per le imprese e l’industria Günter Verheugen ritiene che la prospettiva dell’abbandono della moneta unica faccia parte di una campagna “contro l’euro lanciata dagli speculatori anglosassoni”. Ma in realtà cosa succede quando fallisce uno stato della zona euro? Prendiamo per esempio la Grecia, che nei prossimi due anni ha bisogno di 48 miliardi per saldare i vecchi debiti e che nel frattempo deve tappare dei nuovi buchi nel suo bilancio. Se la Grecia si dichiarasse insolvente, eviterebbe conseguenze peggiori per il momento grazie all’appartenenza alla zona euro. La moneta unica si svaluterebbe un po’, ma dal momento che l’economia greca non ha una grande rilevanza in Europa, le ripercussioni sarebbero contenute. Anche le conseguenze per la Grecia resterebbero limitate: grazie all’euro, che comunque è una valuta forte, non ci sarebbe nessuna crisi del mercato al dettaglio né accaparramenti delle merci né la nascita di un mercato nero. Quindi non ci sarebbe nessuna ripercussione nell’economia reale né un aumento della disoccupazione. La vita di uno stato insolvente difeso dall’Ue è relativamente facile. Ma è molto più importante capire come reagirebbe Bruxelles. Potrebbe dichiarare la Grecia un caso straordinario e sostenerla con un prestito ponte, ma le conseguenze sarebbero fatali: per quale motivo, infatti, i paesi più deboli dovrebbero preoccuparsi in futuro di saldare i loro debiti, sapendo che c’è sempre qualcuno pronto a dargli una mano? L’Ue, al contrario, potrebbe assumere una posizione più rigida. Questo sarebbe giusto nei confronti degli stati membri che hanno tenuto in ordine i loro bilanci, ma non sarebbe sostenibile in termini politici. Gli investitori, infatti, comincerebbero a evitare tutti gli stati su cui grava anche il più piccolo sospetto di scarsa solvibilità. A quel punto il rischio paese aumenterebbe e il virus greco comincerebbe a estendersi ad altri paesi, che rischierebbero di fallire. Questo caso, del tutto teorico, preparerebbe effettivamente la fine dell’euro: la moneta unica può reggere la bancarotta di un paese, ma non una serie di fallimenti. Rating vacillanti Gli euroscettici avevano avvertito fin dall’inizio che un giorno la moneta unica avrebbe potuto frantumarsi a causa delle tensioni all’interno della zona euro. Ora vedono confermati i loro timori, anche se per ora scenari simili sono solo ipotetici. La Germania, per esempio, non ha grossi problemi di inanziamento. Ma di fronte alle voragini miliardarie che si aprono ogni giorno, anche gli acquirenti dei suoi titoli di stato cominciano a preoccuparsi. Molti investitori si chiedono già oggi come si presenti il futuro per gli stati con un rating AAA, il giudizio di massima afidabilità. L’équipe di Alexander Kockerbeck, analista dell’agenzia di rating statunitense Moody’s, ha sottoposto l’economia tedesca a una simulazione: ha raccolto i dati relativi agli scenari più pessimisti, e per gli anni 2010 e 2011 ha previsto un crollo dell’economia tedesca pari al 3 per cento all’anno. Nei suoi modelli il debito pubblico è salito dal 70 all’80 per cento del pil. “In questo caso per far pagare gli interessi legati al debito pubblico bisognerebbe usare circa il 7 per cento del gettito fiscale”, spiega Kockerbeck, che ritiene questa quota ancora sostenibile per Berlino. Se gli interessi arrivassero al 10 per cento delle entrate fiscali, invece, la valutazione AAA comincerebbe a vacillare, facendo esplodere i costi dello stato. Normalmente, in una situazione di rating elevato e di congiuntura favorevole, i governi contraggono debiti con una procedura piuttosto semplice. In Germania, per esempio, lo stato emette titoli a rendimento fisso con scadenze che possono variare da un giorno a trent’anni. Altri paesi, come la Francia e la Gran Bretagna, emettono addirittura obbligazioni cinquantennali. La collocazione dei titoli di stato avviene per lo più grazie a delle aste, dette tender, nel corso delle quali i compratori fanno le loro offerte. Quanto più alto è il numero di acquirenti, tanto più vantaggiosa è l’emissione per lo stato e tanto più basso è il tasso d’interesse. L’abbattimento del debito pubblico, invece, è una questione molto più complessa. In teoria lo stato dovrebbe rimborsare i prestiti alle scadenze fissate. Ma succede molto raramente: di regola i governi non estinguono i debiti, ma li rinnovano. Anzi, ogni anno contraggono nuovi prestiti, e così fanno aumentare gli interessi. Già oggi la Germania spende 43 miliardi di euro all’anno di interessi sul debito pubblico. è la seconda voce di spesa nel suo bilancio. L’unico settore in cui Berlino spende di più è la previdenza sociale. Ma se i tassi d’interesse arrivassero ai livelli elevati raggiunti nel 1995, già oggi la Germania sarebbe costretta a spendere 20 miliardi di euro in più all’anno. Senza contare gli altri debiti che potrebbe contrarre in futuro a causa della crisi economica. Nessuno sa fino a che punto aumenterà l’indebitamento né come farà lo stato a liberarsene prima che il pagamento degli interessi lo strangoli. Il metodo più difficile per rimborsare i prestiti è risparmiare, quello più facile è usare l’inflazione, cioè stampare denaro fresco con cui pagare i debitori. L’inconveniente dell’inflazione è che quando la banca centrale immette nuove banconote nel sistema economico, la moneta si svaluta. Poco male, visto che l’obiettivo principale dello stato è sbarazzarsi dei suoi debiti. Qualunque sia il metodo attuato, il conto lo pagano i contribuenti. Nei periodi di crisi l’abbattimento del debito pubblico attraverso il rimborso dei titoli è possibile solo se il governo alza le tasse o taglia la spesa pubblica. La svalutazione della moneta causata dall’inflazione, invece, è compensata dai prezzi crescenti. Finora il processo ha funzionato in modo piuttosto nascosto. Dalla fine degli anni novanta la quantità di denaro in circolazione è triplicata sia negli Stati Uniti sia in Europa. E con l’attuale diluvio di liquidità le banche centrali vogliono impedire il crollo del sistema finanziario e dell’economia reale, ma stanno spianando la strada alla prossima crisi. Il costo del denaro è molto contenuto: la Federal reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, ha abbassato il tasso di sconto praticamente a zero, mentre la Banca centrale europea si è fermata al 2 per cento, anche se sono molto probabili altre riduzioni. Se le misure di salvataggio funzionano e l’economia si riprende, le autorità monetarie aumenteranno di nuovo i tassi facendo rientrare il pericolo dell’inflazione. Se invece la crisi continua e le banche centrali immettono altra liquidità nel sistema, potrebbe subentrare una fase di inflazione galoppante, che aprirebbe le porte alla bancarotta dei paesi troppo indebitati. Fenomeno universale In uno studio realizzato per l’Fmi, gli economisti statunitensi Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff hanno analizzato le crisi finanziarie degli ultimi otto secoli, arrivando alla conclusione che la bancarotta dello stato “è un fenomeno praticamente universale”. <br />Molti paesi ne hanno affrontata perfino più di una. La Francia, per esempio, si è trovata in condizioni di insolvenza otto volte tra il 1500 e il 1800. La Spagna è fallita sette volte nell’Ottocento. Situazioni di questo tipo si sono verificate in tutte le epoche e in ogni parte del mondo. Quindi sarebbe sbagliato credere che la bancarotta dello stato sia “una particolarità della finanza moderna”. Nella maggior parte dei casi il tracollo finanziario è stato causato dall’enorme fabbisogno di capitale provocato dalle guerre. Ma i governi sono sempre riusciti a evitare la rovina totale. Hanno dimostrato una straordinaria inventiva nel trovare il modo per liberarsi dei loro obblighi a spese delle banche, delle imprese e soprattutto dei cittadini. La soluzione più semplice è rifiutarsi di pagare i debiti. Andò così nel 1557, quando il re di Spagna, Filippo II, non fu più in grado di restituire i prestiti ottenuti per finanziare le sue campagne militari contro i Paesi Bassi e l’impero ottomano. Le grandi banche tedesche dei Fugger e dei Welser subirono un tracollo da cui non riuscirono più a riprendersi. Ma la crisi delle finanze statali diventò ancora più facile da risolvere quando si diffuse la cartamoneta. A quel punto bastava solo disporre di una macchina da stampa. I francesi cominciarono a usare questo metodo nel settecento per ridurre gli enormi debiti lasciati dal re Sole, Luigi XIV. E da allora i governi hanno sempre avuto questa tentazione. Nel 1914 il Reich tedesco decise di abbandonare il sistema aureo, in base al quale chiunque poteva scambiare le proprie banconote con la quantità di oro che rappresentavano. Così il denaro in circolazione balzò rapidamente da 13 a 60 miliardi di marchi, mentre l’offerta di merci diminuì di un terzo. Di conseguenza, i prezzi salirono alle stelle. Questi sviluppi culminarono nel 1933 in un periodo di iperinflazione: all’epoca per comprare un dollaro bisognava sborsare 4,2 miliardi di marchi. Le banconote tedesche venivano stampate in più di 130 tipograie private. Solo una radicale riforma valutaria avrebbe potuto frenare la svalutazione del denaro. Da allora la paura dell’iperinflazione e della perdita dei risparmi è profondamente radicata nella memoria collettiva, soprattutto in quella dei tedeschi. <br /><br />Ora è il momento di avere di nuovo paura? <br /><br />In confronto a molti altri paesi, la Germania se la cava abbastanza bene: ha un’economia relativamente solida, non dipende fortemente dal settore finanziario, come la Gran Bretagna, né è costretta a fare troppo affidamento sugli investitori stranieri, come succede agli Stati Uniti. L’Islanda, invece, è praticamente sul lastrico e nell’Europa orientale ci sono molti paesi, come la Lettonia, che devono chiedere aiuto all’Fmi e alla Banca dell’Europa orientale. Nella zona euro alcuni stati dovrebbero sicuramente lottare per la loro sopravvivenza se non fossero protetti della moneta unica. Gli Stati Uniti, infine, puntano sul fatto che, nonostante i loro enormi problemi, sono ancora considerati sicuri e che il dollaro resiste grazie all’enorme quantità di capitale investito dai cinesi nei titoli di stato di Washington. Tutto bene, allora? Chi crede che gli stati abbiano imparato dagli errori del passato si illude, avvertono Reinhart e Rogoff. In realtà, potrebbe succedere ancora che un paese fallisca. In qualsiasi momento. Una cosa comunque è chiara: in questa crisi non c’è più niente di impensabile. <br /><br />“Internazionale”, n. 782delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-67975459078704599002009-02-19T20:32:00.002+01:002009-02-19T20:36:48.534+01:00FALLIMENTO STRATEGICOLuigi Cavallaro e Riccardo Realfonzo - 18 Febbraio 2009<br /><br />Le dimissioni di Walter Veltroni da segretario del Partito democratico hanno un significato eminentemente politico, ma segnano anche un punto di svolta nella contesa tra paradigmi alternativi di politica economica. Esse ratificano infatti un percorso fallimentare che sarebbe ingeneroso attribuire alla sola volontà del segretario dimissionario, ma che questi ha comunque perseguito con tenacia: la rescissione di ogni legame fra gli eredi del Partito comunista italiano e quella tradizione, che potremmo definire “solidaristico-keynesiana”, che aveva ispirato la redazione delle norme fondamentali della nostra “costituzione economica”.<br /><br />Quali esse siano è ben noto. L’art. 41 Cost., che – dopo aver affermato che l’iniziativa economica è libera – stabilisce che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da ledere la sicurezza, la libertà e la dignità umana e demanda alla legge il compito di definire i “piani e programmi” opportuni perché l’iniziativa pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. L’art. 42, che enuncia il diritto di proprietà solo per attribuirgli una funzione sociale e disciplinarla in modo da renderla accessibile a tutti. L’art. 43, che riserva alla proprietà pubblica (ed eventualmente a “comunità di lavoratori”) la produzione e distribuzione di servizi pubblici essenziali o di beni in regime di monopolio naturale o che abbiano preminente interesse generale. L’art. 44, che disciplina la proprietà terriera prevedendo obblighi e vincoli che assicurino equi rapporti sociali.<br /><br />Ma si debbono aggiungere (e approssimando comunque per difetto) l’art. 36, che assicura al lavoratore una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente a garantire a lui e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa; l’art. 37, che garantisce piena equiparazione fra uomo e donna anche sul lavoro (non senza precisare che il raggiungimento dell’eguaglianza richiede una legislazione di favore per le donne); l’art. 38, che garantisce che siano provveduti i mezzi a chi si trova nell’impossibilità di lavorare per infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria; e certamente l’art. 39, che istituisce il contratto collettivo nazionale come forma principe per la determinazione della “giusta retribuzione”.<br /><br />Ebbene, ripercorrendo a ritroso le scelte di politica economica sostenute dalla maggioranza di coloro che del Partito democratico sono stati ispiratori (ossia i superstiti dell’ala cattolico-sociale della Democrazia cristiana e i liquidatori del Partito comunista italiano) è agevole verificare come siano state tutte di segno opposto rispetto al quadro delineato dalla nostra Costituzione. L’adesione acritica – talora perfino ridicola – a tutti i dettami dell’ortodossia economica di ispirazione neoclassica e di segno politico monetarista ha fatto sì che, durante le loro esperienze di governo (incluse quelle immediatamente successive al terremoto politico del 1992), essi hanno provveduto a privatizzare il patrimonio industriale, bancario e produttivo pubblico, depotenziare fino a svilirlo il contratto nazionale di lavoro, comprimere l’area di applicazione della legislazione a tutela del lavoro, abbattere la garanzia pubblica per le pensioni, liberalizzare i prezzi dei mercati immobiliare e mobiliare, imbrigliare entro rigidi paletti quantitativi e “federalisti” le leve collettive della politica fiscale e di bilancio e ridurre consequenzialmente il lavoro pubblico ad un’area di nullafacenti (poco) privilegiati – quasi mai per cattiveria loro, beninteso, ma spesso semplicemente per mancanza di mezzi con cui lavorare. E dall’opposizione, essi hanno contestato i governi in carica solo perché (ed in quanto) non facevano altrettanto.<br /><br />I risultati di questo lavoro ultradecennale, certificati dalla perdita secca dei salari sul piano distributivo e dal correlativo innalzamento delle quote appropriate dalla rendita (specie finanziaria e immobiliare) e dai profitti, hanno progressivamente eroso il bacino di consenso dell’Ulivo, poi dell’Unione e ora del Partito democratico, fino a ridurlo all’attuale lumicino. Mentre il “bisogno di comunità” indotto dalla feroce dinamica che un mercato concorrenziale assume in una periferia capitalistica, quale indubbiamente è il nostro Paese, ha aperto spazi prima inimmaginabili al voto a destra: un voto pesantemente segnato da Dio, Patria e Famiglia, ma che ai lavoratori, sommersi e non, appare ormai senz’altro preferibile rispetto allo stolido inno alle magnifiche sorti e progressive del capitalismo concorrenziale, al quale credono ormai soltanto gli ultimi giapponesi de lavoce.info.<br /><br />E’ comprensibile che dal Popolo delle Libertà si levi commosso l’onore delle armi per il segretario dimissionario: nessuno come il capo dell’attuale classe dirigente del Partito democratico ha fatto così tanto per assicurare all’avversario una vittoria così durevole. Altra questione è se quel partito potrà risollevarsi dopo una bancarotta materiale e ideale così pesante: si tratta al momento di una scommessa così aleatoria che si farebbe fatica a trovare un buon credit default swap.<br /><br />da: www.economiaepolitica.itdelinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-60304929907199164142009-02-05T18:51:00.000+01:002009-02-05T18:52:11.695+01:00Nuovo tribalismogiovedì, 05 febbraio 2009 <br />Il Nuovo Tribalismo <br />Cosa lega la crisi economica che si e’ abbattuta sul villaggio globale e le manifestazioni xenofobiche degli ultimi giorni? <br /><br />Un filo diretto e invisibile accomuna il gesto incomprensibile di tre ragazzi che per provare una forte emozione danno fuoco ad un barbone nella stazione di Nettuno e gli scioperi selvaggi che imperversano in Inghilterra contro i lavoratori stranieri; e questo legame, paradossalmente, lo ritroviamo anche nelle stanze del potere della nuova amministrazione americana, che propone un programma di salvataggio economico condizionato all’acquisto di prodotti ‘esclusivamente’ americani. <br />Ben tornati nella tribu’! <br />Poiche’ questo e’ lo slogan con il quale si apre il recessivo 2009.<br /><br />Di fronte ai primi veri problemi economici la globalizzazione si sgretola. Tendenze protezioniste minano il WTO, gli accordi faticosamente stipulati dall’organizzazione mondiale del commercio sembrano ormai carta straccia, anche i fondamenti dell’Unione Europea sono messi a durissima prova dagli scioperi in Gran Bretagna. A Davos, tempio sacro della globalizzazione, Russia e Cina apertamente accusano l’America di non saper ‘guidare il mondo’ ed a Washington le fronde protezioniste fanno stragi di liberal al congresso. <br />Alla base di queste reazioni, che soltanto sei mesi fa’ sarebbero state reputate assurde, c’e’ la paura. <br /><br />La paura della disoccupazione spinge un sindacato laburista a schierarsi con la destra nazionalista e antieuropea britannica e la paura che l’America precipiti nella seconda Grande depressione convince il primo presidente afro-americano a proporre riforme protezioniste. E infine la paura, non la noia o la droga, motiva i giovani italiani a commettere un crimine da Arancia Meccanica.<br />Il mondo globalizzato e’ un pianeta che spaventa, popolato da gente terrorizzata dal diverso e dalla diversita’. Ce ne stiamo accorgendo solo adesso che la recessione ci accomuna nella disgrazia, ma da vent’anni chi vive ai margini del villaggio globale - dove il processo di omogeneizzazione non ha portato pace e prosperita’ ma il proliferarsi delle guerre o il dilagare della poverta’ - convive con questa paura. Molti, specialmente i giovani, si sono protetti ricreando la struttura tribalista dei branchi.<br /><br />Dalle Maras centro americane alle gangs britanniche, dalle bande di adolescenti Nigeriane fino alle cellule jihadiste, il branco e’ la risposta ai timori ed alla minaccia della globalizzazione. E la matrice comune del nuovo tribalismo e’, naturalmente, la violenza. Le bande oggi come ieri combattono la paura con la violenza, e la violenza è ormai diventata uno stile di vita. In un documentario britannico, Gang Wars (guerre tra bande), il leader di una banda londinese, Taba, sostiene che la violenza «durerà per sempre, perché è la gente a essere violenta». <br /><br />La violenza simboleggia anche l’onore e l’orgoglio, l’identita’ del singolo e il metro per decidere l’appartenenza o il rifiuto di entrare in una banda. Per essere ammessi nelle moderne tribù è necessario superare un duro rito di passaggio. Gli aspiranti mareros si sottopongono a una complessa e dolorosa prova, che ricorda quelle imposte dalle sette sataniche medievali. Devono uccidere un membro di una banda rivale o assistere a un’esecuzione. <br />“La prima volta che ho visto una decapitazione avevo dieci anni. Per un mese intero sognai il morto che veniva verso di me con la testa tra le mani. Poi, con il tempo, ci si abitua agli omicidi e quando capita che un tuo amico uccida uno di un’altra banda sei contento, anzi lo tormenti pure mentre sta morendo. Ti diverti.” Racconta Necio un ventenne membro di Mara Salvatrucia, una banda di El Salvador. La violenza e’ dunque anche sinonimo di divertimento, ed il comportamento dei tre delinquenti italiani ne e’ la riprova. <br /><br />La pura del diverso serpeggia da anni anche nel villaggio globale, la ritroviamo nel lessico della guerra contro il terrorismo. La politica della paura del presidente Bush ce lo ripropone, anzi lo catapulta nell’arena politica internazionale. Pensate al suo famoso discorso all’indomani dell’11 settembre. Bush divide il mondo in due gruppi: «chi è con noi e chi è contro di noi». Una frase che secondo il Guardian e’ "la più cruda espressione della politica tribale mai concepita". Come possiamo definire LORO e NOI se, ad esempio, gli attentatori suicidi di Londra erano cittadini britannici? La nazionalità, il vecchio nazionalismo quindi, non è più l’unica causa determinante né una categoria valida. Il tribalismo sembra adattarsi meglio al nuovo scenario. <br /><br />Anche senza volerlo noi finiamo per assimilare il lessico tribale e quando ci sentiamo minacciati, a reagire sono i nostri istinti tribali Cosi chi sciopera in Scozia contro i lavoratori italiani e portoghesi dichiara apertamente che sciopererebbe anche se questi fossero inglesi o gallesi, lo sciopero mira infatti a proteggere la forza lavoro locale. E la solidarieta’ manifestata da altri lavoratori nel territorio di sua maesta’ ha gli stessi obbiettivi: proteggere il proprio orticello. Il pericolo e’ quindi che anche il tessuto nazionale delle organizzazioni sindacali, gia’ seriamente indebolito dal governo Thatcher, si sgretoli completamente.<br /><br />Sono scenari questi agghiaccianti, che ci devono far riflettere sull’involuzione in atto in un pianeta in preda alla recessione. Poco meno di un secolo fa’, il crollo di Wall Street fece precipitare il mondo nella Grande depressione, preludio della follia nazista che sfocio’ nella seconda guerra mondiale. Anche allora a guidare l’ascesa del nazismo sulle ceneri della repubblica di Weimar fu la paura del diverso, uomini donne e bambini con in petto una stella di Davide gialla. Anche a casa nostra c’erano i diversi, appartenevano al movimento operaio perseguitato dalle camicie nere. La simbologia cambia ma la sostanza resta: la paura e’ un grandissimo strumento di manipolazione collettiva, e quindi e’ solo questo che dobbiamo temere perche’ domani i diversi potremmo essere proprio noi.<br /><br />Loretta Napoleoni<br /> <br />da: http://lanapoleoni.splinder.com/post/19768075/Il+Nuovo+Tribalismodelinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-53528006086296264952009-01-22T14:48:00.002+01:002009-01-22T14:50:32.982+01:00FIDEL, CRISTINA E BARAKFidel, Cristina e Barack, che il pugno degli Stati Uniti diventi una mano tesa verso l’America latina<br /><br />di Gennaro Carotenuto, giovedì 22 gennaio 2009<br /><br /> Che il presidente della Repubblica argentina, Cristina Fernández de Kirchner, scelga di andarsene a Cuba il giorno dell’insediamento del Presidente degli Stati Uniti e incontri l’influente pensionato Fidel Castro, che da settimane la solita grande stampa dava in coma o già morto, e lo trovi in ottime condizioni, è di per sé una notizia. <br /><br />Ma il rilievo politico non sta tutto nell’incontro, nel peso politico della visita ufficiale del primo presidente argentino dopo Raúl Alfonsín 23 anni fa, sta nel segnale lanciato da Argentina e Cuba all’uomo appena insediatosi alla Casa Bianca. Per Fidel è “un uomo sincero” e “con buone idee”.<br /><br /><br />Barack Obama è il decimo presidente degli Stati Uniti da quando Cuba ha smesso di esserne una colonia di fatto ed è il quinto da quando con la caduta del muro di Berlino l’isola grande non è più un satellite dell’Unione Sovietica per essere un piccolo ma rilevante attore autonomo della politica internazionale. Un dato di fatto che potrebbe indurre Obama e il suo segretario di Stato, Hillary Clinton, a riconsiderare mezzo secolo di errori e di crimini iniziati con l’invasione della Baia dei Porci voluta da John Kennedy. <br /><br />Buenos Aires è geograficamente molto più lontana dall’Avana di quanto non lo sia Washington eppure quella visita ufficiale e quell’incontro proprio mentre in riva al Potomac due milioni di persone si accalcavano a festeggiare Obama ha un significato preciso. Dal mar dei Caraibi fino alla Terra del Fuoco esiste un solo spazio latinoamericano, esiste un concerto latinoamericano che oramai è tornato ad includere pienamente Cuba, dopo decenni di isolamento preteso dalla superpotenza e Obama e Clinton da questo dato ineludibile debbono partire per disegnare la loro politica cubana e latinoamericana.<br /><br />Argentina e Brasile, i due grandi paesi del Sud, sono in prima fila nel riconoscere a Cuba di aver tenuto alta la bandiera dell’integrazione latinoamericana in tutti questi 50 anni anche quando le due lunghe notti, quella delle dittature e quella neoliberale, rendevano ogni paese del continente una monade completamente isolata dalla regione (salvo che per il Piano Condor, il sistema di sterminio voluto dal Nord) in un sistema economico pienamente coloniale così come tracciato dalla teoria del sottosviluppo.<br /><br />L’Argentina e il Brasile sono state in prima fila non solo nel dare impulso al pieno reinserimento di Cuba nella comunità internazionale, ma nel costruire una relazione forte con il Venezuela Bolivariano, nel rompere insieme le relazioni con il Fondo Monetario Internazionale, nel difendere la Bolivia dal golpismo finanziato dal Nord, nel dare impulso a tutte le istituzioni integrazioniste, dal Mercosur a Unasur, al Gruppo di Río, al Banco del Sud e nel rifiuto dell’ALCA, il trattato di libero commercio coloniale che gli Stati Uniti volevano imporre al continente. <br /><br />Oggi l’America latina si profila come un attore capace di parlare come tale forse più di altri ben più consolidati, come la Unione Europea. Parlando alla Scuola latinoamericana di Medicina, la gloriosa istituzione cubana che in questi anni ha laureato decine di migliaia di medici latinoamericani provenienti dalle classi popolari e che solo a Cuba hanno potuto studiare gratuitamente per poi tornare nei loro paesi a mettersi a disposizione della loro gente, Cristina ha detto: “Presto o tardi i popoli trionfano. E questo è quello che sta succedendo nella Nostra America latina”.<br /><br />Rivolgendosi ai paesi considerati ostili, quelli islamici in primo luogo, Obama ha usato uno dei passaggi più evocativi del suo discorso: “se sarete disposti a sciogliere il pugno vi tenderemo la mano”. Ebbene Fidel e Cristina insieme hanno ribaltato il discorso di Obama: “Gli Stati Uniti hanno sempre mostrato il pugno contro di noi senza mai riuscire a vincerci. Oggi il concerto latinoamericano, se gli Stati Uniti accetteranno di riconoscerlo in quanto tale e sapranno sciogliere il pugno, è disposto a tendere la mano”. <br /><br />da: http://www.gennarocarotenuto.it/5646-fidel-cristina-e-barack-che-il-pugno-degli-stati-uniti-diventi-una-mano-tesa-verso-lamerica-latina/delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-56811494906160877382009-01-16T16:04:00.002+01:002009-01-17T07:14:35.776+01:00IL RITORNO DI MARXREGOLARE LA FINANZA O SUPERARE IL CAPITALISMO? <br /><strong>Marx, il gran ritorno </strong><br /><br />Trascurati dai partiti socialisti europei in quanto «vecchie teorie semplicistiche» che sarebbe bene abbandonare, detronizzati nelle università dove furono a lungo insegnati come base dell'analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano di nuovo grande interesse. Del resto, è stato proprio il filosofo tedesco ad analizzare a fondo la meccanica del capitalismo, i cui soprassalti disorientano gli esperti. Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx ha cercato di mettere a nudo i rapporti sociali. <br /><br />di LUCIEN SÈVE * <br />Erano quasi riusciti a farcelo credere: la storia era finita, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell'organizzazione sociale; la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, si era ormai compiuta, solo alcuni incurabili sognatori agitavano ancora lo spettro di non si sa quale diverso futuro. Lo spettacolare terremoto finanziario dell'ottobre 2008 ha spazzato via di colpo questo castello di carte. A Londra, il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 resterà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalistico britannico ha riconosciuto il suo fallimento (1).» A New York, davanti a Wall Street, i manifestanti brandiscono cartelli con la scritta: «Marx aveva ragione!». A Francoforte, un editore annuncia che la vendita del Capitale è triplicata. A Parigi, una nota rivista, in un dossier di trenta pagine, analizza, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «i motivi di una rinascita» (2). La storia si riapre...<br />Ad immergersi in Marx, più di uno fa delle scoperte. Righe scritte un secolo e mezzo fa sembrano parlarci con sorprendente attualità.<br />Esempio: «Poiché l'aristocrazia finanziaria dettava le leggi, controllava la gestione dello stato, disponeva di tutti i poteri pubblici costituiti, dominava l'opinione pubblica nei fatti e con la stampa, si riproducevano in tutti gli ambienti, dalla corte fino al caffè più malfamato, la stessa prostituzione, lo stesso inganno spudorato, la stessa sete di arricchirsi non certo con la produzione, ma con la sottrazione della ricchezza altrui (3)...» Marx parla della situazione in Francia alla vigilia della rivoluzione del 1848... Di che far riflettere.<br />Ma al di là delle sorprendenti somiglianze, la diversa epoca rende gratuita qualsiasi trasposizione diretta. L'attualità, ancora una volta evidente, di quella magistrale Critica dell'economia politica che è il Capitale di Marx, si situa ben più in profondità.<br />Infatti, a cosa è dovuta l'ampiezza della presente crisi? A leggere quel che quasi tutti sostengono, responsabili sarebbero la volatilità di prodotti finanziari sofisticati, l'incapacità del mercato dei capitali di auto-regolarsi, la scarsa moralità di chi gestisce i soldi... In pratica, si tratterebbe unicamente di errori interni al sistema il quale gestisce, oltre all'«economia reale», quella che viene definita l'«economia virtuale» - come se non si fosse appena constatato quanto anche quest'ultima sia reale. Eppure, la crisi iniziale dei subprime è nata proprio dalla crescente mancanza di denaro di milioni di famiglie americane, a fronte dell'indebitamento dovuto all'essersi candidate a proprietarie. Il che obbliga ad ammettere che, in fin dei conti, il dramma del «virtuale» ha le sue radici nel «reale». E il «reale», nel caso specifico, è l'insieme globalizzato del potere d'acquisto popolare. Dietro lo scoppio della bolla speculativa creata dal dilatarsi della finanza, c'è l'universale accaparramento, da parte del capitale, della ricchezza creata dal lavoro, e dietro questa distorsione, per cui la parte spettante ai salari è diminuita di più di dieci punti, un calo colossale, c'è un quarto di secolo di austerità per i lavoratori in nome del dogma neoliberista. Le trombe della moralizzazione Carenza di regolazione finanziaria, di responsabilità gestionale, di moralità borsistica? Certo. Ma se si riflette senza tabù, si deve guardare ben oltre: occorre mettere in discussione il dogma gelosamente protetto, di un sistema di per sé al di sopra di ogni sospetto, e poi meditare su quella ragione ultima delle cose che Marx chiama «legge generale dell'accumulazione capitalistica». Egli dimostra che, là dove le condizioni sociali della produzione sono proprietà privata della classe capitalista, «tutti i mezzi atti a sviluppare la produzione si mutano in mezzi di dominazione e sfruttamento del produttore», sacrificato all'accaparramento di ricchezza da parte dei possidenti, accumulazione che si nutre di se stessa e tende dunque a diventare folle. «L'accumulazione di ricchezza in un polo» crea necessariamente per converso un'«accumulazione proporzionale di miseria» all'altro polo, e da qui rinascono inesorabilmente le premesse di violente crisi commerciali e bancarie (4). È proprio di noi che si parla in questo caso.<br />La crisi è scoppiata nella sfera del credito, ma la sua forza devastante si è formata in quella della produzione, con la spartizione sempre più squilibrata del valore aggiunto tra lavoro e capitale, un maremoto che un sindacalismo di bassa lega non ha potuto impedire e che è stato accompagnato da una sinistra socialdemocratica che tratta Marx come un cane rognoso. Non è allora difficile immaginare che valore possano avere le soluzioni alla crisi - «moralizzazione» del capitale, «regolazione» della finanza - proclamate da politici, gestori, ideologi, che ancora ieri fustigavano il semplice sospetto di un atteggiamento non «tutto liberista».<br />«Moralizzazione» del capitale? È una parola d'ordine che merita un premio all'umorismo nero. Se c'è infatti un ordine di considerazioni che volatilizza qualsiasi regime di sacrosanta libera concorrenza, è proprio la considerazione morale: l'efficienza cinica guadagna colpo su colpo, con la stessa sicurezza con cui la moneta cattiva scaccia la buona. La preoccupazione «etica» è pubblicitaria. Marx risolveva la questione in poche righe nella sua prefazione al Capitale: «Non dipingo certo di rosa il personaggio del capitalista e del proprietario fondiario», ma «meno di qualsiasi altra, la mia prospettiva, in cui lo sviluppo della società in quanto formazione economica è studiato come processo di storia naturale, potrebbe rendere l'individuo responsabile di rapporti di cui rimane socialmente un prodotto (5)... ». Ecco perché non basterà certamente qualche ceffone, per «rifondare» un sistema in cui il profitto resta l'unico criterio. Non si tratta di essere indifferenti all'aspetto morale delle cose.<br />Anzi, al contrario. Ma, valutato in modo serio, il problema è di tutt'altro ordine rispetto alla delinquenza di padroni canaglia, all'incoscienza di traders pazzi o anche all'indecenza dei paracaduti dorati. Quel che il capitalismo ha di indifendibile in questo senso, al di là dei comportamenti individuali, è il suo stesso principio: l'attività umana che crea ricchezza vi ha lo statuto di merce, ed è dunque trattata non come fine in sé, ma come semplice mezzo. Non c'è bisogno di aver letto Kant per vedervi l'origine prima dell'amoralità del sistema. Se si vuole veramente moralizzare la vita economica, bisogna prendersela con ciò che la de-moralizza. Il che passa certo - amena riscoperta di molti liberisti - per la ricostruzione di regolamentazioni statali.<br />Ma affidarsi, a questo scopo, allo stato sarkozyano dello scudo fiscale per i ricchi e della privatizzazione delle Poste supera i limiti dell'ingenuità - o dell'ipocrisia. Quando si pretende di affrontare la questione della regolamentazione, è imperativo ritornare ai rapporti sociali fondamentali - e qui, di nuovo, Marx ci offre un'analisi di indiscutibile attualità: quella sull'alienazione.<br />Nella sua prima accezione, elaborata in celebri testi giovanili (6), il concetto definisce la maledizione che costringe il salariato del capitale a produrre la ricchezza per altri, solo producendo la propria indigenza materiale e morale: deve perdere la vita per guadagnarla.<br />La multiforme inumanità di cui la massa dei salariati è oggi vittima (7), dall'esplosione delle patologie del lavoro ai licenziamenti borsistici passando per i bassi salari, mostra con grande crudeltà quanto l'analisi sia ancora valida. Ma, nei suoi lavori della maturità, Marx ritorna sull'alienazione dandole un senso ben più vasto: poiché il capitale riproduce costantemente una radicale separazione tra mezzi di produzione e produttori - fabbriche, uffici, laboratori non sono di chi vi lavora - , le loro attività produttive e cognitive, non collettivamente controllate alla base, sono lasciate all'anarchia del sistema della concorrenza, dove si convertono in incontrollabili processi tecnologici, economici, politici, ideologici; gigantesche forze cieche che li soggiogano e li schiacciano.<br />Gli uomini non fanno la propria storia, è la loro storia che li fa.<br />La crisi finanziaria illustra in modo terrificante questa alienazione, proprio come la crisi ecologica e quel che bisogna chiamare la crisi antropologica, quella delle vite umane: nessuno ha voluto queste crisi, ma tutti le subiscono.<br />È da questo «spossessamento generale», spinto all'estremo dal capitalismo, che risorgono inarrestabilmente le rovinose assenze di regolamentazione concertata. Per cui chi si vanta di «regolare il capitalismo» è sicuramente un ciarlatano politico. Regolare sul serio, richiederà molto più dell'intervento statale, per quanto necessario esso possa essere, perché, chi regolamenterà lo stato? Occorre che a riprendere il controllo dei mezzi di produzione siano i produttori materiali - intellettuali finalmente riconosciuti per quel che sono, e che non sono gli azionisti: i creatori della ricchezza sociale, aventi come tali l'indiscutibile diritto di prendere parte alle decisioni di gestione in cui si decide della loro stessa vita. Di fronte ad un sistema la cui evidente incapacità di regolarsi ci costa un prezzo esorbitante, bisogna, secondo Marx, iniziare senza indugio il superamento del capitalismo, lunga marcia verso una diversa organizzazione sociale dove gli esseri umani, grazie a nuove forme di associazione, controlleranno insieme le loro forze sociali impazzite.<br />Tutto il resto è fumo negli occhi, dunque tragica delusione annunciata.<br />Si va ripetendo che Marx, molto incisivo nella critica, mancherebbe di credibilità quanto alle soluzioni, poiché il suo comunismo, «testato» all'Est, sarebbe radicalmente fallito. Come se il defunto socialismo staliniano-brezneviano avesse avuto qualcosa di veramente comune con l'idea di comunismo di Marx, di cui quasi nessuno peraltro cerca di recuperare il senso reale, che è agli antipodi di quel che l'opinione corrente mette sotto la parola «comunismo». In realtà, quel che potrebbe essere il «superamento» del capitalismo nel XXI secolo, in senso autenticamente marxista, si delinea sotto i nostri occhi in modo completamente diverso (8).<br />La bancarotta dell'Homo Ïconomicus Ma qui ci fermiamo: volere un'altra società sarebbe una cruenta utopia, perché non si cambia l'uomo. E «l'uomo», il pensiero liberista sa cosa è: un animale che trae la sua essenza non dal mondo umano, ma dai suoi geni, un calcolatore mosso dal suo solo interesse individuale - Homo Ïconomicus (9) - , con cui non è possibile altro che una società di proprietari privati in concorrenza «libera e non falsata». Ora anche questa idea fa bancarotta. Sotto l'eclatante tracollo del liberismo pratico si consuma sottovoce il fallimento del liberismo teorico e del suo Homo Ïconomicus. Doppio fallimento. Scientifico, prima di tutto. Nel momento in cui la biologia si separa da un semplicistico «tutto-genetico», l'ingenuità dell'idea di «natura umana» salta agli occhi. Dove sono i geni, annunciati con grande clamore, dell'intelligenza, della fedeltà o dell'omosessualità? Quale mente colta può ancora credere, ad esempio, che la pedofilia sia congenita? E fallimento etico. Perché quel che protegge da lustri l'ideologia dell'individuo concorrenziale, è la disumanizzante pedagogia del «diventate assassini», una liquidazione programmata delle solidarietà sociali non meno drammatica dello scioglimento dei ghiacci polari, una de-civilizzazione a tutto tondo per la follia dei soldi facili, che dovrebbe fare arrossire chi osa annunciare una «moralizzazione del capitalismo». Dietro il naufragio storico in cui la dittatura della finanza affonda e ci fa affondare, c'è quello del discorso liberista su «l'uomo».<br />E lì, sta la più inattesa delle attualità di Marx. Perché questo formidabile critico dell'economia è anche, nello stesso momento, l'iniziatore di una vera rivoluzione nell'antropologia. Una dimensione totalmente misconosciuta del suo pensiero, che non si può esporre in venti righe. Ma la sua sesta tesi su Feuerbach ne esprime lo spirito in due frasi: «L'essenza umana non è un'astrazione inerente all'individuo preso a parte. Nella sua realtà, è l'insieme dei rapporti sociali».<br />Al contrario di quanto pensa l'individualismo liberista, «l'uomo» storicamente sviluppato, è il mondo dell'uomo. Lì ad esempio, e non nel genoma, si forma il linguaggio. Lì prendono origine le nostre funzioni psichiche superiori, come ha superbamente dimostrato un marxista a lungo misconosciuto, Lev Vygotski, uno dei grandi psicologi del XX secolo, il quale ha così aperto la strada ad una visione completamente diversa dell'individualità umana.<br />Marx è attuale e anche più di quanto non si pensi? Sì, purché si voglia attualizzare l'idea tradizionale che spesso ci si fa di lui.<br /><br /><br />note:<br />* Filosofo. Ha appena pubblicato il tomo 2 di Penser avec Marx aujourd'hui, intitolato L'homme?, La Dispute, Parigi.<br /><br />(1) The Daily Telegraph, Londra, 14 ottobre 2008.<br /><br />(2) Le Magazine littéraire, n° 479, Parigi, ottobre 2008.<br /><br />(3) Karl Marx, La lotta di classe in Francia, Editori riuniti, 1984; citato in Manière de voir, n° 99, «L'internationale des riches» giugno-luglio 2008.<br /><br />(4) Karl Marx, Il capitale, Libro I, Editori riuniti, 1983 o Presses universitaires de France, Parigi, 1993, p. 724.<br /><br />(5) Le Capital, Libro I, p. 6.<br /><br />(6) «Le travail aliéné», Manuscrits de 1844, Flammarion, Parigi, 1999.<br /><br />(7) Leggere Christophe Dejours, Travail, usure mentale, Bayard, 2000; «Aliénation et clinique du travail» Actuel Marx, n° 39, «Nuovelles aliénations», Parigi, 2006. <br />(8) In Un futur présent: l'après-capitalisme, La Dispute, Parigi, 2006, Jean Sève dipinge un quadro impressionante di questi inizi di superamento osservabili in settori molto diversi.<br /><br />(9) Leggere tra gli altri Tony Andréani, Un être de raison. Critique de l'Homo Ïconomicus, Syllepse, Parigi, 2000.<br />(Traduzione di G. P.) <br /><br />da: http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Dicembre-2008/pagina.php?cosa=0812lm03.01.html<br /><br /><strong>Il ritorno di Karl Marx</strong> <br />By Fred Weston <br /><br /> <br />Friday, 14 November 2008 <br /> <br />Recentemente sono apparsi diversi articoli su giornali e siti internet di tutto il mondo, che rilevano il fatto che le vendite di libri di Marx nell’ultimo anno sono aumentate notevolmente in Germania Est, specialmente tra i giovani. Vale la pena citare alcuni di questi articoli. <br /><br />Il Goethe-Institut ha pubblicato un articolo dal titolo “Sta per essere riscoperto: Karl Marx”, in cui si legge, tra l’altro: <br /><br />“Da un po’ di tempo ormai, ogni volta che si parla del sistema di libero mercato, si sentono espressioni come capitalismo di rapina, locuste finanziarie e neo-liberalismo. Forse Karl Marx e le sue teorie stanno per tornare in auge? <br /><br />Beatrix Bouvier, direttore del Museo e del Centro di Studi nella Casa di Karl Marx a Trier, preferisce non parlare di un “rinascimento” di Karl Marx. Eppure, ella stessa ha osservato in un’intervista con l’Agenzia di Stampa Tedesca che l’interesse per il filosofo ed economista tedesco è aumentato di recente, specialmente tra i giovani. <br /><br />La casa editrice Karl Dietz Verlag è entusiasta della crescente domanda per le opere di Marx. Nel maggio 2008 le vendite del Capitale sono triplicate rispetto al maggio 2007. Questo chiaro aumento di interesse era stato preannunciato già nel 2007, quando erano state vendute il doppio delle copie dell’anno precedente.” <br /><br />Sul sito internet di STV troviamo un articolo dal titolo “La crisi globale rispedisce i tedeschi dell’est da Marx”, che afferma: <br /><br />“Due decenni dopo la caduta del Muro di Berlino, il padre fondatore del comunismo, Karl Marx, è tornato di moda nella Germania Est grazie alla crisi finanziaria mondiale. <br /><br />La sua analisi critica del capitalismo scritta nel 1867, “Il Capitale”, dopo decenni di oblio, è diventato un best-seller a sorpresa per la casa editrice accademica Karl-Dietz-Verlag. <br /><br />‘Tutti pensavano che non ci sarebbe mai più stata alcuna domanda per Il Capitale’, ha affermato il direttore Joern Schuetrumpf all’agenzia Reuters dopo che sono state vendute 1.500 copie finora in quest’anno, il triplo che in tutto il 2007 e un aumento di cento volte rispetto al 1990. <br /><br />‘Perfino banchieri e manager ora leggono Il Capitale per cercare di capire che cosa sia successo. Insomma, Marx è l’autore del momento’, ha affermato Schuetrumpf.” <br /><br />L’autore procede spiegando che questo ritorno a Marx riflette un rifiuto del capitalismo da parte di molti nella Germania orientale, e cita un recente sondaggio che mostra come il 52% dei tedeschi dell’est consideri l’economia di libero mercato “insostenibile” e il 43% abbia dichiarato che preferivano il socialismo al capitalismo. Queste cifre sono confermate da diverse interviste significative. <br /><br />L’articolo cita Thomas Pivitt, un lavoratore nel settore informatico di 46 anni di Berlino Est, che afferma: “A scuola leggevamo degli ‘orrori del capitalismo’. Avevano proprio ragione. Karl Marx ci aveva visto giusto. Avevo una vita abbastanza piacevole prima della caduta del Muro. Nessuno si preoccupava del denaro perché il denaro non contava più di tanto. Avevi un lavoro perfino se non ne volevi uno. L’idea comunista non era poi così male.” <br /><br />Hermann Haibel, un fabbro in pensione, ora settantaseienne, si esprime così: “Pensavo che il comunismo fosse una merda, ma il capitalismo è pure peggio. Il mercato libero è brutale. I capitalisti vogliono spremerci, spremerci sempre di più, senza limiti.” <br /><br />In Gran Bretagna il Daily Mail parla dello stesso argomento in un articolo, “La morsa del credito fa lievitare le vendite del Capitale di Marx in Germania”, che riporta altresì le cifre: “Il libro ha venduto 1500 copie finora in quest’anno, il triplo di quelle vendute in tutto il 2007 e 100 volte più che nel 1990.” <br /><br />Ora alcuni borghesi potrebbero rilevare cinicamente che 1500 è ancora un piccolo numero, ma secondo queste cifre nel 1990 ne vendevano soltanto 15 all’anno. Possiamo stare certi che la TV tedesca e i giornali non stanno facendo pubblicità al Capitale. Il più grande spot per Il Capitale è la crisi economica mondiale e le condizioni generali dei lavoratori sotto il capitalismo. <br /><br />La vita insegna, e oggi le persone sono costrette a imparare molto rapidamente. E insieme a questo c’è un desiderio di capire davvero come funziona il sistema. Quale migliore autorità a cui rivolgersi che Karl Marx in persona, che molto tempo fa spiegò il meccanismo che conduce a crisi come quella attuale in cui stiamo vivendo. <br /><br />Basta guardare alla situazione dell’Islanda in questo momento per comprendere quanto Marx fosse nel giusto. Non è soltanto una banca o un’azienda ad essere andata in bancarotta. Qui abbiamo un intero Paese in una crisi irrecuperabile. Gauti Kristmannsson, un giornalista islandese che scrive per il New York Times, sottolinea il fosco scenario che attende il suo Paese nell’articolo “La Tempesta di Ghiaccio”: <br /><br />“A una a una, le banche più importanti sono state nazionalizzate dal governo, e agli Islandesi attoniti è stato detto che ciascuno di noi è debitore di milioni di dollari – a chi, non lo sappiamo. (…) <br /><br />I primi 500 banchieri hanno perso i loro posti di lavoro tutti insieme; molti altri stanno attendendo il doppio colpo della disoccupazione e della perdita della propria casa a causa dei propri mutui saliti alle stelle. (…) <br /><br />Improvvisamente, ci sono file in banca per accaparrarsi valute straniere, e c’è un tetto massimo su quanta se ne può possedere – le banche d’oltremare rifiutano di accettare la nostra valuta in caduta libera, la corona. Una delle mie studentesse, che studia in Spagna, non riesce a ottenere denaro dall’Islanda per pagare il suo affitto. Importatori ed esportatori non riescono a ottenere valuta per i loro affari. I turisti islandesi all’estero hanno problemi a ritirare contanti dai bancomat. Il governo britannico ha applicato le leggi anti-terrorismo per bloccare i beni delle banche islandesi; e la lista continua, come se fosse la sceneggiatura per l’incubo della globalizzazione. (…) <br /><br />Lo shock è così forte che non sono subentrati né rabbia né commiserazione. Pensavamo che l’Islanda fosse un Paese indipendente in grado di badare a se stesso senza l’aiuto della Russia o del Fondo Monetario Internazionale, che la nostra valuta avesse un suo valore, che potessimo possedere aziende e banche in tutto il mondo. (…) Sotto molti aspetti, abbiamo accettato acriticamente il sistema capitalista, che ora sembra essere stato un gigantesco casinò senza padrone. Pensavamo, alla fine, di poter avere ‘denaro in cambio di niente’ e ora affrontiamo l’amara verità che non avremo niente per il nostro denaro.” <br /><br />Il giornalista conclude l’articolo chiedendosi “Che fare?” e si risponde da sé: “nessuno lo sa, men che meno i politici, banchieri, affaristi…” ma come in Germania, Karl Marx sta arrivando in soccorso. Questo autunno una nuova edizione del Manifesto Comunista verrà pubblicata in Islanda. <br /><br />Il massiccio aumento delle vendite del Capitale in Germania e la pubblicazione del Manifesto in Islanda non sono che aneddoti. Ma alle volte gli aneddoti possono rivelare molto più che un migliaio di sondaggi d’opinione. Le persone di tutto il mondo sono state scosse dagli eventi del mercato finanziario. Ora cercano risposte e, dal momento che non ne trovano in nessuna delle teorie economiche ufficiali e dominanti, si rivolgono all’unica che ha predetto ciò che accade oggi: il marxismo! <br /><br />Se qualcuno ha dei dubbi su questo, legga la seguente citazione dal Manifesto Comunista, pubblicato nel 1848, 160 anni fa: <br /><br />I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse. <br /><br />Sfidiamo chiunque a trovare una descrizione migliore di ciò che sta accadendo ora, nell’anno 2008. Leggete le teorie di qualunque dei principali economisti borghesi, leggete Friedman o Keynes, leggete la miriade di articoli pubblicati nelle riviste finanziarie degli ultimi venti anni. Troverete ch quando fanno riferimento a Marx lo fanno per mostrare quanto avesse torto. Naturalmente, alcuni dei più seri analisti sono giunti quasi a comprendere che cosa stava accadendo, ma nessuno con la chiarezza di Marx. <br /><br />Il fatto più preoccupante per la borghesia è che Marx non ha semplicemente analizzato i meccanismi del sistema capitalista; ha indicato come le crisi del sistema portino infine alla rivoluzione, ad una rivolta dei lavoratori, della gente comune che soffre le conseguenze di queste crisi periodiche. Questa idea sta iniziando a mettere radici nella mente di molti lavoratori e giovani in tutto il mondo. Se sei uno di loro ti invitiamo di entrare a far parte della Tendenza Marxista Internazionale e ad aiutarci a costruire una forza che possa mettere fine a questo folle sistema. <br /><br />Source: FalceMartello <br /><br /> <br /><br />da: http://www.marxist.com/il-ritorno-di-karl-marx.htmdelinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-14901058759876064632009-01-07T08:05:00.003+01:002009-01-07T08:10:44.142+01:00Avete mai visto come vivono i palestinesi?Gaza, lettera aperta ai politici italiani<br />di Luisa Morgantini* <br /><br />Non una parola, non un pensiero, non un segno di dolore per le centinaia di persone uccise, donne, bambini, anziani e militanti di Hamas, anche loro persone. Case sventrate, palazzi interi, ministeri, scuole, farmacie, posti di polizia. Ma dove è finita la nostra umanità. Dove sono i Veltroni, con i loro "I care", come si può tacere o difendere la politica di aggressione israeliana? La popolazione di Gaza e della Cisgiordania, i palestinesi tutti, pagano il prezzo dell'incapacità della Comunità Internazionale di far rispettare ad Israele la legalità internazionale e di cessare la sua politicale coloniale. Certo Hamas con il lancio dei razzi impaurisce ed è una minaccia contro la popolazione civile israeliana, azioni illegali, da condannare. Bisogna fermarli. <br />Ma basta con l' impunità di Israele e dei ricatti dei loro gruppi dirigenti. <br /><br />Dal 1967 Israele occupa militarmente i territori palestinesi, una occupazione brutale e coloniale. Furto di terra, demolizione di case, check point dove i palestinesi vengono trattati con disprezzo, picchiati, umiliati, colonie che crescono a dismisura portando via terra, acqua, distruggendo coltivazioni. Migliaia di prigionieri politici, ai quali sono impedite anche le visite dei familiari.<br /><br />Ma voi dirigenti politici, avete mai visto la disperazione di un contadino palestinese che si abbraccia al suo albero di olivo mentre un buldozzer glielo porta via e dei soldati che lo pestano con il fucile per farglielo lasciare, o una donna che partorisce dietro un masso e il marito taglia il cordone ombelicale con un sasso perché soldati israeliani al check point non gli permettono di passare per andare all' ospedale, o Um Kamel, cacciata dalla sua casa, acquistata con sacrifici perché fanatici ebrei non sopravissuti all'olocausto ma arrivati da Brooklin, pensando che quella terra e quindi quella casa sia loro per diritto divino, sono entrati di forza e l'hanno occupata perché vogliono costruire in quel quartiere arabo di Gerusalemme un'altra colonia ebraica? Avete mai visto i bambini dei villaggi circostanti Tuwani a sud di Hebron che per andare a scuola devono camminare più di un ora e mezza perché nella strada diretta dal loro villaggio alla scuola si trova un insediamento e i coloni picchiano ed aggrediscono i bambini, oppure i pastori di Tuwani che trovano le loro tanche d'acqua o le loro pecore avvelenate da fanatici coloni, o la città di Hebron ridotta a fantasma perché nel centro storico difesi da più di mille soldati 400 coloni hanno cacciato migliaia di palestinesi, costringendo a chiudere più di 870 negozi?<br /><br />Avete visto il muro che taglia strade e quartieri che toglie terre ai villaggi che divide palestinesi da<br /><br />Palestinesi, che annette territorio fertile e acqua ad Israele, un muro considerato illegale dalla Corte Internazionale di giustizia? Avete visto al valico di Eretz i malati di cancro rimandati indietro per questioni di sicureza, negli ultimi 19 mesi sono 283 le persone morte per mancanze di cure, avrebbero dovuto essere ricoverate negli ospedali all'estero, ma non sono stati fatti passare malgrado medici israeliani del gruppo Phisician for Human rights garantissero per loro. Avete sentito il freddo che penetra nelle ossa nelle notte gelide di Gaza perché non c'è riscaldamento, non c'è luce, o i bambini nati prematuri nell'ospedale di Shifa con i loro corpicini che vogliono vivere e bastano trenta minuti senza elettricità perché muoiano?<br /><br />Avete visto la paura e il terrore negli occhi dei bambini, i loro corpi spezzati? Certo anche quelli dei bambini di Sderot, la loro paura non è diversa, e anche i razzi uccidono ma almeno loro hanno dei rifugi dove andare e per fortuna non hanno mai visto palazzi sventrati o decine di cadaveri intorno a loro o aerei che li bombardano a tappeto. Basta un morto per dire no, ma anche le proporzioni contano dal 2002 ad oggi per lanci di razzi di estremisti palestinesi sono state uccise 20 persone. Troppe, ma a Gaza nello stesso tempo sono stati distrutte migliaia e migliaia di case ed uccise più di tre mila persone tra loro centinaia di bambini che non tiravano razzi.<br /><br />Dopo le manifestazioni di Milano dove sono state bruciate bandiere israeliane, voi dirigenti politici avete tutti manifestato indignazione, avete urlato la vostra condanna. Ne avete tutto il diritto. Io non brucio bandiere né israeliane né di altri paesi e penso che Israele abbia il diritto di esistere come uno Stato normale, uno stato per i suoi cittadini, con le frontiere del 1967, molto più ampie di quelle della partizione della Palestina decisa dalla Nazioni Unite del 1947. <br /><br />Avrei però voluto sentire la vostra indignazione e la vostra umanità e sentirvi urlare il dolore per tante morti e tanta distruzione, per tanta arroganza, per tanta disumanità, per tanta violazione del diritto internazionale e umanitario. Avrei voluto sentirvi dire ai governanti israeliani: Cessate il fuoco, cessate l'assedio a Gaza, fermate la costruzione delle colonie in Cisgiordania, finitela con l' occupazione militare, rispettate e applicate le risoluzioni delle Nazioni Unite, questo è il modo per togliere ogni spazio ai fondamentalismi e alle minaccie contro Israele.<br /><br />Ieri lo dicevano migliaia di israeliani a Tel Aviv, ci rifiutamo di essere nemici, basta con l'occupazione.<br /><br />Dio mio in che mondo terribile viviamo.<br /><br />*Vice Presidente del Parlamento Europeodelinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-25681596045620034522009-01-05T20:17:00.003+01:002009-01-05T20:23:22.215+01:00UNA STORIA ARGENTINAHgo o "mordere nella stupidità"<br />Una storia argentina di Manuel Rivas<br /><br />Nel linguaggio dell’eternauta, quest’anno Héctor Germán Oesterheld (Hgo) compie 89 anni. Figlio di un ebreo tedesco e di una basca spagnola, Hgo è nato a Buenos Aires il 23 luglio 1919. La data della morte è sconosciuta. Nella storia drammatica dell’umanità, forse l’eufemismo più orribile è quello di desaparecido. “Non sono vivi né morti: sono scomparsi”. Quest’aforisma si deve al dittatore argentino Jorge Rafael Videla. Hgo è un desaparecido, il numero 7.456 della lista Conade (Commissione nazionale sui desaparecidos). Si sa che la vigilia di Natale del 1977 i suoi sequestratori gli tolsero il cappuccio e lo lasciarono a occhi scoperti per cinque minuti. Hgo salutò uno per uno i suoi compagni di prigionia e cantò con un giovane detenuto-desaparecido la canzone Fiesta di Joan Manuel Serrat. Anche le sue figlie sparirono: prima Beatrice (19 anni), poi Diana (23 anni), poi Estela (24 anni) e per ultima Marina (18 anni). Hgo è uno dei più straordinari creatori di avventure del novecento. Con lui è cambiato il profilo dell’eroe. L’Eternauta, la sua opera principale, una storia commovente e profetica, va oltre le frontiere della politica e dei generi letterari. E ogni giorno diventa un classico per i suoi lettori. È un’opera omerica del fumetto che mette in discussione il genere umano. “Dopo aver letto Oesterheld non possiamo più accettare di leggere delle cose qualsiasi”. Non l’ha affermato un critico qualunque in un raptus di magnanimità. Lo ha detto El Negro. L’ha detto Roberto Fontanarrosa. Rispettato da ogni tifoseria, da quelli del River e del Boca, e su qualsiasi campo di calcio o di letteratura. Anche in fondo e a sinistra, in qualsiasi redazione, dove di solito siedono i censori. E i cinici. La storia di dove si siedono i censori è di Enrique Medina. Medina ebbe il coraggio di andare nell’ufficio della censura, proprio prima del colpo di stato, a chiedere notizie del suo libro Las hienas. Che astuzia. E poi ricevette una telefonata: “Ma sei stupido!”. Che mania questa degli eufemismi. La paura che mettono gli eufemismi. Meglio sentirsi dire: “Il tuo becchino ha inito le ferie”. Ma torniamo a noi. Ci sono due grandi industrie nella storia dell’Argentina: il calcio e il fumetto. El Negro Fontanarrosa era un esperto di entrambe. Il miglior racconto di calcio che ho mai letto è la storia di Cardaña, il numero 5 del Peñarol, prima soprannominato El Hombre e poi, più precisamente, El Hombre de Neanderthal. Cardaña, rozzo e sentimentale, per beneficenza va a trovare in ospedale un bambino in condizioni gravi. Quel piccolo tifoso, che ha i giorni contati, accoglie il suo idolo come merita: “Brutti figli di puttana, come potete perdere con quelle schiappe del Nacional?”. Ecco come scriveva El Negro: non cedeva di un centimetro, neanche una lacrima gratis. Fu lui che disse: “Dopo Oesterheld come la mettiamo?”.<br /><br />Scrivere come un pazzo<br />Quando studiava geologia all’università, lavorava già come correttore e scriveva storie come un pazzo. Quando lavorava come esperto di oro e platino per il Banco de crédito industrial de la República Argentina scriveva articoli e storie come un pazzo. Quando vagava sui monti e sulle pianure come Robinson Crusoe scriveva storie come un pazzo. Gli offrirono di lavorare a Topolino e accettò, perché non era un apocalittico della cultura e quello che gli piaceva era scrivere storie come un pazzo. Scrisse letteratura per l’infanzia, molta sotto lo pseudonimo di Sánchez Puyol. Fu l’epoca d’oro di quel genere narrativo nell’Argentina degli anni quaranta e cinquanta, con Gatitos e Bolsillitos. Gli piaceva scrivere per l’infanzia. “I bambini sono trattati sempre come degli stupidi”. Fu anche l’epoca d’oro del fumetto argentino, quando fondò con il fratello Jorge la casa editrice Frontera e uscirono due pubblicazioni che avrebbero fatto la storia. Hora Cero e Frontera. Avevano una tiratura di circa centomila copie. Cos’aveva a che fare Hgo con l’industria culturale? Scriveva come un pazzo. In trent’anni scrisse le sceneggiature di almeno centocinquanta serie di fumetti collaborando con una cinquantina di disegnatori. Sempre prolifico ed esigente. Perché scelse il fumetto? Avrebbe potuto essere un grande scrittore? È bello parlare con Martín Mórtola e Fernando Oesterheld, i suoi nipoti. “Voleva demolire l’artificiosa opposizione tra alta e bassa cultura. Non aveva pregiudizi elitari. Voleva arrivare alla gente e non lo considerava un obiettivo incompatibile con la qualità. Questa è un’altra delle lezioni dell’Eternauta, un’opera d’avanguardia che ha raggiunto le persone, una grande avventura e una letteratura straordinaria”. Guillermo Saccomanno, in Escritura y memoria, propone un suggestivo parallelismo: “Se Martín Fierro, un poema creolo e popolare, è riuscito ad affermarsi come il grande romanzo di fondazione della nostra letteratura, perché non fare una forzatura e affermare lo stesso di questo fumetto che si chiama l’Eternauta?”. Jorge Luis Borges era ammaliato dall’universo Oesterheld. Inoltre Hgo era uno straordinario creatore di fantascienza non troppo fantastica. “Leggeva le riviste scientifiche più all’avanguardia di tutto il mondo”, ricorda Elsa Sánchez, sua moglie. Ha riempito l’Argentina e altri paesi di gente interessante. Ray Kilt, Sargento Kira, Indio Suárez, Bull Rocket, Ernie Pike, Ticonderoga, Randall, Sherlock Time. E il gruppo, l’eroe collettivo, dell’Eternauta.<br />Quando passò alla clandestinità e sapeva di essere perseguitato da Loro, cosa faceva Oesterheld? “Scriveva come un pazzo”. Gli diedero la caccia, lo fecero sparire, gli succhiarono il sangue. Cosa faceva Oesterheld? Ana María Caruso, dalla prigionia del centro clandestino di detenzione chiamato Sheraton, riuscì a scrivere una lettera che compare nel rapporto Nunca más della Commissione nazionale sui desaparecidos: “Adesso è con noi El Viejo, l’autore dell’Eternauta e del Sgt. Kirk. Ve lo ricordate? Il povero vecchio passa le sue giornate a scrivere fumetti che inora nessuno dà segno di voler pubblicare”. Scriveva come un pazzo.<br /><br />Fango sugli stivali<br />Nessuno, dopo aver letto l’Eternauta, potrebbe più accettare di leggere delle cose qualsiasi. Cambia lo sguardo. È una di quelle opere che sanno “mordere nella stupidità” come piaceva a Franz Kafka. O come piaceva a Emil Cioran: “Un libro dev’essere un pericolo”. “Cosa fare? Cosa fare per evitare tanto orrore?”. Chi grida queste parole? È lo sceneggiatore, Oesterheld, alla fine dell’Eternauta. Non è fuori, ma dentro, in una vignetta. Una delle idee dirompenti di Oesterheld fu quella di entrare a far parte dell’opera come personaggio. Un coraggio formale che avrà molte conseguenze. Siamo nel 1957. Francisco Solano López (Buenos Aires, 1928) lo rende riconoscibile. Lo disegna con i suoi tratti. All’inizio della trama l’Eternauta appare allo sceneggiatore nella mansarda in cui lavora e gli racconta la sua storia di eroe perso nell’eternità. Alla fine l’Eternauta riesce a tornare a casa dalla moglie e dalla figlia, che lo rimproverano per averci messo mezz’ora a comprare il giornale. Mezz’ora? Lo sceneggiatore, Oesterheld, il nostro Hgo, cerca di dissuadere l’Eternauta. Tutto quello che gli ha raccontato, tutto quello che sta per succedere! La nevicata mortale, l’invasione guidata da un potere oscuro, Loro, che usano per i loro fini i terribili mostri e gli intelligenti kol, schiavi della paura, che a loro volta trasformano gli umani sopravvissuti in uomini-robot. Ma l’Eternauta non riconosce più lo sceneggiatore. Tornando nel passato, ha perso la memoria del futuro. La memoria passa allo sceneggiatore. Chi è adesso l’Eternauta? Siamo nel 1957. Hgo grida dal fumetto: “Cosa fare? Cosa fare per evitare tanto orrore?”. È la prima versione dell’Eternauta. Nel 1969 ci sarà una seconda versione, disegnata da Alberto Breccia, in cui le coordinate geopolitiche sono più precise. La pubblicazione solleva molte polemiche. La rivista Gente ne forza il finale. L’Eternauta diventa un personaggio inquietante, troppo verosimile. Nel 1976, con i disegni di Solano López, si pubblica un seguito dell’avventura, una seconda parte. È un processo pieno di ostacoli. Sceneggiatore e disegnatore si vedono appena. Hgo sente sul collo il fiato di Loro e detta capitoli dalle cabine telefoniche. Le ultime volte in cui va alla casa editrice Récord, che doveva pubblicare l’Eternauta II, si presenta sempre a orari assurdi, come un’ombra. A tradirlo è solo “la scia di fango secco dei suoi stivali” sul tappeto. Perché uno dei molti rifugi di Hgo era l’isola del Tigre.<br /><br />La tecnologia infernale<br />Erano arrivati Loro, come l’Eternauta avrebbe chiamato i dittatori. Nel prologo di Ernesto Sábato al rapporto Nunca más, in cui si documentano gli orrori della dittatura e l’usurpazione dello stato da parte di una maia in uniforme, c’è scritto: “Dalle informazioni in nostro possesso si desume che questa tecnologia infernale fu applicata da esecutori sadici ma ben inquadrati”. Insieme a migliaia di desaparecidos, la “tecnologia infernale” si portò via Hgo e le sue quattro figlie. Erano già passati alla clandestinità quando cominciò la dittatura argentina, che durò sette anni crudeli (1976-1983). L’unico cadavere che Elsa riuscì a recuperare fu quello di Beatriz. A 19 anni fu la prima vittima di Loro. Il 19 giugno 1976 Beatriz chiamò la madre e le dette appuntamento in un bar. Due giorni dopo sul treno, mentre Elsa andava al lavoro, un uomo molto nervoso con un vestito elegante si avvicinò per dirle che sua figlia era stata sequestrata da un “gruppo di lavoro” dell’esercito. Elsa Sánchez de Oesterheld cominciò il pellegrinaggio per ritrovare Beatriz, ma sull’Argentina era davvero caduta una “nevicata mortale”. Si scontrò con muri di silenzio. I conoscenti facevano finta di non conoscerla e perfino suo nipote Jorge Oesterheld, un sacerdote potente che oggi è portavoce della conferenza episcopale argentina, preferì “guardare dall’altra parte”. Elsa sapeva di essere diventata un pericolo per le figlie. Tutti i suoi movimenti erano sorvegliati per arrivare alle ragazze e a Hgo. In un certo senso anche lei era una desaparecida apparentemente in libertà. Lo sterminio programmato della famiglia di Hgo continuò: a Tucumán il 4 luglio 1976 scomparve Diana, 23 anni, incinta; il 27 aprile 1977 fu sequestrato Hgo e il 14 dicembre dello stesso anno sparì Estela, 24 anni. Nella sua ultima lettera, scritta quel giorno, dice: “Mammina: è un mese che Marina non è con noi”. Significa: Marina è scomparsa. Aveva diciott’anni.<br /><br />La tortura metafisica<br />Loro, con le bande di gurbos, mostri e uomini-robot, applicarono la tecnologia infernale su scala industriale. Per far sparire i cadaveri usarono una variante dell’incinerazione: i voli della morte. Forse pensavano che la scomparsa sottomarina di migliaia di persone sarebbe stata inodore, innocua e impercettibile. Il più grande detective della storia, Sigmund Freud, scrisse: “Censurare un testo non è difficile, più difficile è cancellarne le tracce”. I carnefici ignoravano che anche il corpo umano è un testo. E questa è la verità di fondo dell’Eternauta, la ragione della sua forza a distanza di così tanti anni. “La persistenza dell’Eternauta di per sé è un modo per non dimenticare”, scrive Judith Filc. Nel primo anniversario del golpe militare, il 24 marzo 1977, un altro geniale eternauta argentino, lo scrittore Rodolfo Walsh, compagno e collega in molti sensi di Hgo, spedì per posta e distribuì clandestinamente la Carta abierta de un escritor a la junta militar (lettera aperta di uno scrittore alla giunta militare). È uno dei pamphlet di denuncia più commoventi della storia, in cui Walsh fece conoscere al mondo la dimensione del genocidio: quindicimila desaparecidos fino a quel momento. “Siete arrivati alla tortura assoluta, atemporale, metafisica”. In questo contesto la parola metafisica, associata alla tortura, perde tutta la sua astrazione ed esprime l’incommensurabilità dell’orrore vissuto nella realtà. Durante una perquisizione della sua vecchia casa, dove viveva solo Elsa, l’ufficiale mostro al comando del “gruppo di lavoro” spiegò che stavano dando la caccia a Héctor l’ebreo. Elsa rispose che suo marito era figlio di un proprietario terriero tedesco e di una spagnola. Poi aggiunse: “E anche se fosse ebreo?”. Tra le cose che ispirarono Loro per mettere in pratica la “tecnologia infernale”, la tortura e la scomparsa forzata di migliaia di persone, come Hgo e le sue quattro figlie, ci sono alcuni metodi nazisti. Per esempio, un ordine di Hitler, il decreto Nacht und Nebel, notte e nebbia. Il testo di questo decreto, ricostruito dal tribunale di Norimberga, sconsigliava la consegna del cadavere della persona eliminata alla famiglia. L’obiettivo era “disseminare il terrore” per indebolire qualsiasi resistenza. Nel 1977, il periodo in cui Hgo fu detenuto, il generale Ibérico Saint Jean, governatore della provincia di Buenos Aires durante i fatti della notte delle matite spezzate (scomparsa e omicidio di un gruppo di adolescenti), dichiarò in pubblico e senza eufemismi: “Prima uccideremo i sovversivi, poi i loro simpatizzanti e per ultimi gli indifferenti”. Tra le migliaia di desaparecidos ci sono un centinaio di poeti, scrittori e sceneggiatori di fumetti. Un altro Loro, un collega militare del generale Ibérico, il comandante Luciano Menéndez che guidava il iii corpo dell’esercito e fu il responsabile dei roghi di libri del 29 aprile 1976, dichiarò: “Così come distruggiamo con il fuoco la documentazione perniciosa che offende l’intelletto e la nostra cristianità, distruggeremo anche i nemici dell’anima argentina”. Loro, come Creonte, punivano oltre la morte. Gridando ad Antigone, alle figlie di Oesterheld: “Se la tua natura è amare, va’ tra i morti e amali. Finché io avrò vita non comanderà una donna”.<br /><br />Ernie Pike<br />Quando creò Ernie Pike, uno di quei grandi personaggi che cambiarono il profilo dell’eroe rendendolo una figura complessa, fatta di carne e ossa e non d’acciaio, i primi episodi furono disegnati da Hugo Pratt. Quando vide il fumetto, Hgo rimase perplesso: il volto di Ernie Pike, corrispondente di guerra che mette sempre in dubbio le versioni ufficiali, era il suo. E lo videro anche i torturatori: riconobbero in Hgo Ernie Pike. E quindi ci andarono giù pesanti con Ernie Pike. Elsa Sánchez de Oesterheld mi racconta un’altra storia che la lasciò a bocca aperta. Qualche anno fa, nel 2002, alla ine di un incontro, le si avvicinò una donna, una dottoressa che era stata rapita, detenuta nell’Esma (la scuola di meccanica dell’esercito dove furono detenute circa cinquemila persone) e sopravvissuta alla prigionia. Le raccontò che un giorno Alfredo Astiz, un ufficiale dell’Esma noto come l’Angelo della morte, tirò fuori dal cassetto del suo tavolo un libro e le disse più o meno così: “Prendi e leggilo. È il miglior libro d’Argentina”. Era l’Eternauta. In quell’episodio uno dei personaggi si lamenta: “Tutti scomparsi… come se non fossero mai esistiti”.<br /><br />Un incarico per Hgo<br />Siamo nel 2008. Il 23 luglio, se fosse ancora vivo, Héctor Germán Oesterheld avrebbe compiuto 89 anni. La sua condizione terrena è quella di desaparecido forzato. Fu sequestrato da uno di questi eufemismi criminali chiamati “gruppi di lavoro” e fu detenuto in almeno tre carceri clandestine, ovvero in dei non luoghi: Campo de Mayo, El Vesubio e Sheraton, dov’era conosciuto come El Viejo, il vecchio. Gli indizi e le prove circostanziali fanno presumere che Hgo morì all’inizio del 1978. Non c’è traccia del cadavere. Il rifiuto era la risposta sistematica che ricevevano le migliaia di ricorsi. Per quanto si sa, all’inizio Hgo fu maltrattato e torturato. Poi, su iniziativa di un militare, cercarono di coinvolgerlo nella stesura di una biografia del libertador San Martín. Oesterheld si era fatto conoscere come biografo. Già nel 1951, quando scriveva libri per bambini, Perón avrebbe voluto che lavorasse alla sua biografia. Lui riuscì a dire di no. La moglie Elsa pensa che da quando scrisse Che (Rizzoli 2007), illustrato da Alberto Breccia e da suo figlio Enrique, Hgo fu segnato. La biografia del Che fu pubblicata nel 1968, in piena dittatura di Onganía. L’editore gli aveva proposto di farla uscire come opera anonima, ma Héctor rispose: “Un personaggio come il Che non merita che un lavoro su di lui sia fatto di nascosto”. Il libro ottenne un successo immediato. La prima edizione andò a ruba in un mese, ma la casa editrice fu perquisita e Breccia e Oesterheld furono minacciati di morte. Poi avvenne una cosa strana. Ricevette una telefonata dall’ambasciata degli Stati Uniti. Gli proposero di scrivere qualcosa di simile, una biograia sullo stesso stile, altrettanto immediata e diretta, ma su John F. Kennedy. Hgo declinò l’offerta. Era già pronta quella di Evita. Non fu pubblicata: non ci sarebbero state più biografie. E adesso in prigionia se ne uscivano con San Martín! Non si sa a che punto arrivò né che ne fu dei suoi appunti. La vita di San Martín raccontata da Oesterheld? Probabilmente Loro si resero conto del possibile scivolone: se la biografia fosse stata portata a termine avrebbero dovuto far sparire San Martín. Le statue si sarebbero messe a parlare e sarebbero finite in fondo al mare.<br /><br />Una strana visita<br />La tortura peggiore a cui sottoposero Oesterheld, a parte il tormento fisico, fu quella di mostrargli le foto delle figlie morte. Loro, come Creonte, punivano oltre la morte, mostrando i diversi cadaveri di Antigone. A Elsa restituirono solo il corpo della prima figlia uccisa, Beatriz, “quella che somigliava più al padre”. Poi sparì Diana, 23 anni, con il suo compagno, Raúl. Dopo fu la volta di Marina, diciotto anni. Sopravviveva Estela, la più grande, di 24 anni. C’è una testimonianza sul periodo di detenzione di Oesterheld nel carcere clandestino di Campo de Mayo. Juan Carlos Scarpatti disse: “Non lo conoscevo personalmente, ma attirò la mia attenzione. Lo vidi, diciamo, abbattuto, molto angosciato. Allora mi avvicinai e gli chiesi cos’aveva. Mi disse che gli avevano mostrato le foto delle figlie. Dei loro cadaveri”. Ma la notizia della morte di Estela e di suo marito – anche lui si chiamava Raúl – la ricevette quando i carcerieri dello Sheraton gli dissero che c’era una visita speciale per lui. L’hotel Sheraton, eufemismo per il non luogo, era un altro centro di detenzione clandestino che si trovava in un settore nascosto del commissariato di Villa Insuperable, all’interno della città. Era il 14 dicembre 1977. La “visita speciale” era di un bambino di tre anni, suo nipote Martín. Quel giorno avevano ucciso i suoi genitori. Ancora oggi Martín ricorda di essere rimasto seduto per ore con suo nonno in un “corridoio orribile con delle pareti di lattice blu brillante”. Difficile non vederlo come un episodio dell’Eternauta fatto piombare nella realtà. El Viejo e il nipote che ha conosciuto a malapena, insieme in un non luogo dove ti succhiano il sangue. Sono ottocento i bambini rubati all’epoca di Loro, e solo novanta sono riusciti a tornare alle loro famiglie di origine. Un’altra ramificazione della “tecnologia infernale”. Due nipoti di Hgo ed Elsa, i figli di Diana e Marina, sono desaparecidos. La comparsa di Martín nel non luogo, il fatto che qualcuno abbia deciso di portarlo dal Viejo, che tutti credevano morto, è un episodio che può avere un’interpretazione morbosa, ma può anche essere visto alla luce del l’Eternauta. Forse è stata opera di un kol. I kol, subalterni intelligenti di Loro, diventano disobbedienti quando la “ghiandola del terrore” smette di funzionare. Per una volta Oesterheld dette un indirizzo, quello dei genitori di Elsa. Martín fu portato dalla nonna. Antigone dalla morte mandava un segnale.<br /><br />Il passerotto combattente<br />Ana di Salvo, psicologa, compagna di prigionia di Hgo nel centro di detenzione illegale del Vesubio, mi racconta che Oesterheld rimaneva sempre in disparte, diffidente. Parliamo del maggio del 1977, quindi non era da molto che lo avevano arrestato. “Ci dissero: ‘Arriverà El Viejo’. All’inizio non sapevo chi fosse. Non conoscevo la storia dell’Eternauta. Aveva un problema di pelle, era pieno di foruncoli in faccia e sulla testa. C’era una dottoressa tra le detenute. Gli diede una pomata, ma lui la riiutò. Era diffidente. Una notte in cui faceva molto freddo e stava dormendo sul pavimento di legno gli offrimmo una coperta. L’accettò. Ma sempre con un’aria di diffidenza. La mattina lo venivano a prendere e lo riportavano la sera. Ci raccontò che gli stavano facendo scrivere una storia su San Martín. Gli parlai di mio figlio Luciano. Gli chiesi di scrivermi una poesia, una storia per lui. Ma non ci fu tempo. Dopo avermi fatto sparire senza spiegazioni per 73 giorni, mi riportarono a casa. Pensi continuamente che stanno per ucciderti. Nel viaggio verso casa, guardando il paesaggio, uno dei sequestratori disse: ‘Buon posto per la caccia’. E io, non so perché, gli risposi: ‘Qui c’è il divieto di caccia, va rispettato’. Rimase perplesso. Le cose vanno così. Mio figlio Luciano, quando tornai, non voleva saperne di me. Pensava che l’avessi abbandonato di proposito. Un giorno gli comprai un racconto per bambini intitolato Chipió, el gorrioncito peleador (Chipió, il passerotto combattente). A Luciano piaceva molto la faccia di quell’uccellino. Imparò a leggere con lui e il libro ci riconciliò. Non sapevo che l’avesse scritto El Viejo: aveva usato uno pseudonimo. Molti anni dopo, in una mostra su Oesterheld, raccontai la storia a Martín, suo nipote, e lui mi disse: ‘In quel racconto c’era quello che mio nonno scrisse per tuo figlio’”.<br /><br />L’ultima lettera<br />L’ultima lettera di Estela a sua madre fu scritta il giorno in cui fu uccisa, il 14 dicembre 1977. È breve, scritta in gran fretta ma curata, con una grafia che cerca di rimanere ferma. Ogni lettera, ogni appunto in quei giorni trasudava nervosismo. Si ha l’impressione che la lettera a Elsa sia anche una lettera che Estela sentì il bisogno di scrivere a se stessa. Non è dificile immaginarla mentre la rilegge a bassa voce tra sé e sé, sforzandosi di dare alla madre la notizia della morte di Marina senza nominare la morte. Come nell’Eternauta, il tempo della lettera è un continuum 4, una specie di futuro del passato: “Marina non è più con noi e questo dolore non lo si può più alleviare, in nessun modo, ma voglio che tu sappia che è morta eroicamente così come ha vissuto”. Consonanti e vocali si accatastano in un presente ricordato: “Credo che dobbiamo essere orgogliosi di lei, così come di Bi (Beatrice), Di (Diana) e Dad (Héctor), e voglio che tu sappia che sono orgogliosa anche di te (Elsa)”. Quest’ultima affermazione ha un significato forte. Va oltre la cortesia filiale. Tutte le persone a cui fa riferimento Estela sono scomparse. La felice nidiata di Beccar sta per essere sterminata. Elsa, la madre, antiperonista, razionale e intuitiva, “molto celta”, dice lei, non li aveva seguiti nel loro impegno rivoluzionario. Aveva discusso animatamente con Hgo, con l’uomo che amava. Sì, era d’accordo con lui. Era una gioventù meravigliosa: bella, colta, ribelle. La migliore generazione che l’Argentina avesse mai avuto. Come Héctor, Elsa passava da Mozart a Janis Joplin e, perché no, condivideva anche i gusti artistici di quella generazione, la libertà nello stile di vita, una sessualità senza tabù, l’avversione all’ingiustizia. Condivideva tutte queste cose, dice Elsa. Ma lei, la donna che era stata così felice a Beccar, in quella casa che era come un laboratorio dell’artista romantico, dove tutto “fremeva e cantava”, dove tutti approdavano e nessuno se ne voleva andare, dove nessuno voleva spegnere la luce, dove le ragazze si riiutavano di andare alle feste o nei locali perché c’era solo “gente stupida”, e allora volevano stare lì, a Beccar, con i loro amici e quelli dei genitori, disegnatori, musicisti, artisti, scrittori, gente che portava delle storie: lei, che aveva conosciuto il paradiso, riuscì a percepire con chiarezza il trambusto della macchina infernale che si stava avvicinando. Sì, discusse con Hgo. Non riusciva a digerire quella metamorfosi nell’Oesterheld che amava e ammirava, l’uomo tranquillo, illuminato, progressista e piuttosto libertario. Una trasformazione dovuta all’influenza degli amici anarchici spagnoli in esilio, quello sguardo antidogmatico che appartiene anche ai suoi eroi. Hgo non era affatto elitario. La sua stessa scelta letteraria, la sceneggiatura dei fumetti, lo dimostra. Ma provava ribrezzo per il populismo peronista. Hgo cambiò. La sua opera principale contiene anche delle tracce autobiografiche. Tra il primo Eternauta (1957) e la seconda versione (1969) c’è una rivoluzione di sguardo. I riferimenti geopolitici diventano più concreti: l’America Latina è abbandonata alla sua sorte e Loro, gli oscuri poteri cosmici, sono la grande potenza. Hgo diventò più radicale, d’altronde anche il mondo intorno cadeva a pezzi. Le pagine del calendario cadevano per paura e ribrezzo. Il golpe di stato di Aramburu, nel 1956, con l’Operación Masacre, che Rodolfo Walsh racconterà in modo brillante. Il golpe di stato di Onganía, nel 1966, quando i professori e gli alunni dell’università di Buenos Aires furono crudelmente presi a bastonate nel tragitto verso i camion della polizia. Il mandato di Lanusse, nel 1972, con il massacro di Trelew. In questo calvario di sfortunati fasti e catastroiche salvezze, il paese percepì una “scintilla di speranza” nella grande mobilitazione civile cominciata con il cordobazo (un movimento di protesta che si diffuse nel 1969 nella città di Córdoba). In seguito, chiamando in causa l’oftalmologia, potremmo dire che si passò da uno strabismo divergente a uno convergente. Il punto di convergenza fu ancora una volta Perón. Gran parte della sinistra argentina confluì nel peronismo. Per molti era la speranza possibile, un’alleanza contro Loro. E lì c’erano Hgo e le sue iglie. Elsa no: lei manteneva le distanze quando dalla musica si passava alle parole. E lì c’erano anche Rodolfo Walsh e le iglie Vicky e Patricia. Si parla quasi sempre di A sangue freddo, di Truman Capote, come prima opera della narrativa del new journalism. Ma è per ignoranza emisferica. La prima opera è stata Operazione massacro, di Rodolfo Walsh, nel 1957, l’anno in cui nacque anche l’Eternauta. Walsh, di origine irlandese, allora era anche antiperonista. Preferiva gli scacchi alla politica e anche alla letteratura. Ma un giorno, tornando a casa, udì il grido di un soldato moribondo: “Non lasciatemi solo, figli di puttana!”. Il ritorno di Perón, il grande giorno della resurrezione nazionale, passerà alla storia per il massacro di Ezeiza. Lì, all’aeroporto, cominciò lo sterminio della “gioventù meravigliosa”. Più di trenta morti e trecento feriti in quello che avrebbe dovuto essere il giorno più felice. La lusinga diventò condanna: la “gioventù imberbe”. Perón morì quando si avvicinava il giorno della “nevicata mortale”. Il padre della patria era tornato con la mummia di Evita e un suo fantasma, Isabel, manovrata da un sinistro prestigiatore, il segretario López Rega, organizzatore della Tripla A, che mescolò la stregoneria alla produzione industriale della morte. Si moltiplicò il doppio lavoro: molti di quelli che di giorno lavoravano come capi della polizia, la notte diventavano capi della Tripla A. Fino all’arrivo del grande eufemismo, il processo di riorganizzazione nazionale. In altre parole, fino al colpo di stato militare con la sua rete di influenti complicità. Era il regime di Loro. E si mise in moto, a pieno ritmo, la “tecnologia infernale”. Walsh denuncia: “La Tripla A sono oggi le tre armi, e la giunta che voi presiedete non è l’ago della bilancia tra ‘violenze di segno diverso’ né l’arbitro giusto tra ‘due terrorismi’, ma la fonte stessa del terrore che ha smarrito la strada e riesce solo a balbettare un discorso di morte”. La lettera di Estela a Elsa iniva dicendo: “C’è ancora molto da dare in questa vita e sono molte le ragioni per andare avanti”. Quel giorno, dopo che aveva inviato la lettera, la uccisero.<br /><br />Oesterheld, Hugo Pratt ed Elsa<br />Lui scriveva a mano. Odiava la macchina da scrivere. Per questo ho imparato stenografia e dattilografia. Per aiutarlo. Dopo esserci sposati abbiamo vissuto quattro anni in un piccolo appartamento nel quartiere Desarrollo. Allora si occupava di minerali. Amava la natura aspra, selvaggia, la steppa deserta. Quando lo conobbi era un misantropo. Poi nacquero le bambine, una dopo l’altra. Disegnava già. ‘Papà, fammi un disegnino’. Scarabocchiava di tutto per loro. Leggeva di tutto. Era abbonato a riviste in tedesco, italiano, inglese e francese. Sapeva un sacco di cose. Gli interessavano tutte le scoperte scientifiche, tutto ciò che era al limite della fantascienza. Borges amava parlare con lui. Le ragazze lo vennero a sapere. Un giorno andarono tutti e cinque insieme a trovarlo. E stettero lì con lui, nella penombra della biblioteca nazionale. Sì, aveva una cultura straordinaria, enciclopedica. Un giorno Hugo Pratt gli mostrò molto soddisfatto alcuni disegni. Un nuovo eroe. Un soldato della conquista del west. Héctor gli disse: ‘Benissimo, ma dovrai ridisegnarlo. Non può avere quel tipo di arma. Il calcio della pistola non era così’. Hugo si sedette, fece un sospiro, gridò: ‘Lo uccido, lo uccido! Dimmi, Héctor Oesterheld, a chi importa com’era il calcio della pistola?’. ‘A me’, rispose Héctor. All’improvviso si alzò e andò verso il garage. Aveva libri dappertutto. Anche in garage. Ovunque. Leggeva sessanta o cento storie alla volta. C’era un pandemonio. Quando cercavo di mettere a posto, lui si disperava. Frugò nel caos. E alla fine tornò tenendo in mano quello che cercava. Lo passò a Hugo. ‘Ecco qui’, gli disse. ‘L’arma dev’essere così’. Era molto sportivo. Giocava a tennis. Il calcio gli piaceva, ma solo da guardare. Aveva una fissazione per lo stadio del River. Quando andava in centro passava sempre di lì. In quello stadio si svolge una battaglia decisiva dell’Eternauta. È stato un periodo idilliaco, un paradiso, quando stavamo in casa a Beccar. Questo l’ho già detto, vero? Quando sono arrivati i disegnatori italiani, ma questo è successo prima, anche quella è stata un’epoca meravigliosa. Tra loro c’era Hugo Pratt (mezzi matti gli italiani!). Era un ragazzo molto bello. Aveva un carisma unico. Tutti i giorni passava da casa nostra. Aveva sempre appetito. Gli preparavo qualcosa per cena. C’erano delle amiche che mi chiedevano: ‘Ma non ti sei innamorata?’. Se ne innamoravano tutte…”. E allora? Anche Elsa, l’Elsa che oggi ricorda, è in cucina a preparare qualcosa per cena. È facile immaginare, sulla soglia della porta della casa di Beccar, Corto Maltese, il mitico personaggio di Pratt. Mormoro: “Forse era lui a essere innamorato”. Elsa mi ascolta in silenzio. E chiude il discorso sugli amori con un gesto ironico, un’interiezione tracciata in aria.<br /><br />La memoria<br />Marcelo Brodsky, l’artista e fotografo creatore del Parco della memoria di Buenos Aires, venne a conoscenza della scomparsa del fratello minore Rubén con una telefonata. Lui era in Spagna, in esilio. L’universo acquistò improvvisamente le dimensioni di una cabina telefonica. “L’assenza di una persona scomparsa non ha mai ine. Come spiegarlo alle nuove generazioni? Come narrare un simile orrore? Nel Parco della memoria ogni percorso è un nuovo modo per ricordare. Camminiamo tra scie che si sostengono l’una con l’altra, in cui il risultato è il prodotto di una combinazione”. Brodsky ha giurato di parlare sempre del fratello come se stesse ascoltando Julius Fucik, nel suo Scritto sotto la forca: “Che la tristezza non sia mai associata al mio nome”. <br /><br />Elsa l’Eternauta<br />Quando Elsa ed Héctor si sposarono lui lavorava per una banca di credito minerario e analizzava campioni di metalli preziosi. Gran parte del suo lavoro era sul campo. Gli piaceva camminare. Camminare da solo nei grandi spazi. Con il vento della Patagonia in faccia. “È un lavoro duro, la solitudine del geologo può essere devastante, ho conosciuto persone che hanno cominciato a bere”, racconta Elsa. “Ma lui amava questo rapporto solitario con la natura. Amava tutto della natura. Le lumache ci mangiavano le rose e io gli chiedevo di metterci il veleno, ma Héctor diceva: ‘Anche loro hanno il diritto di vivere’. Io rispondevo: ‘Guarda che qui la celta panteistica sono io, ma non voglio che mi mangino le rose’. Gli offrirono un buon lavoro, ma avremmo dovuto separarci. Allora scelse l’editoria”. Elsa è nata a Buenos Aires da una famiglia di immigrati galiziani provenienti da un paesino vicino a Santiago, Loño. Nel 1983, quando passò da Loño, Elsa andò a vedere il loro granaio di legno, quello tipico della zona, di cui tanto le aveva parlato il padre. Si aspettava qualcosa di più monumentale. “Che c’è che non va?”, gli chiese lo zio. “È scrostato”. “Tua nonna non ha voluto che lo toccassero. Ha voluto che rimanesse come l’aveva fatto il figlio”. Il figlio era il padre emigrato di Elsa. Hgo passò da quel paesino nel 1962, facendo una “deviazione” da un viaggio in Germania. C’è una foto in cui è immortalato come il Robinson che era, camuffato tra l’erba del contadino mietitore. In Argentina i genitori di Elsa lavorarono sodo per andare avanti, ma avevano una passione: la musica. L’opera e la classica. Ascoltavano tutti i concerti che trasmettevano alla radio. Lo zio Pedro portava sempre un iore all’occhiello. La madre di Elsa leggeva García Lorca. L’aveva visto in un teatro di Buenos Aires stracolmo di persone, era stato accolto dalla folla in calle Corrientes. “Somiglio molto a mio padre. Sono Vicente Sánchez al femminile, estremamente impulsiva. Ero un maschiaccio. Poi subimmo un colpo terribile: mia sorella maggiore morì quando io avevo dodici anni. Studiai musica, danza classica e samba. È vero, tutti volevano ballare con me. No, Héctor non era un gran ballerino. Avevo diciassette anni e lui ventiquattro quando ci innamorammo”. Elsa parla come un libro aperto, che contiene la sua vita e quella degli altri. Il suo sguardo corre più veloce del tempo. Dall’appartamento di Buenos Aires si sente spesso il rumore del passaggio di qualche convoglio ferroviario. I treni, la luce mutevole del giorno, tutto sembra impegnarsi a seguire la velocità, l’intensità del ricordo di Elsa, che parla felice della sua adolescenza ballerina, danzando con le parole. Poi all’improvviso si gira e dice: “Anche gli psicologi si commuovevano. Tutta l’esperienza della psicologia non bastava per affrontare il nostro caso. Mi chiedono come ho fatto a resistere, come faccio a essere ancora viva. Non lo so. Sono qui per uno strano obbligo. Ho già provato tutta la paura del mondo”. All’altezza dei nostri occhi, sullo scaffale della libreria, c’è una foto che guarda verso di noi. Sono loro. Loro quattro. In casa a Beccar. Nell’ora azzurra. Le quattro ragazze Oesterheld. Tutta la bellezza del mondo. <br /><br /><br />Manuel Rivas è uno scrittore, poeta e giornalista spagnolo. È nato a La Coruña nel 1957. I suoi libri sono scritti in gallego, mentre per l’attività giornalistica usa il castigliano. In Italia ha pubblicato La lingua delle farfalle (Feltrinelli 2005), Il lapis del falegname (Feltrinelli 2004) e Il pirata testamatta (Feltrinelli 2001). Questo articolo è uscito sul País Semanal con il titolo El desaparecido Hgo. La traduzione dallo spagnolo è di Sara Bani.<br /><br /><br />[da Internazionale, n. 778]<br /><br />[L'Eternauta è stato pubblicato in Italia su Lanciostory nel 1977, ic]<br /><br />Articolo rintracciato in rete sul sito:<br />http://circolopasolini.splinder.com/delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-9894929589863288302009-01-02T07:42:00.004+01:002009-01-02T19:24:56.153+01:00Da un messaggio all'altroL'orizzonte<br />Da un messaggio all’altro di John Berger<br /><br />In una recente conferenza sulla poesia, la meravigliosa poetessa americana Adrienne Rich ha fatto notare che “quest’anno un rapporto dell’ufficio statistiche del ministero della giustizia statunitense rileva che su 136 residenti negli Stati Uniti uno è dietro le sbarre e molti sono detenuti in attesa di giudizio o di un processo”. Nel corso della stessa conferenza ha citato il poeta greco Yannis Ritsos: Nel campo l’ultima rondine ha indugiato a lungo, bilanciandosi nell’aria come un nastro nero sulla manica dell’autunno Non è rimasto nient’altro. Solo le case incendiate che ancora bruciano. <br />*<br />Suona il telefono e, appena sollevato il ricevitore, so che dall’altra parte ci sei tu, che mi chiami dal tuo appartamento di via Paolo Sarpi (due giorni dopo i risultati elettorali e il ritorno in scena di Berlusconi). La rapidità con cui identifichiamo una voce familiare che giunge all’improvviso è confortante, ma anche un po’ misteriosa. Perché le misure, le unità, di cui ci serviamo per calcolare la netta differenza che esiste tra una voce e l’altra, sono indefinite e oscure. Non hanno un codice. Di questi tempi sempre più cose sono codificate. Perciò mi chiedo se non ci siano altri strumenti di misura, altrettanto non codificati e tuttavia precisi, con cui calcoliamo altri dati. Per esempio, la quantità di libertà circostanziata esistente in una data situazione, la sua ampiezza e i suoi limiti esatti. I detenuti diventano esperti in materia. Sviluppano una sensibilità particolare nei confronti della libertà, non come principio, ma come sostanza granulare. Quando se ne presenta un frammento, loro lo riconoscono quasi istantaneamente.<br />*<br />In una giornata ordinaria, quando non succede niente e le crisi annunciate di ora in ora sono quelle di sempre (e tanto per cambiare i politici dichiarano che senza di loro sarebbe la CATASTROFE), passando accanto a qualcuno può succedere di scambiarsi un rapido sguardo. Alcune di queste occhiate servono a verificare se anche gli altri immaginino la stessa cosa quando si dicono: allora questa è la vita! Spesso stanno immaginando la stessa cosa e in questa condivisione primaria c’è una specie di solidarietà che precede ogni parola o scambio di opinioni. Cerco le parole per descrivere il periodo storico che stiamo vivendo. Dire che non ha precedenti non significa molto, perché, da quando si è scoperta la Storia, ogni periodo è stato senza precedenti! Non sono alla ricerca di una definizione complessa del periodo che stiamo attraversando, perché non mancano i pensatori, tra cui Zygmunt Bauman, che si sono assunti questo compito essenziale. Sto semplicemente cercando un’immagine che funzioni da punto di riferimento. I punti di riferimento non si spiegano fino in fondo, ma ci offrono un terreno comune. In questo senso somigliano ai taciti presupposti contenuti nei proverbi popolari. Senza punti di riferimento si corre l’enorme rischio umano di girare a vuoto.<br />*<br />Il punto di riferimento che ho trovato è quello della prigione. Niente di meno. In tutto il pianeta viviamo in una prigione. La parola “noi”, stampata o pronunciata sugli schermi, è ormai sospetta, perché chi ha potere la usa di continuo affermando demagogicamente di parlare anche a nome di chi non ne ha. Per parlare di noi usiamo dunque il “loro”. Loro vivono in una prigione. Che genere di prigione? Come è fatta? Dove si trova? O sto usando la parola solo come una figura del discorso? No, non è una metafora, la reclusione è reale, ma per descriverla bisogna pensare in termini storici. Che genere di prigione? Michel Foucault ha dimostrato in modo vivido che il penitenziario è un’invenzione del tardo settecento, inizi dell’ottocento, strettamente connessa alla produzione industriale, alle sue fabbriche e alla sua ilosoia utilitaristica. Prima di allora le carceri erano estensioni della gabbia e della segreta. Quel che distingue il penitenziario è il numero di prigionieri che vi si possono ammassare, e il fatto che sono tutti sotto costante sorveglianza (merito del modello del Panopticon ideato da Jeremy Bentham, che introdusse nell’etica il principio della contabilità). La contabilità richiede che si prenda nota di ogni transazione. Da qui vengono le pareti circolari dei penitenziari, le celle disposte a cerchio e, al centro, la torre di guardia del sorvegliante. Bentham, che all’inizio dell’ottocento ebbe come discepolo John Stuart Mill, fu il principale apologeta utilitarista del capitalismo industriale. Oggi, nell’era della globalizzazione, il mondo è dominato dal capitale finanziario, non da quello industriale, e i dogmi che definiscono la criminalità e le logiche carcerarie sono radicalmente cambiati. I penitenziari esistono ancora e ne vengono costruiti ogni giorno di più. Adesso, però, le pareti della prigione servono a uno scopo diverso. Quello che costituisce un’area di carcerazione si è trasformato.<br />*<br />Venticinque anni fa Nella Bielski e io abbiamo scritto A question of geography, un dramma sul gulag. Nel secondo atto, uno zek, un prigioniero politico, parla con un nuovo arrivato di scelta, dei limiti delle scelte possibili in un campo di lavoro. Quando ti trascini dopo una giornata di lavoro nella taiga e rientri mezzo morto di fatica e di fame, ti viene data la tua razione di zuppa e di pane. Per la zuppa non hai scelta: va mangiata finché è calda o almeno tiepida. Per i quattrocento grammi di pane una scelta ce l’hai. Per esempio, puoi tagliarlo in tre pezzettini: uno da mangiare adesso con la minestra, uno da succhiare tra i denti prima di addormentarti nella tua cuccetta, il terzo da serbare fino alla mattina dopo alle dieci, quando lavori nella taiga e il vuoto nello stomaco pesa come una pietra. Svuoti una carriola piena di sassi. Finché devi spingerla fino alla fossa non hai scelta. Adesso che è vuota una scelta ce l’hai. Puoi riportarla indietro come ce l’hai portata oppure – se sei intelligente, e la sopravvivenza ti rende intelligente – puoi spingerla tenendola quasi diritta. Se scegli questo secondo modo, fai riposare le spalle. Se sei uno zek e diventi caposquadra, puoi scegliere di atteggiarti a guardiano o di non dimenticare mai che sei uno zek. Il gulag non esiste più. Tuttavia milioni di persone lavorano in condizioni che non sono poi così diverse. Quel che è cambiato è la logica giudiziaria applicata a lavoratori e criminali. Durante il gulag i prigionieri politici, classificati come criminali, erano ridotti a forzati. Oggi milioni di lavoratori sfruttati in modo brutale vengono ridotti allo status di criminali. L’equazione del gulag, criminale = forzato, è stata riscritta dal neoliberismo ed è diventata: lavoratore = criminale latente. L’intero dramma della migrazione globale si esprime in questa nuova formula: chi lavora è un criminale in potenza. Davanti alla legge, è riconosciuto colpevole di tentare a tutti i costi di sopravvivere. Quindici milioni di messicani, donne e uomini, lavorano negli Stati Uniti senza documenti e sono di conseguenza illegali. Lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico sono in progetto un muro di cemento di 1.200 chilometri e un muro “virtuale” di 1.800 torri di guardia. Comunque i modi per aggirarli – tutti pericolosi – si troveranno di certo. Tra capitalismo industriale, dipendente dalla produzione e dalle fabbriche, e capitalismo finanziario, dipendente dalle speculazioni del libero mercato e dagli operatori che gestiscono l’interazione con il cliente (le transazioni finanziarie speculative ammontano, ogni giorno, a 1.300 miliardi di dollari: cinquanta volte più del totale degli scambi commerciali), l’area di carcerazione è cambiata. Adesso la prigione è grande come il pianeta e le sue zone assegnate variano e possono essere definite luogo di lavoro, campo profughi, centro commerciale, periferia, complesso di uffici, favela, sobborgo… La cosa essenziale è che quelli che sono reclusi in queste zone sono compagni di prigionia. <br />*<br /> È la prima settimana di maggio e sul fianco delle colline e sui monti, lungo i viali e intorno ai cancelli, nell’emisfero settentrionale, le foglie di buona parte degli alberi stanno spuntando. Non soltanto tutte le loro diverse varietà di verde sono ancora distinte, si ha anche la sensazione che ogni singola foglia sia diversa, e così ci si trova di fronte a miliardi (la parola è stata corrotta dai dollari), no, non miliardi: a un’infinita moltitudine di nuove foglie. Per i prigionieri, i piccoli segni visibili della continuità della natura sono sempre stati, e continuano a essere, un incoraggiamento segreto.<br />*<br />Oggi lo scopo di buona parte dei muri della prigione (di cemento, elettronici, pattugliati o inquisitori) non è tener dentro i prigionieri e rieducarli, ma tenerli fuori ed escluderli. La maggior parte degli esclusi sono senza nome. Da questo deriva l’ossessione per l’identità di tutte le forze di sicurezza. Gli esclusi sono anche senza numero. Per due ragioni. Primo perché il loro numero fluttua: ogni carestia, disastro naturale e intervento militare (ora chiamato mantenimento dell’ordine!) riduce o aumenta la loro moltitudine. Secondo, perché stimarne il numero significa affrontare il fatto che loro costituiscono la maggioranza degli esseri viventi sulla faccia della terra. E guardare in faccia questa realtà vuol dire precipitare nell’assoluta assurdità.<br />*<br />Liberare i piccoli prodotti dalla loro confezione è – lo avrete notato – sempre più difficile. Qualcosa di simile è successo con le vite di chi ha un impiego remunerativo. Chi ha un lavoro legale e non è povero, vive in uno spazio ridottissimo che gli permette un numero sempre minore di scelte, salvo la continua scelta binaria tra ubbidienza e disubbidienza. Il suo orario di lavoro, il suo luogo di residenza, le sue competenze e la sua esperienza passata, la sua salute, il futuro dei suoi figli, tutto quel che esula dalla sua funzione di dipendente deve occupare una piccola posizione di secondo piano rispetto alle esigenze enormi e imprevedibili del Profitto liquido. Inoltre la Rigidità di questa “regola della casa” è chiamata Flessibilità. In prigione le parole cambiano di segno. In Giappone l’allarmante pressione delle condizioni di lavoro di alto livello ha di recente obbligato i tribunali a riconoscere e definire la nuova categoria legale di “morte da superlavoro”. Non esiste altro sistema, viene detto a chi ha un impiego remunerativo. Non c’è alternativa. Prendete l’ascensore. L’ascensore è una piccola cella.<br />*<br />“Les peuples n’ont jamais que le degré de liberté que leur audace conquiert sur la peur”("Le persone non hanno che il grado di libertà che gli consente la loro audacia che sovrasta la loro paura" ).–Stendhal. Osservo una bimba di cinque anni che prende lezioni di nuoto in una piscina comunale coperta. Indossa un costume blu scuro. Sa già nuotare, ma non si sente ancora abbastanza sicura per farlo senza sostegno. L’istruttrice la porta sul lato della piscina dove non si tocca. La bambina deve saltare nell’acqua afferrandosi a una lunga bacchetta che l’insegnante tiene tesa verso di lei. È un modo di aiutarla a vincere la paura dell’acqua. Ieri hanno fatto la stessa cosa. Oggi l’istruttrice vuole che la bambina salti senza aggrapparsi alla bacchetta. Uno, due, tre! La bimba salta, ma all’ultimo momento afferra l’asta. Nessuna delle due dice niente, ma si scambiano un vago sorriso. Intrepida la ragazzina, paziente la donna. La bambina esce dall’acqua arrampicandosi sulla scaletta e torna sul bordo della piscina. “Lasciami saltare di nuovo!”, dice. La donna fa un cenno di assenso. La bimba inspira, sibilando, e salta, le mani lungo i ianchi, senza afferrarsi a niente. Quando riemerge, la punta della bacchetta è lì proprio davanti al suo naso. Fa due bracciate fino alla scaletta senza toccarla. Brava! Nell’istante in cui la bambina è saltata in acqua senza la bacchetta, nessuna delle due era in prigione.<br />*<br />Osservate la struttura del potere senza precedenti che circonda il mondo, e come funziona la sua autorità. Ogni tirannia scopre e improvvisa il proprio insieme di controlli. Ed è per questo che spesso, al principio, non ci accorgiamo che si tratta di controlli viscosi. Le forze del mercato che dominano il mondo asseriscono di essere inevitabilmente più forti di qualsiasi stato-nazione. Questa asserzione è confermata ogni istante. Da una telefonata non richiesta per convincere l’abbonato a sottoscrivere una nuova assicurazione sanitaria o pensione privata fino al più recente ultimatum dell’Organizzazione mondiale del commercio. Il risultato è che la maggior parte dei governi non governa più. Un governo non procede più nella direzione che si è scelto. La parola orizzonte, con la sua promessa di un futuro in cui sperare, è svanita dal discorso politico, a destra e a sinistra. La sola cosa ancora aperta alla discussione è come misurare quel che c’è. I sondaggi d’opinione rimpiazzano l’orientamento e si sostituiscono al desiderio. La maggior parte dei governi ammassa il branco invece di governare (nello slang carcerario degli Stati Uniti, mandriani è uno dei tanti nomi con cui sono chiamati i secondini). Nel settecento alla pena della carcerazione a lungo termine si dava con tono di approvazione la definizione di “morte civile”. Tre secoli dopo, i governi stanno imponendo con la legge, la forza, le minacce economiche e il loro brusio mediatico, regimi di massa di “morte civile”.<br />*<br />Vivere sotto una qualsiasi tirannide del passato non era forse una forma di carcerazione? Non nel senso che sto descrivendo. Quel che viviamo oggi è nuovo, per via del rapporto che ha con lo spazio. È qui che il pensiero di Zygmunt Bauman è illuminante. Egli mostra che le forze del mercato finanziario che oggi governano il mondo sono extraterritoriali, vale a dire “libere dalle costrizioni territoriali, le costrizioni della località”. Sono perennemente remote, anonime e dunque non devono preoccuparsi delle conseguenze fisiche, territoriali delle loro azioni. Bauman cita Hans Tietmeyer, presidente della banca federale tedesca: “La posta odierna è creare condizioni favorevoli alla fiducia degli investitori”. La sola e suprema priorità. Ne consegue che il controllo delle popolazioni mondiali, composte di produttori, consumatori e poveri emarginati, è il compito assegnato ai docili governi nazionali. Il pianeta è una prigione e i governi ubbidienti, di destra o di sinistra, sono i mandriani.<br />*<br />Il sistema-prigione opera grazie al ciberspazio. Il ciberspazio offre al mercato una rapidità di scambio pressoché istantanea, in funzione ventiquattr’ore su ventiquattro in tutto il mondo per commerciare. Da questa rapidità, da questa velocità, la tirannia del mercato ottiene la sua licenza extraterritoriale. Una simile velocità, tuttavia, ha un effetto patologico su quelli che la praticano: li anestetizza. Qualunque cosa succeda, business as usual. Quella velocità non lascia spazio al dolore: forse alle sue avvisaglie, ma non alla sofferenza. Di conseguenza, la condizione umana è bandita, esclusa, da chi fa funzionare il sistema, che è solo, perché non ha cuore. In passato i tiranni erano spietati e inaccessibili, ma facevano parte del vicinato ed erano esposti al dolore. Non è più così, e in questo sta il probabile punto debole del sistema.<br />*<br />“I portoni si richiudono Siamo nel cortile della prigione in una nuova stagione”.–Tomas Transtömer. Loro (noi) sono compagni di prigionia. Questo riconoscimento, con qualunque tono di voce lo si dichiari, contiene un rifiuto. Da nessuna parte più che in prigione il futuro è conteggiato e atteso come qualcosa di assolutamente opposto al presente. Chi è in carcere non accetterà mai che il presente sia definitivo. Nel frattempo, come vivere questo presente? Che conclusioni trarre? Che decisioni prendere? Come agire? Adesso che il punto di riferimento è stato fissato, ho qualche indicazione da suggerire. Di qua dai muri si dà retta all’esperienza, nessuna esperienza è considerata obsoleta. Qui la sopravvivenza è rispettata ed è inutile dire che spesso dipende dalla solidarietà tra compagni di prigionia. Le autorità lo sanno, ecco perché ricorrono all’isolamento, attraverso la segregazione fisica o il loro brusio mediatico, per disconnettere le vite individuali dalla storia, dal lascito del passato, dalla terra e, soprattutto, da un futuro comune. Ignorate le chiacchiere del carceriere. Ovviamente, tra i carcerieri, ce ne sono di cattivi e di meno cattivi. In certe condizioni è utile notare la differenza. Ma quel che dicono – anche i meno infami – sono cazzate. I loro inni, le loro shibboleth (1), le loro parole di legno, per esempio Sicurezza, Democrazia, Identità, Civiltà, Flessibilità, Produttività, Diritti umani, Integrazione, Terrorismo, Libertà, sono ripetuti all’infinito per confondere, dividere, distrarre e sedare tutti i compagni di prigionia. Di qua dai muri, le parole dei carcerieri sono prive di significato e non aiutano più a pensare. Non portano da nessuna parte. Rifiutatele anche quando riflettete in silenzio per conto vostro. I prigionieri, al contrario, pensano servendosi di un vocabolario tutto loro. Molte parole sono tenute segrete e molte sono locali e hanno un’infinità di varianti. Parole e frasi brevi, brevi eppure capaci di contenere un mondo, come: lascia-che-ti-mostri, certe-volte-mi-chiedo, passerotto, nell’ala-B-sta-succedendo- qualcosa, spogliato, prendi-questo-piccolo-orecchino, caduti-per-noi, provaci, eccetera.<br />*<br />Tra i compagni di prigionia non mancano i conflitti, a volte violenti. Tutti i prigionieri sono deprivati, eppure ci sono diversi gradi di deprivazione e le differenze di grado suscitano invidia. Di qua dai muri la vita vale poco. Il fatto stesso che la tirannide globale sia senza volto incoraggia la ricerca di capri espiatori, di nemici immediatamente identificabili, tra gli altri reclusi. Allora le celle soffocanti diventano un manicomio. I poveri aggrediscono i poveri, chi è stato invaso saccheggia l’invasore. I compagni di prigionia non andrebbero idealizzati. Senza idealizzare, prendete semplicemente nota che quel che hanno in comune – la loro inutile sofferenza, la loro resistenza, la loro scaltrezza – è più significativo, più eloquente, di quel che li separa. È a partire da qui che si creano nuove forme di solidarietà. Le nuove solidarietà iniziano con il reciproco riconoscimento delle differenze e della molteplicità. Se questa è vita! Una solidarietà, non di massa ma reticolare, di gran lunga più appropriata alle condizioni di vita in carcere.<br />*<br />Le autorità fanno sistematicamente del loro meglio per tenere i compagni di prigionia male o poco informati su quel che succede altrove nella prigione del mondo. Non indottrinano nel senso aggressivo del termine. L’indottrinamento è riservato alla formazione di una piccola élite di operatori ed esperti di management e mercato. Riguardo alla massa della popolazione carceraria lo scopo è non attivarla, bensì tenerla in uno stato di insicurezza passiva, per ricordarle senza rimorsi che nella vita non c’è altro che rischio e che la terra è un posto pericoloso. Lo si fa mescolando informazioni accuratamente selezionate, informazioni sbagliate, commenti, dicerie, storie inventate di sana pianta. Nella misura in cui riesce, l’operazione propone e alimenta un paradosso allucinante, poiché spinge la popolazione carceraria a credere che per ognuno dei suoi membri la priorità sia organizzare la propria difesa personale e ottenere in qualche modo, nonostante il comune stato di reclusione, la propria speciale esenzione dal destino collettivo. L’immagine dell’umanità che ci viene trasmessa dalla visione del mondo è ancora una volta senza precedenti. L’umanità è presentata come una massa di codardi: solo i vincenti sono coraggiosi. Inoltre non ci sono regali: ci sono solo premi. I prigionieri hanno sempre trovato dei sistemi per comunicare tra loro. Nell’attuale prigione globale il ciberspazio può essere usato contro gli interessi di chi lo ha originariamente installato. In questo modo, i reclusi raccolgono informazioni su quel che il mondo fa ogni giorno e ricostruiscono le storie del passato, trovandosi così fianco a fianco con i morti. Nel farlo, riscoprono piccoli doni, esempi di coraggio, un’unica rosa in una cucina dove non c’è abbastanza da mangiare, dolori indelebili, l’instancabilità delle madri, risate, aiuto reciproco, silenzio, una resistenza che continua a crescere, il sacrificio volontario, altre risate... I messaggi sono brevi, ma si protraggono nella solitudine delle loro (nostre) notti.<br /> *<br />L’indicazione finale non è tattica, ma strategica.Il fatto che i tiranni del mondo siano extraterritoriali spiegala misura della loro capacità di sorveglianza, ma indica ancheuna debolezza a venire. Operano nel ciberspazio e abitano incondomini strettamente vigilati. Non sanno niente della terrache li circonda. Né vogliono conoscerla, perché a sentir loro si tratta di un sapere superficiale, senza profondità. Contano solo le risorse che ne estraggono. Non possono prestare ascolto alla terra. Sul terreno sono ciechi. Nello spazio fisico e locale sono persi. Per i compagni di prigionia è vero il contrario. Le celle hanno pareti che si toccano da una parte all’altra del mondo. Gli atti concreti di resistenza prolungata si radicheranno nel locale, vicino e lontano. Resistenza dell’outback (2), del dietro l’oltre,dando ascolto alla terra. Lentamente la libertà viene ritrovata non all’esterno, ma nel cuore della prigione.<br />*<br />Non solo ho immediatamente riconosciuto la tua voce, che mi parlava dal tuo appartamento di via Paolo Sarpi, ma grazie alla tua voce sono riuscito anche a intuire come ti sentivi. Ho percepito la tua esasperazione o, piuttosto, una resistenza esasperata che si combinava – e questo è così tipico di te – con i passi veloci della nostra prossima speranza. <br /><br />(1) Shibboleth è un termine di origine biblica usato per identiicare imembri di un gruppo. In linguistica indica una parola o un’espressione difficile da pronunciare per alcuni parlanti che, a causa delle limitazioni fonetiche tipiche di alcune lingue, possono facilmente essere identificati chiedendogli di pronunciare una determinata parola. Nel linguaggio moderno ha acquisito significato più ampio e indica persone unite da interessi comuni, come certi gruppi giovanili per i quali il linguaggi particolare diventa un simbolo d’appartenenza che automaticamente esclude l’accesso a ogni realtà esterna.<br />(2) Il nome outback si riferisce, genericamente, alle aree interne più remote del continente australiano. L’outback non ha conini ben precisi ed è una regione ideale più che geograica.<br /><br />John Berger è uno scrittore, sceneggiatore e giornalista britannico.<br />Nato a Londra nel 1926, ha scritto E i nostri volti, amore<br />mio, leggeri come foto (Bruno Mondadori 2008), Abbi cara<br />ogni cosa. Scritti politici 2001-2007 (Fusi orari 2007), Qui,<br />dove ci incontriamo (Bollati Boringhieri 2005). Il titolo originale<br />di questo testo è One message leading to another. La traduzione<br />dall’inglese è di Maria Nadotti.<br /><br />Internazionale n.776<br /><br />da: http://circolopasolini.splinder.com/post/19432466/L%27orizzontedelinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-48577940472658323362008-12-31T14:00:00.002+01:002008-12-31T16:00:50.050+01:00Dove sono finiti i nostri soldiLa crisi finanziaria ha "bruciato" 2.800 miliardi di dollari. Erano anche i nostri soldi. Bruciati vorrebbe dire svaniti. Ma svaniti non sono. In questo prezioso reportage pubblicato su "Internazionale" e ripreso da Die Zeit, si indaga su dove siano finiti: pare si siano materializzati in case vuote e invendute. Ma guarda. Lo sostenavamo da tempo anche noi pur non essendo fini analisti dell'alta finanza, piuttosto osservatori della bassa speculazione edilizia. <br /><br />Dove sono finiti i soldi di Kerstin Kholenberg e Wolfang Uchatius <br /><br />Nel pomeriggio del 31 ottobre, al secondo piano di una villa dipinta di giallo nel centro di Francoforte sul Meno, arriva un fax. Sono cinque pagine: sulla prima c’è l’intestazione della Commerzbank, sull’ultima la irma di Martin Blessing, l’amministratore delegato dell’istituto di credito. Sulle altre spicca una cifra: 8,2 miliardi di euro. è la richiesta della Commerzbank al Sofin, il fondo speciale creato dalla Repubblica Federale Tedesca per soccorrere gli istituti finanziari. Il 17 novembre, alle 9.30, in una sala conferenze nei pressi del parco Englischer Garten di Monaco di Baviera, Axel Wieandt, amministratore delegato della Hypo Real Estate, è collegato con gli analisti bancari di tutto il mondo. Wieandt parla per un’ora della situazione interna della banca: nel terzo trimestre del 2008 la Hypo Real Estate ha perso tre miliardi di dollari. Quanto durerà la crisi? Secondo la Banca d’Inghilterra, gli istituti finanziari di tutto il mondo hanno già perso 2.800 miliardi di dollari. Spesso si sente dire che questi soldi sono “andati in fumo”, “spariti” o “bruciati”. E la distruzione di denaro continua. Quante saranno le perdite? Nessuno lo sa. Ma forse si può già dare una risposta all’interrogativo più interessante: dove sono finiti quei 2.800 miliardi di dollari? In realtà il denaro sparisce raramente. Spesso, invece, cambia proprietario. <br />In Germania la domanda potrebbe essere rivolta a molte persone: economisti, consulenti patrimoniali, guru della borsa. Ma c’è un uomo che sembra più adatto di altri a rispondere, perché è uno dei pochi che hanno capito cosa sia successo in questi ultimi anni nel mondo dell’economia. Si chiama Max Otte. è appena tornato da Francoforte sul Meno, dove ha tenuto una conferenza. Ma sta già per ripartire: va a Vienna, dove è invitato in tv. In questo momento è molto richiesto. <br /> Otte si è ritagliato un pomeriggio libero tra i numerosi impegni per riceverci nel suo appartamento di Colonia. Si toglie la giacca e allenta il nodo della cravatta. Due anni fa era ancora uno sconosciuto professore di economia dell’università di Worms. All’epoca, se accendeva la tv, vedeva dappertutto colleghi secondo i quali il boom avrebbe retto e i prezzi delle azioni sarebbero saliti ancora. Otte non era d’accordo: era convinto che il mondo stesse andando verso una catastrofe economica. Così scrisse un libro in cui prevedeva il crollo delle borse, il crac delle banche e il rischio di fallimento della General Motors. “Se leggo correttamente i segnali che l’economia mondiale ci lancia, dico che il crollo ci sarà per forza e che avrà conseguenze devastanti”, scriveva Otte. Il suo libro, che s’intitola Der Crash kommt (Arriva il crac), è uscito nella primavera del 2006 e ha venduto bene, ma non è diventato un best seller. Poi è arrivato il crac, e da allora Otte è diventato l’uomo che sapeva tutto. Le vendite del libro hanno già superato le duecentomila copie. E tra poco uscirà anche un’edizione in cinese. Allora, dove sono finiti i soldi? Otte ci pensa su e poi risponde: “Innanzitutto bisogna andare negli Stati Uniti, nei quartieri residenziali alla periferia delle grandi città, e dare un’occhiata alle case”. Per esempio quella di Mantua avenue 70 a Henderson, una cittadina del Nevada. è una villa in cui si respira profumo di Toscana: tegole di terracotta, persiane di legno, una veranda coperta, piccoli pini nel giardino davanti alla casa. Guardando in lontananza si scorgono i casinò di Las Vegas che scintillano al sole. Accanto c’è un’altra villa, poi un’altra e un’altra ancora. Il complesso residenziale si chiama Inspirada. <br /> Qui ci sono centinaia di case pronte per essere abitate ma vuote, ed edifici non ancora initi. Sono allineati lungo decine di strade che si chiamano via delle Arti o viale Palazzo reale. Strade che dovevano portare negli Stati Uniti un pezzetto d’Italia e che invece portano nel deserto. Prima che l’impresa immobiliare Toll Brothers cominciasse a investire qui milioni di dollari, questo appezzamento di terreno era un mucchio di sabbia con qualche cactus. In quest’area ai margini di Las Vegas grande 790 ettari, cioè come 1.400 campi di calcio, sono stati investiti 550 milioni di dollari. E altrettanti ne sono stati spesi per fare le strade, i vialetti e le fognature. La villa dei sogni Un’agente apre la porta della villa al numero 70. Sono dieci anni che lavora per i fratelli Toll. Dieci anni in cui a lei e a Las Vegas è andata bene. Indica il pavimento di marmo: 15mila dollari. Il piano di lavoro di granito: 1.300 dollari. La scala di legno di ciliegio: 3.500 dollari. La Jacuzzi nel bagno: 1.250 dollari. “Mi chiamo Bob Toll”. La voce viene da un televisore del soggiorno. Sull’ampio schermo piatto scorre senza interruzione un video pubblicitario dei fratelli Toll. Clienti soddisfatti raccontano quanto sono felici nella casa dei loro sogni. Ma nessuno li ascolta più. Per questa casa la Toll Brothers chiede 600mila dollari, dice l’agente, ma trattabili: ci si accontenta di recuperare i costi. Eppure non si presenta nessuno. Né in questa strada né altrove. Il denaro dei fratelli Toll è rimasto congelato nelle case. La risposta al primo interrogativo su dove sono finiti i soldi la troviamo qui: in una città fantasma vicino a Las Vegas. In Nevada le case in vendita sono 22mila. In tutti gli Stati Uniti ci sono 4 milioni e 670mila case e appartamenti vuoti che nessuno vuole. Ognuno è costato in media 212mila dollari. In totale fanno 990 miliardi di dollari rimasti murati nelle pareti e nei pavimenti. Per dieci anni le imprese edili statunitensi hanno costruito centri residenziali formati da migliaia di cosiddette Mc- Mansions: villette unifamiliari con cinque camere da letto, scalinata, lampadari a corona e porticati a colonne. Per dieci anni hanno fatto ottimi affari, perché per tutto questo tempo gli statunitensi hanno comprato qualsiasi cosa avesse quattro mura. I soldi li hanno avuti dalle banche. <br /><br />A questo proposito è bene ricordare che dare e prendere in prestito è la base di ogni sistema inanziario. Il credito è la più antica idea commerciale del capitalismo. Il privato A si fa prestare dalla banca B un importo in denaro che poi restituisce con un’aggiunta: l’interesse. Un buon affare per entrambe le parti. La banca incassa gli interessi e realizza un guadagno. Con il denaro preso in prestito, A può comprare qualcosa che altrimenti non sarebbe alla sua portata, per esempio una casa. L’unica condizione è che A possa restituire il prestito. Donne di servizio e braccianti Negli ultimi anni tutti negli Stati Uniti hanno potuto prendere soldi in prestito: i tassi d’interesse non erano mai stati così bassi. La domanda di case è aumentata e di conseguenza anche i prezzi. E dal momento che i prezzi sono aumentati, gli agenti immobiliari hanno cominciato a rivolgersi a donne di servizio e braccianti che guadagnavano cinque dollari all’ora. E gli hanno detto: se comprate una casa che vale duecentomila dollari e non potete restituire i soldi del mutuo, non fa niente, perché i prezzi stanno salendo e tra cinque anni la vostra casa varrà trecentomila dollari. A quel punto potrete offrirla in garanzia per chiedere un nuovo mutuo e pagare quello vecchio. Niente può andare storto. Così donne di servizio e braccianti sono andati dalle banche, che gli hanno fatto credito. Era un affare in cui tutti ci guadagnavano. Ma a condizione che i prezzi salissero. Ecco perché le imprese hanno costruito sempre più case: un milione e duecentomila all’anno. E, per comprarle, sempre più persone hanno preso dei soldi in prestito. Finché non è successo quello che Robert Shiller, economista dell’università di Yale, ha descritto in termini lapidari: “La colossale offerta di case nuove ha cominciato a saturare il mercato, e i prezzi degli immobili sono scesi precipitosamente”. <br /><br />All’improvviso milioni di statunitensi non hanno più ottenuto nuovi prestiti per finanziare i loro vecchi mutui ipotecari. E le banche americane si sono rese conto che non avrebbero più rivisto molti dei soldi prestati. Il denaro è rimasto congelato nelle proprietà immobiliari invendibili. E sta nelle tasche degli agenti immobiliari e di quei proprietari che sono riusciti a vendere le loro case prima che i prezzi scendessero. I soldi stanno nelle mani dei fabbricanti di cemento, dei manovratori di escavatrici e dei muratori, che con questi soldi hanno forse comprato automobili giapponesi, frigoriferi tedeschi o giocattoli cinesi per i loro bambini. Ma ora quel denaro manca alle banche americane, non alle finanziarie tedesche, britanniche o svizzere. <br /><br />Le banche statunitensi si sono fatte fregare da una serie di speculazioni sbagliate. Ma come mai sono stati gli istituti inanziari di tutto il mondo ad accumulare perdite per 2.800 miliardi di dollari? Com’è successo che per via di alcune case che non si riescono a vendere nel deserto del Nevada, la Commerzbank ha bisogno di un’iniezione di capitali di 8,2 miliardi di euro? Banche d’investimento Max Otte aveva detto che per capire come la crisi avrebbe potuto estendersi, occorreva puntare lo sguardo sull’industria inanziaria, un settore formato innanzitutto dalle banche d’investimento: istituti come Goldman Sachs, J.P. Morgan, Morgan Stanley o Lehman Brothers, i cui affari ruotano prevalentemente intorno alle azioni, alle opzioni e ai contratti a termine. In realtà queste banche non fanno niente di diverso dai fabbricanti di telefonini, che costruiscono modelli sempre più soisticati. Allo stesso modo le banche d’investimento cercano continuamente nuovi titoli. Come i produttori di cellulari, vogliono una sola cosa: vendere i loro prodotti. E il prodotto che ha provocato la diffusione della crisi in tutto il mondo si chiama mortgage backed security. Il primo che lo ha venduto è stato Lewis Ranieri, un banchiere di origini italiane che viene da Brooklyn, New York. Sono i giorni della crisi e le file di poltrone nere che ricoprono le ripide gradinate del Piper auditorium dell’università di Harvard sono tutte occupate quando Ranieri sale sul podio. Ha sessant’anni, i capelli e la barba sono diventati grigi. Ma la pancia, in cui in passato – così si racconta a Wall street – riversava quantità smisurate di fast food, è rimasta la stessa. Ranieri è venuto a Harvard per spie sagare come tutto sia partito dalla sua invenzione. Posa davanti a sé il discorso che ha preparato e inspira. Poi però si ferma ed esclama: “Parlerò a braccio”. Pronuncia quelle parole con l’accento aperto dei lavoratori newyorchesi. Perché Ranieri non ha studiato a Harvard né a Stanford né a Princeton. Anzi, non ha studiato per niente. Eppure ha fatto più strada dei banchieri provenienti dalle università d’élite. Nel 1968, quando aveva vent’anni, lavorava come fattorino nella banca d’investimento newyorchese Salomon Brothers. Organizzava la posta interna in modo così efficiente che la banca gli offrì un posto di venditore di titoli. “Era disordinato, spaccone e sfacciato”, ricorda un suo ex collega, “ma aveva il fascino di un uomo che vuole farsi amare”. Nel 1978 Ranieri riuscì a diventare capo della divisione mutui ipotecari, che la Salomon Brothers aveva messo in piedi da poco. All’epoca le banche ipotecarie statunitensi avevano distribuito prestiti in tutto il paese per un valore di 1.200 miliardi di dollari. Il settore dei mutui ipotecari era diventato più grande dell’intero mercato azionario americano. Ma mentre le azioni potevano far guadagnare milioni di persone, nell’affare dei mutui ipotecari le parti erano solo due: il denaro andava dalla banca B al privato A, e poi tornava da A a B. Ranieri cambiò tutto. Rese il mercato dei prestiti ipotecari una specie di colossale borsa dove ognuno poteva comprare in qualsiasi momento delle partecipazioni ai mutui. Ranieri trasformò il prestito che il privato A otteneva dalla banca statunitense B in un titolo che poteva essere rivenduto alla banca tedesca C, alla banca britannica D e alla banca svizzera E. Non solo: pensò di riunire tanti singoli mutui in un grosso pacchetto da cui poter poi tagliare delle fette da rivendere. Queste sono le mortgage backed securities, cioè le obbligazioni garantite da ipoteche. <br /><br />Da allora solo formalmente chi compra case restituisce il mutuo ipotecario alla banca che lo ha erogato: di fatto il denaro finisce in tasca a chi ha ricomprato i titoli ipotecari. Cioè a banche di tutto il mondo, assicurazioni, fondi d’investimento e clienti dei fondi, che comprando hanno scommesso sul fatto che il maggior numero possibile di persone sia in grado di ripagare i debiti contratti. In teoria è un buon affare per tutti. Chi ha chiesto il mutuo può comprarsi una casa, l’acquirente di titoli incassa gli interessi e la banca ipotecaria non deve aspettare anni prima di rientrare in possesso del denaro che ha prestato. E avendo venduto il credito, può concederne uno nuovo. All’inizio è andato tutto a meraviglia: le mortgage backed securities di Ranieri diventarono campioni di vendite, e nell’affare entrarono altre banche d’investimento. I titoli erano richiestissimi da istituti inanziari e da investitori di tutto il mondo: la tedesca Deutsche Bank, la svizzera Ubs, la francese Crédit Agricole, la britannica Royal Bank of Scotland, il gruppo giapponese Mizuho. A un certo punto negli Stati Uniti la domanda di mortgage backed securities ha superato il valore dei veri e propri mutui ipotecari. Quindi occorreva emetterne di più. Così le banche hanno abbassato i criteri per l’erogazione dei mutui: hanno smesso di chiedere ai clienti la garanzia di un capitale di proprietà e di un buon reddito. Hanno cominciato a interessarsi alle donne delle pulizie e ai braccianti. In fondo, perché mai un disoccupato non doveva comprarsi tre case? Questo tipo di mutui è stato denominato subprime, di seconda scelta. <br /><br />Negli anni compresi tra il 2000 e il 2005 il loro volume è aumentato di 495 miliardi di dollari, ino a raggiungere i 625 miliardi. Impacchettati insieme ai crediti di prima scelta concessi a clienti solvibili come medici o avvocati, anche i mutui subprime sono stati trasformati in titoli. Nuovi prodotti “All’epoca, quando abbiamo inventato il sistema”, sottolinea Ranieri con rabbia, “comprarsi una casa era una decisione che si prendeva una sola volta nella vita”. Dopo è diventata una scommessa sull’aumento dei prezzi degli immobili. “Ma i prezzi possono scendere, anche se per molto tempo noi non ci abbiamo voluto credere”. Mentre le donne delle pulizie e i braccianti speculavano sul futuro, le banche d’investimento inventavano nuovi prodotti inanziari che nascondevano i rischi colossali di quelle ipoteche. Quello che in condizioni normali si sagare rebbe dovuto chiamare “imbroglio” portava nomi complicati come collateral debt obligations o credit default swaps. Si trattava di titoli privi di qualsiasi fondamento economico, ha scritto Wolfgang Münchau, giornalista del Financial Times. Tranne uno: “Le banche d’investimento che li mettono sul mercato riscuotono enormi provvigioni”. Queste entrate hanno fatto salire i profitti delle banche d’investimento e sono arrivate nelle tasche dei dipendenti degli istituti di credito sotto forma di bonus. Nel 2005 la Goldman Sachs, una dalle più antiche banche d’investimento di Wall street, ha distribuito bonus per dieci miliardi di dollari. Fino a 500mila dollari a testa. La banca non badava a spese: il suo presidente dell’epoca, Henry Paulson, ha intascato 38,3 milioni di dollari. In seguito Paulson è diventato segretario del tesoro degli Stati Uniti. Quindi il denaro che in queste settimane sta cercando così disperatamente è inito anche nelle sue tasche. Il denaro luiva dagli istituti di credito di tutto il mond nelle casse delle banche che erogavano mutui negli Stati Uniti, mentre una forte corrente laterale lo deviava verso le banche d’investimento e i loro manager. Dalle banche ipotecarie andava agli acquirenti di case. E da lì sarebbe tornato indietro agli istituti di tutto il mondo, ai detentori dei titoli di credito. Sempre che i braccianti e le donne delle pulizie riuscissero a saldare i loro debiti. E a condizione che i prezzi delle proprietà immobiliari continuassero ad aumentare. Rettiiche di valore A Francoforte sul Meno, nel cuore del distretto inanziario, c’è un grattacielo che svetta sopra tutti gli altri. Con i suoi 269 metri è il secondo ediicio più alto d’Europa. è una torre di vetro e cemento a sezione triangolare. Di notte gli ultimi piani dell’ediicio brillano di una luce color giallo chiaro, come se fossero dipinti di vernice fosforescente. è il giallo della Commerzbank. La torre ha cinquanta piani e nove giardini artiiciali, dove i dipendenti possono prendere il caffè godendosi la vista della città. Al diciannovesimo piano crescono i bambù, al trentacinquesimo gli ulivi. Quattro piani più su, al trentanovesimo, comincia la divisione bilancio, che si estende ino al quarantaduesimo piano. Qui lavorano trecento persone. Si occupano di cose che non hanno niente a che fare con la missione della banca. Ma attualmente il loro compito è di vitale importanza per la Commerzbank: devono stimare quanto denaro possiede la banca e quanto gliene manca. Più precisamente, devono calcolare quanto vale ancora il patrimonio della Commerzbank: i titoli, le proprietà immobiliari, i crediti esigibili. Le chiamano “rettiiche di valore”. I risultati di questo lavoro vengono trasmessi all’ultimo piano, quello del consiglio d’amministrazione. In particolare, arrivano sulla scrivania di Eric Strutz, il direttore finanziario della Commerzbank. Sul patrimonio della banca nessuno ne sa più di lui. è un uomo robusto, con una stretta di mano ferma. Quando parla, guarda l’interlocutore dritto negli occhi, anche se deve affrontare argomenti scomodi. Come quando afferma: “Un simile sviluppo dei mercati non era prevedibile”. <br /><br />La Commerzbank ha investito 1,2 miliardi di euro nei titoli legati ai mutui subprime. Buona parte di quei titoli sono ancora in suo possesso, ma non c’è più nessuno che voglia comprarli: per loro non c’è più mercato. La banca, però, deve iscriverli a bilancio al valore attuale di mercato. Insomma, i titoli e i mutui ci sono ancora, ma non valgono niente. I soldi se ne sono andati. Una parte resterà immobilizzata per sempre in case vuote, che vanno lentamente in rovina. Ma un’altra parte probabilmente tornerà, perché non tutti i debitori resteranno insolventi per sempre. Molti statunitensi ce la faranno: lavoreranno di più, spenderanno di meno e salderanno i loro debiti. A quel punto il denaro riprenderà ad afluire nelle tasche dei proprietari delle obbligazioni. A quel punto si troveranno nuovi acquirenti per i titoli, che torneranno ad avere un valore sul mercato. Bisogna solo aspettare che il caos si plachi. Come un piccolo investitore che possiede azioni delle case automobilistiche, precipitate al minimo storico: se è furbo e se lo può permettere, aspetta che la congiuntura migliori. Allora i prezzi delle azioni ricominceranno a salire, e il denaro tornerà. Il problema è che le banche non possono aspettare. “Dobbiamo redigere un rapporto ogni tre mesi e uno annuale”, spiega Strutz. Nel pieno della crisi i governi hanno modiicato alcune norme di bilancio, ma le banche sono ancora obbligate a registrare gran parte dei titoli al prezzo attuale di mercato. E se nel giorno di chiusura del bilancio il prezzo è basso, le perdite sono alte e la banca fallisce. Negli ultimi mesi solo negli Stati Uniti 304 società finanziarie e 22 banche sono state costrette a dichiarare insolvenza. Il caso più clamoroso è stato quello della banca d’investimento Lehman Brothers. <br /><br />Poco dopo il fallimento dell’istituto statunitense, anche le tre principali banche islandesi sono andate a gambe all’aria, e subito dopo l’intero stato nordeuropeo. E se l’Islanda è quasi in bancarotta, come se la passa l’Italia? E non è a rischio anche la Grecia? E quanto sono solide le inanze della Croazia? Ecco le domande che in questi mesi si pongono gli investitori di tutto il mondo. è così che all’improvviso perdono valore anche i titoli che non hanno niente a che fare con i mutui statunitensi, per esempio i titoli di stato islandesi, italiani o greci. La conseguenza è che i trecento impiegati della divisione bilancio della Commerzbank devono continuamente rettiicare il patrimonio della banca, che si riduce sempre di più. In base alle cifre che i contabili gli consegnano in queste settimane, Eric Strutz può ripercorrere la crisi passo per passo. Rettiiche di valore dovute alla crisi dei mutui subprime da agosto: 144 milioni di euro. Rettifiche dovute al fallimento della Lehman Brothers: 371 milioni di euro. Rettiiche dovute alle difficoltà finanziarie dell’Islanda: 260 milioni di euro. Vapore acqueo Il problema è che ora, per compensare le svalutazioni, le banche di tutto il mondo hanno bisogno urgente di denaro fresco: molto più di quanto ne sia andato perso nella crisi dei mutui. All’improvviso non si tratta più di un paio di centinaia di miliardi di dollari, ma di migliaia di miliardi. La conseguenza è che paradossalmente nelle borse di tutto il mondo si possono guadagnare molti soldi in un colpo solo. Ma come, non abbiamo detto che da mesi le azioni di quasi tutte le imprese stanno perdendo valore? Si parla di 23mila miliardi di dollari bruciati in borsa. Certo, quei soldi sono spariti, ma non sono stati bruciati. Sono evaporati. E in borsa questo fa la differenza, perché il vapore acqueo, quando si raffredda, si trasforma di nuovo in acqua. Questa legge vale anche per il denaro, che torna liquido e quindi torna a scorrere. Solo che a quel punto di solito scorre verso altre tasche. “Andate alla 2IQ”, aveva detto Max Otte, “e chiedete di Silvio Berlusconi”. A Francoforte sul Meno, in un palazzo di prinufici che sorge a un incrocio non lontano dalle torri delle banche, i fratelli Patrick e Robert Hable stanno analizzando i dati relativi ai mercati inanziari. Sono dati speciali, usati per le indagini sul reato di insider trading (l’uso illecito di informazioni privilegiate sulle aziende quotate in borsa). Premendo un tasto, sullo schermo del computer di Patrick Hable compaiono i nomi dei manager che ultimamente hanno comprato azioni delle loro imprese. Sono moltissimi. “I manager approfittano del calo dovuto alla crisi per comprare azioni a poco prezzo”, commenta Hable. <br /><br />Ci vorrà ancora molto tempo prima che i prezzi delle azioni tornino a crescere in modo costante. Ma quando succederà, gran parte delle migliaia di miliardi che le borse hanno bruciato durante la crisi torneranno indietro. A quel punto, però, i titoli apparterranno a chi ha comprato in questi mesi: manager e ricchi investitori, insomma quelli nelle cui tasche il denaro entrava già negli anni passati. Qualche esempio? Cominciamo da Silvio Berlusconi. A metà ottobre il presidente del consiglio italiano ha comprato azioni Mediaset per circa 16 milioni di euro, quando in borsa il titolo del suo gruppo era al minimo storico. Il finanziere Warren Buffett, l’uomo più ricco del mondo, ha comprato partecipazioni azionarie della General Electric per la cifra irrisoria di 2,1 miliardi di dollari. Il principe saudita al Walid bin Talal ha annunciato l’acquisto di 350 milioni di dollari in azioni della banca statunitense Citibank, istituto che ha già ricevuto dal governo americano nuovi capitali per 20 miliardi di dollari. Uno di quelli che ci guadagnano di più potrebbe essere un signore magro e con gli occhiali senza montatura, che parla a bassa voce e inila spesso un sorrisetto tra una frase e l’altra. Si chiama Gao Xiqing. Su incarico del suo datore di lavoro, la Repubblica Popolare Cinese, nei prossimi mesi Gao Xiqing dovrebbe investire 80 miliardi di dollari in imprese straniere. è il capo della China Investment Corporation (Cic), uno dei più grandi fondi sovrani del mondo. Quasi vent’anni fa, all’inizio dell’estate del 1989, Gao Xiqing partecipò alle manifestazioni in piazza Tiananmen a Pechino. Ma prima ancora che l’esercito uccidesse migliaia di persone, Gao abbandonò la protesta. Era arrivato alla conclusione, racconta, che c’era un mo do migliore per rafforzare la democrazia in Cina: far crescere l’economia del paese. Il governo cinese ha investito nella Cic 200 miliardi di dollari. Con questi soldi Gao Xiqing ha il compito di moltiplicare la ricchezza dello stato. Un anno fa ha comprato per cinque miliardi di dollari un pacchetto di azioni della Mo r g a n Stanley, la seconda banca d’investimento degli Stati Uniti. Ad aprile ha comprato 4,4 miliardi di dollari di azioni della J.C. Flowers, il fondo creato da un ex manager della Goldman Sachs per rilevare a poco prezzo società finanziarie decotte. Poi a settembre è andato negli Stati Uniti e ha nuovamente trattato con il capo della Morgan Stanley: voleva aumentare al 49 per cento la sua partecipazione nella banca. Invece le azioni sono state vendute alla grande banca giapponese Mitsubishi Ufj. Per motivi politici, si dice: gli statunitensi temevano da tempo che la Cic si volesse comprare tutto il paese. Ma Gao Xiqing dà sempre la stessa risposta: il suo compito non è quello di acquisire inluenza politica, “vogliamo solo realizzare proitti”. E Gao ha appena cominciato. Il grande crollo <br /><br />Al termine della nostra conversazione Max Otte posa sul tavolo un libro intitolato Il grande crollo. Il suo autore, John Kenneth Galbraith – morto nel 2006 a 97 anni –, è considerato uno dei massimi economisti del ventesimo secolo. Nel libro Galbraith spiega come si arrivò alla grande depressione degli anni trenta. Anche all’epoca ci furono banche che fallirono e prezzi azionari in caduta libera. Galbraith fornisce una spiegazione interessante: i ricchi erano diventati troppo ricchi. Negli anni trenta lo 0,1 per cento dei cittadini americani possedeva quasi il 40 per cento della ricchezza complessiva. Di conseguenza, sostiene l’economista, molti non sapevano cosa fare del loro denaro. Così cominciarono a speculare e a cercare nuovi prodotti in cui investire. Oggi negli Stati Uniti la ricchezza non è distribuita in modo così diseguale come allora. Ma da qualche anno certi comportamenti ricordano quelli dei ruggenti anni venti. Ed è scoppiata un’altra grande crisi. I ricchi sono diventati di nuovo troppo ricchi? Proviamo a ribaltare la prospettiva: probabilmente negli Stati Uniti i poveri sono diventati troppo poveri. E non solo loro, non solo i braccianti e le donne delle pulizie, ma anche la classe media. Attualmente negli Stati Uniti il 40 per cento della società possiede solo lo 0,2 per cento della ricchezza complessiva. In questi ultimi anni chi non voleva restare ai margini della società ha avuto una sola scelta: prendere denaro in prestito. Per far studiare i igli, per pagare l’assistenza sanitaria, per comprare una casa. Alla ine molti statunitensi non sono più riusciti a saldare i loro debiti. Per questo ora paga lo stato. I governi di tutti i grandi paesi industrializzati hanno varato dei piani di salvataggio. L’idea è fornire alle banche denaro fresco per compensare almeno in parte le perdite causate dalla crisi inanziaria. In Germania le banche devono spedire un fax o una lettera a una villa intonacata di giallo a Francoforte sul Meno. In Gran Bretagna non devono neanche fare richiesta: i capitali vengono erogati per precauzione. E così siamo arrivati al punto in cui sono gli stati a inanziare a posteriori gli immobili costruiti negli Stati Uniti. Ma anche le provvigioni degli intermediatori immobiliari, i bonus dei manager delle banche d’investimento, i salari dei lavoratori edili. Resta un interrogativo: i governi e gli stati dove prendono il denaro di cui hanno bisogno? La risposta calza a perfezione al modo in cui questa crisi è cominciata. Paesi come la Germania, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si comportano come gli americani che compravano le case: prendono soldi in prestito, fanno debiti. In Germania ci pensa una società, la Bundesrepublik Deutschland Finanzagentur, che è di proprietà dello stato al 100 per cento. Negli ultimi dodici mesi questa società, che ha 330 dipendenti, ha preso 220 miliardi di euro in prestito per conto del governo di Berlino. Il grosso di questo debito è stato contratto solo per poter rimborsare prestiti già esistenti, a cui si sono aggiunti altri 14 miliardi di euro. Come ha ottenuto tutti questi soldi la Finanzagentur? Attraverso la vendita di titoli di stato. La Repubblica Federale Tedesca si impegna a restituire i soldi ai compratori di questi titoli dopo 5, 7 o 10 anni, naturalmente con gli interessi. Tra gli acquirenti ci sono grandi fondi d’investimento giapponesi, statunitensi, di Singapore o dell’est europeo. Ma c’è anche Gisela Schmidt, una pensionata della Bassa Sassonia. <br />In primavera, prima della crisi, Gisela aveva diecimila euro da investire. I suoi soldi erano rimasti su un libretto di risparmio per anni, inché un consulente della banca non l’ha convinta che era un errore: un libretto di risparmio frutta un interesse quasi nullo. Il consulente voleva venderle nuovi titoli di una banca americana: la Lehman Brothers. Soldi sicuri, diceva: “Dovrebbe assolutamente comprarli”. Ma Gisela Schmidt, 69 anni, vedova, ex segretaria, ha detto no. “Non voglio saperne di queste nuove mode, perché non ci capisco niente”. Poi la Lehman Brothers è fallita, mentre Gisela Schmidt ha comprato una cosa che esiste già da decenni: un buono del tesoro. I suoi diecimila euro, quindi, sono afluiti sul conto della Repubblica Federale Tedesca, presso la Bundesbank. I soldi di Gisela Schmidt contribuiscono a salvare le banche. Anche se lei non lo sospetta neanche. Gisela ha comprato i titoli di stato perché li riteneva un investimento sicuro e perché tra sette anni riavrà i suoi soldi con gli interessi. Il 23 settembre 2015, infatti, la Repubblica Federale Tedesca le verserà 12.431 euro. Gisela fa soldi sui debiti dello stato. “Poi andrà tutto a mio nipote”, dice. “A me basta la pensione”. Suo nipote si chiama Max, ha 14 anni ed è tifoso dell’Amburgo. A lui la crisi inanziaria non interessa. Forse gli interesserà tra sette anni, quando magari avrà già un lavoro, e quando probabilmente il governo sarà costretto ad aumentare le tasse perché i debiti dello stato saranno cresciuti. Allora forse Max capirà che i soldi delle sue tasse sono l’ultimo anello di una lunga catena di movimenti di denaro e che sono già stati spesi da un pezzo. Sull’altra sponda dell’Atlantico, negli Stati Uniti. Perché qualche anno prima a qualcuno era sembrato un buon affare costruire una villa signorile in cui si respirasse aria di Toscana vicino a Las Vegas. <br /><br />"Internazionale", n. 773delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-10687772782998789322008-12-27T09:49:00.002+01:002008-12-27T09:51:45.424+01:00Stati Uniti: allarme iperinflazione e depressioneLa Federal Reserve prepara un'iperinflazione alla Weimar <br />:::: 23 Dicembre 2008 :::: 9:05 T.U. :::: Analisi - economia :::: F. William Engdahl <br />di F. William Engdahl *<br /><br />La Federal Reserve ha opposto un secco diniego alla richiesta, giunta da un importante servizio d'informazione finanziaria statunitense, di rivelare i destinatari dei prestiti d'emergenza per oltre 2.000 miliardi (tratti dalle tasche dei contribuenti) ed i beni che la banca centrale sta accettando come garanzia. I loro avvocati sono ricorsi al bizzarro argomento della tutela del “segreto commerciale”. Il segreto consiste forse nella bancarotta de facto del sistema finanziario statunitense? L'ultima mossa della FED è un'ulteriore indicazione del grado di panico raggiunto in seno agli alti gradi delle istituzioni finanziarie statunitensi e della loro mancanza d'una chiara strategia. L'espansione senza precedenti della base monetaria, praticata nelle ultime settimane dalla Federal Reserve, pone le basi per una futura iper-inflazione di sapore weimariano, forse prima del 2010.<br />Il 7 novembre Bloomberg ha intrapreso un'azione legale sulla base della Freedom of Information Act, chiedendo i dettagli d'undici nuovi programmi di finanziamento, creati dalla Federal Reserve all'aggravarsi della crisi.<br />La FED ha risposto l'8 dicembre, rivendicando il diritto a tenere nascosti i memoranda interni così come le informazioni concernenti il “segreto” e la “informazione” commerciali. La banca centrale confermava che una ricerca nei registri aveva riscontrato 231 pagine di documentazione pertinente alla richiesta.<br />Nelle ultime settimane, la FED di Bernanke è intervenuta per assumere un ruolo che, nei propositi originari, avrebbe dovuto essere del Troubled Asset Relief Program (TARP), varato dal Tesoro per un valore complessivo di 700 miliardi. La differenza tra un salvataggio delle istituzioni finanziarie praticato dalla FED ed uno praticato dal Tesoro risiede nel fatto che i prestiti della banca centrale non sottostanno al vaglio critico del Congresso, imposto invece al TARP. Forse sono questi i “segreti commerciali” che lo sfortunato presidente della FED, Ben Bernanke, sta così gelosamente nascondendo alla popolazione.<br /><br />Iper-inflazione in agguato?<br /><br />Il 6 novembre il complesso di questi prestiti d'emergenza accordati dalla FED eccedeva i 2.000 miliardi di dollari. La crescita, stupefacente, è stata del 138% (ossia di 1230 miliardi) nelle dodici settimane successive al 14 settembre, quando i governanti di banca centrale affievolirono i requisiti di garanzia necessari ad accettare titoli sprovvisti della classificazione “AAA”. Fecero ciò sapendo che il giorno successivo sarebbe avvenuto un drammatico scossone nel sistema finanziario, e lo sapevano perché, di concerto con l'Amministrazione Bush, avevano deciso di lasciarlo accadere.<br />Il 15 settembre Bernanke e Tim Geithner (presidente della Riserva Federale di New York), prossimo segretario del Tesoro designato da Obama, d'accordo con l'Amministrazione Bush avevano deciso di lasciar fallire la quarta più grande banca d'investimento, la Lehman Brothers, che lasciava insolventi miliardi di derivati ed altre obbligazioni possedute da investitori sparsi in tutto il mondo. Quest'evento, com'è oggi ampiamente riconosciuto, scatenò il panico a livello globale, poiché non era più chiaro che criteri stesse utilizzando il Governo degli USA per decidere quali istituzioni fossero “troppo grosse per fallire” e quali non lo fossero. Da allora il Segretario al Tesoro statunitense ha ripetutamente rivisto la politica sui salvataggi bancari, cosa che ha lasciato supporre a molti che Henry Paulson e l'Amministrazione di Washington – e con loro la FED – avessero perduto il controllo.<br />In risposta all'acuirsi della crisi, la FED di Bernanke ha deciso d'espandere quella che tecnicamente si chiama “base monetaria”, definita come il totale delle riserve bancarie più la liquidità in circolo, basi per una potenziale ulteriore emissione nell'economia da parte delle grandi banche. Dalla bancarotta della Lehman Bros., quest'espansione monetaria è aumentata drammaticamente per la fine d'ottobre, ad un tasso di crescita su base annuale pari al 38%: si tratta d'un qualcosa senza precedenti nei 95 anni di storia della Federal Reserve. Il più alto tasso di crescita fino ad allora registrato, stando ai dati della Federal Reserve, era il 28% del settembre 1939, quando gli USA stavano rafforzando l'industria per affrontare la guerra scoppiata in Europa.<br />Alla prima settimana di dicembre, l'espansione della base monetaria era balzata ad un incredibile 76% in soli tre mesi. Dagli 836 miliardi del dicembre 2007, quando la crisi sembrava contenuta, s'era passati ai 1479 miliardi del dicembre 2008, un'esplosione del 76% su base annuale. Inoltre, fino al settembre 2008, mese del collasso della Lehman Brothers, la Federal Reserve aveva lasciato la base monetaria quasi invariata. Il 76% di crescita è quasi interamente concentrato negli ultimi tre mesi, il che implica un tasso d'espansione annualizzato d'oltre il 300%.<br />Ciò non ostante, le banche non prestano più, lasciando l'economia statunitense in uno stato di depressione e caduta libera di scala mai riscontrata dopo gli anni '30. Uno dei motivi principali per cui le banche non prestano è che, secondo le norme della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, debbono accantonare l'8% del loro capitale contro il valore d'ogni nuovo prestito commerciale. Le banche, tuttavia, non hanno idea di quante delle ipoteche e d'altri titoli “problematici” in loro possesso potrebbero rivelarsi inconsistenti nei mesi a venire - costringendole poi a rastrellare nuove ingenti somme di capitali per mantenersi solventi. È allora più “sicuro”, per loro, rifilare i titoli “spazzatura” (o “tossici”) alla FED in cambio degl'interessi sui buoni del Tesoro acquisiti. Gl'investimenti bancari sono rischiosi in un clima di depressione.<br />Così le banche hanno scambiato 2 miliardi di presunti titoli “tossici” - “Asset-Backed Securities” in ipoteche subprime ed altri crediti ad alto rischio – con denaro della Federal Reserve, buoni del Tesoro statunitense o altri titoli governativi valutati (ancora) “AAA”, ossia privi di rischio. Il risultato è che la Federal Reserve possiede ora circa 2 miliardi di titoli-spazzatura prelevati dal sistema finanziario. I mutuatari includono Lehman Brothers, Citigroup e JPMorgan Chase, le più grandi banche statunitensi. Banche che s'oppongono al rilascio di qualsiasi informazione, poiché ciò potrebbe apparire un segnale di “debolezza” ed incentivare la vendita alla scoperta o la corsa agli sportelli da parte dei depositanti.<br />A rendere la situazione ancor più drastica è il modello d'azione adottato dalle banche statunitense sin dalla fine degli anni '70 per incrementare i depositi, cioè l'acquisto di “depositi all'ingrosso” prendendoli in prestito da altre banche nel corso del mercato interbancario notturno. Il calo di fiducia, causato dalla bancarotta della Lehman Bros., è così forte che nessuna banca al mondo si fida abbastanza di un'altra da concederle prestiti. Ciò lascia a disposizione solo i tradizionali “depositi al dettaglio”, costituiti dai risparmi o dai conti correnti privati e aziendali.<br />Rimpiazzare i depositi all'ingrosso con quelli al dettaglio è un processo che, nel migliore dei casi, richiederà anni; di certo non settimane. È comprensibile che la Federal Reserve non voglia discuterne. Ciò risalta chiaramente anche dal brusco rifiuto di rivelare la natura dei beni da 2000 miliardi acquisiti da banche cooperative ed altri istituti finanziari. Detta semplicemente, qualora la FED rivelasse quali “collaterali” abbia ricevuto dalle banche, la popolazione conoscerebbe le perdite potenziali cui il governo va incontro.<br />Il Congresso sta domandando a Federal Reserve e Tesoro maggiore trasparenza sui piani di salvataggio. Il 10 dicembre, in occasione delle audizioni al Congresso da parte del Comitato sui servizi finanziari della Camera, il rappresentante David Scott (democratico della Georgia) ha descritto gli Statunitensi come «bamboozled», che in gergo significa “defraudati”.<br /><br />Singhiozzi ed uragani<br /><br />In settembre il presidente della FED Ben S. Bernanke ed il segretario al Tesoro Henry Paulson promisero di soddisfare le richieste congressuali di maggiore trasparenza nella gestione del piano di salvataggio del sistema bancario da 700 miliardi. Il Freedom of Information Act obbliga le agenzie federali a rendere i documenti governativi accessibili alla stampa ed ai cittadini.<br />Ai primi di dicembre l'agenzia di supervisione del Congresso, la GAO, ha rilasciato il suo primo resoconto sull'attuazione del programma TARP. Nel resoconto si nota che, a trenta giorni dal varo del programma, l'ufficio di Paulson ha distribuito 150 miliardi ad istituti finanziari senza chiedere riscontri su come il denaro sia effettivamente utilizzato. Sembra che il Tesoro di Henry Paulson abbia gettato un colossale telo sull'intero salvataggio pagato dai contribuenti [un gioco di parole risiede nell'espressione “tarp”, che è sia la sigla del piano di salvataggio, sia un sostantivo inglese dal significato appunto di “tela incerata”, NdT].<br />Aggiungendo altro combustibile al rogo dell'ex Mecca finanziaria, il Congresso degli USA – agendo per lo più su basi ideologiche – ha scioccato il sistema finanziario col rifiuto a concedere un pur magro prestito d'emergenza da 14 miliardi alle tre grandi case automobilistiche: General Motors, Chrysler e Ford.<br />Se è probabile che il Tesoro estenderà alle compagnie i crediti d'emergenza fino al 20 gennaio, o finché il Congresso neo-eletto prenderà in considerazione un nuovo piano, la prospettiva d'una reazione a catena di bancarotte delle tre grandi compagnie non è così lontana. Sottaciuto nel dibattito in corso, è che queste tre compagnie assommano assieme il 25% di tutti i buoni societari degli USA in sospeso. Tali buoni sono posseduti da fondi pensione privati, fondi comuni d'investimento, banche ed altri soggetti. Se s'includono anche i fornitori di componenti automobilistici per le “Tre Grandi”, sono oggi a rischio d'insolvenza a catena buoni societari per un ammontare di 1000 miliardi di dollari. Una simile bancarotta di massa comporterebbe, forse, una catastrofe finanziaria tale da far apparire il fallimento della Lehman Bros., al confronto, come un singhiozzo in mezzo ad un uragano.<br />Inoltre, le azioni intraprese sin da settembre dalla Federal Reserve, in preda al panico, con l'esplosiva espansione della base monetaria, ha posto le basi per un'iperinflazione in stile Zimbabwe. La nuova moneta non è stata “sterilizzata” dalla FED con azioni compensative: ciò è assai inusuale ed indica lo stato di disperazione in cui versa. Prima di settembre, le infusioni di denaro da parte della FED erano sterilizzate, neutralizzando così il potenziale effetto inflattivo.<br /><br />Un'Enorme Depressione<br /><br />Ciò significa che, quando le banche ricominceranno finalmente a prestare, forse in un anno o giù di lì, l'economia statunitense si ritroverà inondata di liquidità nel bel mezzo d'una depressione deflazionaria. A questo punto, o forse anche molto prima, il dollaro collasserà per la fuga dei detentori stranieri di buoni del Tesoro ed altri beni statunitensi. Il risultato sarà un netto apprezzamento dell'euro con effetto paralizzante per le esportazioni della Germania e d'altri paesi; a meno che l'UE ed altri paesi estranei all'area del dollaro – come Russia, membri dell'OPEC e soprattutto Cina – riescano a creare una nuova zona di stabilizzazione al di fuori del dollaro.<br />Nei prossimi mesi il mondo fronteggerà le più grandi sfide economiche e finanziarie. La scelta che si prospetta per la prossima Amministrazione Obama è quella di nazionalizzare letteralmente il sistema creditizio, per assicurare aperture di credito all'economia reale nel corso dei prossimi 5 o 10 anni, oppure prepararsi ad un'Armageddon economica al cui confronto quella degli anni '30 sembrerà una blanda recessione.<br />Lasciando perdere quel che sembra una spudorata manipolazione dei principali dati economici - praticata dall'attuale Amministrazione statunitense prima delle elezioni di novembre nel vano tentativo di celare le dimensioni della crisi in corso - le cifre appaiono senza precedenti.<br />Nella prima settimana di dicembre l'Initial Jobless Claims [rapporto settimanale pubblicato dal Dipartimento del Lavoro degli USA, che misura i richiedenti sussidi di disoccupazione, NdT] ha fatto segnare i più alti livelli dal novembre 1982. Più di quattro milioni di lavoratori sono rimasti disoccupati – anch'esso valore più alto dal 1982 – ed in novembre le aziende statunitensi hanno tagliato posti di lavoro al ritmo più elevato degli ultimi 34 anni. Nel corso del 2008, sono scomparsi finora 1.900.000 posti di lavoro.<br />Varrà bene ricordare che il 1982 rappresentò il culmine di quella che fu allora chiamata “Recessione Volcker”. Paul Volcker, longa manus della famiglia Rockefeller presso la Chase Manhattan, era stato chiamato ad applicare all'economia statunitense la sua “terapia choc” basata sul tasso d'interesse, il cui fine era «estirpare l'inflazione». Estirpò molto di più, dato che l'economia sprofondò nella recessione, e la sua politica di alto tasso d'interesse detonò nella cosiddetta Crisi del Debito del Terzo Mondo. Il medesimo Paul Volcker – e c'è ben poco da starne allegri – è stato appena nominato da Barack Obama prossimo presidente del neocostituito consiglio presidenziale per la ripresa economica.<br />L'attuale collasso economico negli Stati Uniti è stato provocato da quello del mercato dei mutui ad alto rischio subprime e Alt-A; un mercato da 3000 miliardi di dollari. Il presidente della FED Bernanke ha pubblicamente affermato che il peggio passerà con la fine di dicembre. Nulla può essere più lontano dalla verità, e lo sa bene. Lo stesso Bernanke, nell'ottobre 2005, dichiarò che «non c'è alcuna bolla immobiliare che possa esplodere». Questo fa riflettere sulle capacità profetiche dell'economista di Princeton. Il rinomato S&P Schiller-Case US National Home Price Index ha mostrato un calo del 17% su base annua nel terzo trimestre, con tendenza ascendente. Secondo alcune stime, ci vorranno ancora dai cinque ai sette anni perché i prezzi delle case negli USA raggiungano il punto più basso. Nel 2009, quando i tassi d'interesse saranno rifissati, circa 1000 miliardi di mutui statunitensi Alt-A cominceranno a spirare, il tasso d'abbandono delle case ed i sequestri di immobili ipotecari esploderanno. Poco nei cosiddetti programmi d'ammiglioramento dei mutui offerti finora raggiunge la grande maggioranza dei coinvolti. Al contrario, il processo è destinato ad accelerare, dal momento che milioni di statunitensi perderanno il proprio lavoro nei prossimi mesi.<br />John Williams, autore del rispettato Shadow Government Statistics, ha di recente pubblicato una definizione di “depressione”, termine che dopo la Seconda Guerra Mondiale è stato deliberatamente estromesso dal lessico economico come riferimento ad eventi non più ripetibili; da allora, infatti, ogni calo è stato chiamato semplicemente “recessione”. Williams mi ha spiegato che, qualche anno fa, intervistando le più importanti autorità economiche degli USA all'Ufficio d'Analisi Economica del Dipartimento del Commercio ed all'Ufficio Nazionale di Ricerca Economica (NBER) nonché numerosi economisti del settore privato, fece ogni sforzo possibile per addivenire ad una più precisa definizione dei termini “recessione”, “depressione” e “grande depressione”. Credo che il suo sia stato in pratica l'unico tentativo di delineare con maggiore attenzione i significati di quelle espressioni. Ne venne fuori innanzi tutto con la definizione ufficiale di recessione data dal NBER: due o più trimestri consecutivi di contrazione del PIL reale o di misure del lavoro retribuito e della produzione industriale. Quando nel corso di una recessione il PIL si contrae d'oltre il 10% si parla di depressione. Una grande depressione è, secondo Williams, quella in cui la contrazione del PIL supera il 25%.<br />Nel periodo dall'agosto 1929 alla fine del suo ufficio, il presidente Herbert Hoover vide una contrazione dell'economia statunitense lunga 43 mesi e pari al 33%. Barack Obama sembra pronto a battere questo primato, presiedendo su quella che gli storici chiameranno forse l'Enorme Depressione del 2008-2014, a meno ch'egli riesca a trovare un nuovo gruppo di consiglieri finanziari prima del giorno inaugurale del 20 gennaio. Non gli servono presidenti della FED riciclati, tipo Paul Volcker o Larry Summer. È necessaria una strategia radicalmente nuova per avviare quasi l'intera economia degli Stati Uniti ad una riorganizzazione fallimentare d'emergenza da “Capitolo 11” [il capitolo 11 del titolo 11 del Codice degli USA è il procedimento fallimentare che prevede la ristrutturazione del debito, NdT], in cui le banche cancellino fino al 90% dei loro beni “tossici”; questo per salvare l'economia reale, per il bene del popolo statunitense e delle genti di tutto il mondo. La moneta cartacea si può strappare facilmente. Non così le vite umane. Nel processo, potrebbe esserci il tempo per il Congresso di considerare il riassorbimento della Federal Reserve nel Governo federale, come statuiva originariamente la Costituzione, e rendere così tutto più facile. Se questo vi suona estremo, allora rileggete il presente articolo fra sei mesi.<br /><br />(© La presente traduzione, autorizzata dall'Autore, è stata realizzata da Daniele Scalea per “Eurasia”. È liberamente consentita la riproduzione a fini non commerciali purché sia chiaramente citata la fonte)<br />Versione originale dell'articolo (in inglese): http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11401<br /><br />* F. William Engdahl, economista e politologo formatosi nelle università di Princeton e Stoccolma, collabora regolarmente ad alcune pubblicazioni prestigiose (tra cui “Asia Times” e “Business Banker International”) ed è autore di due libri (A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order e Seeds of Destruction: The Hidden Agenda of Genetic Manipulation). Per i primi due mesi del 2009 è prevista l'uscita della sua terza opera: Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order. In Italia è stato pubblicato, sul numero 1/2007 di “Eurasia”, il suo saggio “L'emergente gigante russo”.delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-83485133615356363052008-12-26T08:57:00.000+01:002008-12-26T08:58:53.593+01:00La crisi del sistema“Il sistema capitalista oggi? Un malato allo stadio terminale”<br />di Antoine Reverchon<br /><br />Pubblicato lunedì 20 Ottobre 2008<br /><br />Immanuel Wallerstein (Sociologo e ricercatore all’università di Yale) “Il sistema capitalista oggi? Un malato allo stadio terminale” Antoine Reverchon<br /><br />La crisi economica attuale segna la fine del capitalismo, è l’opinione del sociologo americano discepolo di Fernand Braudel e ispiratore del movimento altermondialista. A breve, un nuovo sistema emergerà. Sara più redistributivo o più violento? Il campo è aperto<br /><br />Lei è considerato uno degli ispiratori del movimento altermondialista, nel 2005 lei era tra i firmatari del manifesto del Forum sociale di Porto Alègre («Dodici proposte per un altro mondo possibile»). Ha fondato e diretto il centro Fernand-Braudel per lo studio dell’economia dei sistemi storici e delle civiltà dell’università dello Stato di New York, a Binghamton. Come colloca la crisi economica e finanziaria nei «tempi lunghi» della storia del capitalismo?<br /><br />Fernand Braudel (1902-1985) distingueva nella storia dell’umanità i tempi della «lunga durata», caratterizzati dal succedersi di sistemi che strutturano i rapporti tra l’uomo e l’ambiente materiale che lo circonda. All’interno di queste fasi individuava dei cicli lunghi congiunturali, descritti da economisti come Nicolas Kondratieff (1882-1930) o Joseph Schumpeter (1883-1950). Oggi ci troviamo chiaramente nella fase B di un ciclo di Kondratieff, iniziato circa 30-35 anni fa dopo una fase A che è stata fino ad ora la più lunga (dal 1945 al 1975) nei 500 anni di storia del capitalismo. Nella fase A, il profitto è generato dalla produzione materiale, industriale o altro; nella fase B il capitalismo per continuare a ricavare profitti deve finanziarsi e rifugiarsi nella speculazione. Da oltre 30 anni le imprese, gli Stati e le famiglie s’indebitano massicciamente. Siamo quindi nell’ultimo tratto della fase B di Kondratieff, quando il declino virtuale diventa reale e le bolle speculative esplodono una dietro l’altra: i fallimenti si moltiplicano, le concentrazioni del capitale aumentano, la disoccupazione progredisce e l’economia conosce una situazione di deflazione reale. Ma questo momento del ciclo congiunturale coincide oggi con un periodo di transizione tra due sistemi di lunga durata che ne aggrava le conseguenze. Sono convinto, in effetti, che da almeno 30 anni siamo entrati nella fase terminale del sistema capitalista. Ciò che differenzia fondamentalmente questa fase dalla successione ininterrotta dei cicli congiunturali passati è il fatto che il capitalismo non perviene più a «farsi sistema», nel senso in cui lo intende la fisica e chimica Ilya Prigogine (1917-2003): cioè quando un sistema, biologico, chimico o sociale, devia troppo sovente dalla sua situazione di stabilità e non arriva più a ritrovare l’equilibrio. Si assiste allora a una biforcazione: la situazione diventa caotica, incontrollabile per le forze che la dominavano fino a quel momento. Emerge in questo modo una lotta non più tra sostenitori e avversari del sistema, ma tra tutti gli attori che lo compongono per arrivare a determinare ciò che potrebbe rimpiazzarlo. Personalmente riservo la parola «crisi» a questo tipo di periodi. E bene, oggi siamo in crisi. Il capitalismo è giunto alla sua fine.<br /><br />Ma perché invece di una crisi finale non si tratterebbe piuttosto di una nuova mutazione del capitalismo, che dopo tutto ha già conosciuto il passaggio dalla fase mercantile a quella industriale e poi ancora a quella finanziaria? <br /><br />Il capitalismo è onnivoro, capta il profitto là dove è più importante in un momento dato. Non si contenta dei piccoli profitti marginali, al contrario tende a massimizzarli creando dei monopoli. Ha cercato ancora di formarli ultimamente nelle biotecnologie e nelle tecnologie dell’informazione. Credo però che le possibilità d’accumulazione reale del sistema abbiano raggiunto il loro limite. Dalla sua nascita nella seconda metà del XVI secolo, il capitalismo si nutre del differenziale di ricchezza tra un centro, nel quale convergono i profitti delle periferie (non per forza geografiche) sempre più impoverite. Il recupero economico dell’Asia dell’Est, dell’India e dell’America latina costituisce una sfida insormontabile per «l’economia-mondo» creata da un Occidente che non arriva più a controllare i costi dell’accumulazione. Da decenni le tre curve mondiali dei prezzi della manodopera, delle materie prime e delle imposte sono ovunque in forte rialzo. Il breve periodo neoliberale che sta terminando ha invertito solo provvisoriamente la tendenza: alla fine degli anni 90, questi costi erano certo meno elevati che nel 1970, ma molto più importanti del 1945. Infatti, l’ultimo periodo d’accumulazione reale – i «trenta gloriosi » – è stato possibile soltanto perché gli Stati keynesiani hanno messo le loro forze al servizio del capitale. Ma anche qui il limite è ormai raggiunto!<br /><br />Ci sono dei precedenti simili alla fase attuale, come quelli che hai appena descritto? <br /><br />Ce ne sono molti nella storia dell’umanità, contrariamente a quanto ci viene riportato dalla rappresentazione di un progresso continuo e inevitabile, forgiata nella metà del XIX secolo e presente anche nella versione marxista. Per quanto mi riguarda, preferisco attenermi alla tesi della possibilità del progresso e non della sua ineluttabilità. Certo il capitalismo è il sistema che ha saputo produrre, in modo straordinario e stupefacente, il maggior numero di beni e di ricchezza. Ma occorre guardare anche alla somma delle perdite che ha generato nell’ambiente e nella società. Il solo vero bene è quello che permette d’ottenere una vita razionale e intelligente per il maggior numero di persone. Ciò detto, la crisi più recente che può vantare delle somiglianze con quella di oggi è il crollo del sistema feudale in Europa, tra la meta del XV e del XVI secolo, e la sua sostituzione col sistema capitalista. Questo periodo che culmina con le guerre di religione vede crollare il dominio delle autorità monarchiche, signorili e religiose sulle più ricche comunità contadine e sulle grandi città. È in quel contesto che prendono forma, dopo ripetuti tentativi e in modo incosciente, delle soluzioni inattese e il cui successo finirà per «fare sistema », estendendosi poco a poco nella forma del capitalismo.<br /><br />Per quanto tempo ancora la transizione attuale dovrà durare e quale sarà lo sbocco possibile?<br /><br />Il periodo della distruzione del valore che chiude la fase B di un ciclo di Kondratieff dura generalmente dai due ai cinque anni prima che si trovino riunite le condizioni d’entrata nella fase A, ovvero quando un profitto reale può di nuovo essere ricavato dalle rinnovate produzioni materiali descritte da Schumpeter. Ma il fatto che questa fase corrisponda attualmente ad una crisi di sistema ci ha fatto entrare in un periodo di caos politico, durante il quale gli attori dominanti alla testa delle imprese e degli Stati occidentali tenteranno tutto ciò che è tecnicamente possibile per ritrovare l’equilibrio. Ma è molto probabile che non ci riusciranno. I più intelligenti hanno già capito che bisogna mettere mano a qualcosa d’interamente nuovo, anche se dei molteplici attori stanno già agendo in maniera disordinata e incosciente per far emergere delle nuove soluzioni, senza che però si sappia ancora quale sistema verrà fuori da questo stato confusionale. Siamo in un momento molto raro, nel quale la crisi e l’impotenza dei potenti lasciano posto al libero arbitrio di ognuno. Si è aperto un lasso di tempo all’interno del quale vi è la possibilità d’influenzare l’avvenire con la nostra azione individuale. Ma poiché questo futuro sarà la somma di un numero incalcolabile di azioni, è assolutamente impossibile prevedere quale modello s’imporrà alla fine. Tra 10 anni si riuscirà forse a vedere più chiaro. Tra 30 o 40 un nuovo sistema avrà visto la luce. Alla fine però non è da escludere che possa venirne fuori un sistema di sfruttamento ancora più violento del capitalismo piuttosto che un modello sociale più egualitario e redistributivo.<br /><br />Le precedenti mutazioni del capitalismo sono spesso sfociate in uno spostamento del centro dell’«economia-mondo», per esempio dal bacino mediterraneo verso la costa atlantica dell’Europa, poi verso quella degli Stati uniti. Il sistema che verrà sarà centrato sulla Cina?<br /><br />La crisi che viviamo corrisponde anche alla fine di un ciclo politico, quello dell’egemonia americana già avviato negli anni 70. Gli Stati uniti resteranno un attore importante, ma non potranno più riconquistare la loro posizione dominante di fronte alla moltiplicazione dei centri di potere, con l’Europa occidentale, la Cina, il Brasile, l’India. Se facciamo riferimento al tempo lungo braudeliano, per imporsi un nuovo potere egemonico può richiedere ancora cinquanta anni. Ignoro tuttavia quale potrà essere. Nell’attesa le conseguenze politiche della crisi attuale saranno enormi, nella misura in cui i padroni del sistema cercheranno di trovare dei capri espiatori per giustificare il crollo della loro egemonia. Ritengo che la metà del popolo americano non accetterà quello che sta succedendo. I conflitti interni si accentueranno in un luogo come gli Stati uniti che stanno per divenire il paese del mondo più instabile politicamente. E non bisogna dimenticare che noi, gli Americani, siamo tutti armati…<br /><br />Le Monde del 12- ottobre 2008 (Traduzione di Paolo Persichetti) <br /><br /> <br /><br />Pubblicato lunedì 20 Ottobre 2008delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-29310952947752612652008-12-24T18:01:00.000+01:002008-12-24T18:06:03.634+01:00Il terzo mondo da Bandung a SeattleIl terzo mondo, ieri e oggi<br />di Immanuel Wallerstein*<br /><br />Organizzandosi in «terzo mondo», all’indomani della seconda guerra mondiale, le ex colonie miravano, nonostante i corteggiamenti dei due Grandi, a sfuggire alla logica dei blocchi. Una politica che raggiungeva il suo apice nel 1973, con il rialzo del prezzo del petrolio. Come ha potuto da allora la situazione cambiare a tal punto da trasformare alcuni di questi paesi in laboratori per la delocalizzazione occidentale, e i restanti in aree sempre più stremate dalla miseria? Una realtà su cui ancora recentemente i paesi ricchi, riuniti ad Okinawa, versavano le loro lacrime di coccodrillo.<br /><br />Pubblicato lunedì 22 Dicembre 2008<br /> <br />«Terzo mondo»: l’espressione sembra ormai in disuso. Eppure, ci fu un tempo, neanche troppo remoto, in cui andava per la maggiore. Bisogna forse ascrivere fortuna e declino all’eterno ciclo delle mode passeggere? O sono invece sintomo di una più grande sconfitta politica? L’espressione in sé è stata coniata dal demografo francese Alfred Sauvy, che l’utilizzò per la prima volta all’inizio degli anni 50 (1) e la scelse poi come titolo per un libro curato da Georges Balandier di cui scrisse la prefazione (2). Subito dopo entrava a far parte del discorso intellettuale mondiale. Perché? Bisogna ricordarsi i dibattiti del dopoguerra. La fine della seconda guerra mondiale sanciva la sconfitta del fascismo e il trionfo dell’alleanza tra occidentali e sovietici. Il mondo riprendeva fiato.<br />Nonostante le massicce distruzioni della guerra e le difficoltà d’approvvigionamento in Europa, si respirava di nuovo un clima d’ottimismo. Ma appena stabilizzata la pace, scoppiava la guerra fredda. Le relazioni interstatali si andavano ad articolare intorno ai suoi principali protagonisti, gli Stati uniti e l’Unione sovietica. Certo, a posteriori, possiamo pensare che questo nuovo assetto dipendesse da un gioco abbastanza formale, di cui gli accordi di Yalta avevano largamente predefinito parametri e limiti. Ciò non toglie tuttavia nulla né alla realtà dello scontro né alla profondità dei sentimenti mostrati, né tantomeno all’impatto che hanno avuto questi ultimi sulle analisi e sull’immaginario popolare. Insomma, il pensiero era modellato dalla guerra fredda.<br /><br />Da qui l’importanza dell’invenzione del concetto di terzo mondo. Il suo merito fu di ricordare l’esistenza di un’immensa zona del pianeta per cui il problema fondamentale non era con quale dei due campi schierarsi, ma quale sarebbe stato l’atteggiamento degli Stati uniti e dell’Unione sovietica nei suoi confronti. Nel 1945, la metà dell’Asia, la quasi totalità dell’Africa, i Caraibi e l’Oceania erano ancora allo stato di colonie. Per non parlare poi dei paesi «semi-colonizzati». In questo vasto mondo sotto tutela, dove la povertà superava - e di gran lunga - quella dei paesi «industrializzati», la priorità veniva data alla «liberazione nazionale». Inglobandoli in un’espressione unica, «terzo mondo», si sottolineavano sia le caratteristiche che accomunavano tutti questi paesi, sia il fatto che non erano necessariamente implicati nella guerra fredda. La formula faceva poi allusione agli sforzi di alcuni intellettuali europei per creare una «terza forza» tra comunisti e anti-comunisti. Faceva infine - e soprattutto - riferimento alla Rivoluzione francese e al celebre testo di Sieyès: «Cos’è il terzo stato? Tutto. Cosa è stato finora nell’ordine politico? Nulla.<br /><br />Cosa chiede? Diventare qualcosa (3)». All’inizio, né Washington né Mosca prestarono la minima attenzione al terzo mondo e alle sue rivendicazioni. Gli Stati uniti consideravano la questione coloniale assolutamente secondaria e si affidavano, per risolverla, ai buoni propositi delle potenze coloniali. Che, dal canto loro, consideravano quasi inimmaginabile che i loro territori d’oltremare potessero ottenere in tempi rapidi l’indipendenza. Quanto all’Urss, essa diffidava di qualsiasi movimento nazionale - anche se sotto egida comunista - che si sviluppasse in paesi in cui non erano dispiegate truppe sovietiche. Ricordiamoci, dopo il 1946, l’abbandono dei comunisti greci nel bel mezzo della guerra civile o i consigli di prudenza rivolti ai comunisti cinesi perché raggiungessero un accordo con Chiang Kai-shek - consigli che Mao semplicemente ignorò.<br /><br />Alla sua ribellione farà poi seguito quella di Tito, leader di un altro paese comunista, la Jugoslavia, dove le forze militari sovietiche erano assenti. Così, fino alla metà degli anni 50, i due Grandi condividevano la formula di John Foster Dulles, secondo cui «il neutralismo [era] immorale». Ma tale atteggiamento divenne presto insostenibile: la realtà del terzo mondo prendeva il sopravvento.<br /><br />In Asia, non era possibile ricostituire le colonie. La maggior parte di esse erano state occupate dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale, così che dopo il 1945 i poteri coloniali erano in una posizione di debolezza. Gli Stati uniti, già nel 1946, concessero l’indipendenza alle Filippine, ma la Francia non volle seguire il loro esempio in Indocina, né i Paesi Bassi nelle Indie olandesi - il che provocò le due guerre poi perse dalle potenze coloniali. Londra ripiegava più rapidamente, accettando l’indipendenza della Birmania, dell’India e del Pakistan. La situazione del Medioriente, benché più complicata, portò a risultati simili. Si apriva quindi l’epoca delle «decolonizzazioni». Tali decolonizzazioni furono concesse o strappate? Si trattò probabilmente di un duplice movimento. Alcuni paesi, strappando l’indipendenza, spingevano i poteri coloniali a concederla ad altri. Il fenomeno, comunque, si amplificava. E, improvvisamente, il terzo mondo si organizzava e si dotava di una base teorica.<br /><br />Nel 1954, cinque leader di altrettanti paesi che rifiutavano il manicheismo della guerra fredda - l’indiano Nehru, l’egiziano Nasser, lo jugoslavo Tito, l’indonesiano Sukarno e il singalese Kofelawala - si riunivano e decidevano di convocare una conferenza afro-asiatica a Bandung.<br /><br />Chi invitare? Volendo creare una forza interstatale, si rivolsero unicamente a stati indipendenti. Fu invitata - decisione fondamentale - la Cina, e anche il Giappone e i due Vietnam, ma nessuna delle due Coree. L’Unione sovietica aspirava ad essere ammessa in virtù delle sue repubbliche asiatiche, ma la sua richiesta fu respinta. Il che vuol dire che, nel 1955, già si distingueva tra Mosca e Pechino. L’Urss ne avrebbe tratto la lezione l’anno seguente: dopo il XX congresso del Pcus e il famoso rapporto Krusciov, smetteva di descrivere i movimenti di liberazione nazionale del terzo mondo come «borghesi» e «reazionari» e, improvvisamente, riconosceva loro delle virtù «democratiche» e persino dei germi di «socialismo». Un gesto che non fu affatto ricompensato dai leader del terzo mondo, per lo più recalcitranti all’idea di associare il loro paese a quelli del campo socialista in un unico blocco «progressista».<br /><br />Instabilità dell’economia-mondo capitalista Autonomo, il movimento terzomondista avrebbe quindi mantenuto il vento in poppa per tutti gli anni 60. I paesi afro-asiatici stringevano legami con l’America latina, sotto l’etichetta di paesi «non allineati» o di Tricontinentale, dopo il successo della rivoluzione cubana di Fidel Castro. Lungi dal condannarli, i protagonisti della guerra fredda li corteggiavano attivamente. E non a caso: fin dal 1960, grazie alla maggioranza di cui disponevano all’Assemblea generale delle Nazioni unite, essi potevano imporre una serie di dichiarazioni che legittimavano le loro aspirazioni anticoloniali. Fu così che fecero del decennio ’70 gli anni dello sviluppo. Al culmine di questi sforzi ci fu la decisione, presa collettivamente dai membri dell’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (Opec) nel 1973, di aumentare il prezzo del greggio, scatenando il panico in Occidente. Il cosiddetto mondo «sviluppato» sarebbe diventato dipendente dai paesi produttori?<br /><br />Ventisette anni dopo, in piena globalizzazione neoliberale, si stenta a credere che la situazione si sia rovesciata a tal punto. Ormai nessuno immagina più che la Libia possa comprare gli Stati uniti. Il dirigismo economico è passato di moda e lo spirito di Bandung scomparso. Cosa è accaduto perché si producesse una simile inversione di rotta? Tutto comincia nel 1968, rivoluzione mondiale nei due sensi del termine.<br /><br />Essa infatti si espandeva sui tre mondi - Occidente, i cosiddetti paesi socialisti e il terzo mondo. E, al tempo stesso, tutte le insurrezioni riprendevano, al di là del loro linguaggio specifico, due tematiche proprie del «sistema-mondo».<br /><br />Prima tematica: geopolitica. I rivoluzionari del 68 condannavano l’egemonia americana e le sue manifestazioni più nefaste, come la guerra del Vietnam. Allo stesso tempo, denunciavano la «collusione sovietica» con tale egemonia. Da cui lo slogan cinese delle «due superpotenze». Tale approccio spingeva i militanti, nei paesi occidentali, a dedicarsi principalmente e con passione ai movimenti di solidarietà con il terzo mondo: è l’epoca di «uno, due, tre Vietnam». Ma vi era anche una seconda tematica: il periodo 1945-1968 aveva visto, quasi ovunque, realizzarsi un sogno centenario, quello coltivato dai tre diversi movimenti anti-sistema - comunista, social-democratico e di liberazione nazionale - di raggiungere i vertici dello stato.<br /><br />Il comunismo - o ciò che veniva presentato come tale - si estendeva su un terzo del pianeta. I paesi occidentali erano diventati keynesiani, con tanto di politiche sociali, partiti di «sinistra» legittimi e «alternanza» al potere. Quanto ai movimenti di liberazione nazionale nel terzo mondo, avevano trionfato, o erano sul punto di vincere.<br /><br />Gli uni come gli altri si ispiravano ad una strategia fondata su due tappe, la cui teorizzazione risaliva alla fine del XIX secolo: si trattava di accedere prima di tutto al potere statale, per poi cambiare il mondo. Conclusa la prima fase, bisognava giudicare i risultati della seconda. E, nel 1968, i rivoluzionari potevano infine stilare un bilancio tragico: il mutamento annunciato aveva, ovunque, mancato il suo appuntamento con la storia. È così che si apre l’epoca della disillusione. Nel 1978, Jacques Julliard lanciava, dalle colonne del Nouvel Observateur, una polemica dal titolo «La sinistra e il terzo mondo», denunciando tutta una serie di regimi corrotti, ingiusti, polizieschi, cruenti accanto ad altri caotici, tirannici e non meno sanguinari. La sua conclusione: «Il diritto dei popoli è diventato il principale strumento per soffocare i diritti dell’uomo». L’anno seguente il settimanale riprendeva il dibattito in un libro (4), che raggruppava cinque contributi ostili al «terzomondismo», altri cinque che ne prendevano le difese e cinque interventi di mediazione. Jacques Julliard definiva in quest’occasione il «terzomondismo» come «surrogato di un’escatologia socialista ormai in pezzi».<br /><br />Una volta caduto il muro di Berlino, e con lui i regimi comunisti, la discussione sul «terzomondismo» venne chiusa. Dibatterne ancora avrebbe voluto dire prenderla sul serio. Ciò che contava ormai erano solo i «diritti dell’uomo» e, allo stesso tempo, il «dovere di ingerenza». Faceva quindi seguito un decennio di «ingerenze», dal Golfo ai Balcani passando per l’Africa, con i «brillanti» risultati che sappiamo. Certo, gli apostoli dell’interventismo spiegano che questi risultati mediocri sono il frutto del carattere inefficace, esitante e pavido degli interventi. Nel terzo mondo, invece, quest’evoluzione viene letta come il risorgere di una dottrina imperialista dalla pretese civilizzatrici. L’incomprensione reciproca è totale.<br /><br />Ma, in verità, a che punto ci troviamo? L’economia-mondo capitalista sembra al suo apice: è quindi destinata ad entrare in crisi. Il sistema-mondo appare in effetti in via di disgregazione. Come qualsiasi altro sistema, il capitalismo si mantiene grazie ad alcuni meccanismi che gli permettono di ristabilire il suo equilibrio ogni volta che i propri meccanismi gli sfuggono di mano, cioè ogni volta che lo scarto rispetto alla norma diventa eccessivo. Questa è d’altronde la ragione per cui il nuovo equilibrio non è mai esattamente identico al precedente: lo scarto deve raggiungere una certa ampiezza perché si sviluppi il contro-movimento, e l’economia-mondo capitalista, come qualsiasi altro sistema, comporta diversi ritmi ciclici. Dal 1945, infatti, l’economia-mondo è passata attraverso un tipico ciclo di Kondratiev (5). Il dopoguerra si apre con i «trent’anni gloriosi», sorprendente periodo di crescita mondiale, sia in Occidente che nel blocco socialista (che se la cava particolarmente bene) e nel terzo mondo. È anche il periodo in cui si afferma incontestata l’egemonia degli Stati uniti e si diffondono i movimenti di liberazione nazionale.<br /><br />Ad esso segue una lunga «fase B», caratterizzata dalla stagnazione economica e dall’aumento della disoccupazione. Vecchie industrie vengono delocalizzate verso zone con manodopera a basso costo, selezionate con cura, che sembrano conoscere uno sviluppo improvviso. Questa fase, detta B, del ciclo di Kondratiev prevede anche il trasferimento sotto altri cieli di settori produttivi che in passato rappresentavano importanti fonti di accumulazione ma che, perduto il loro carattere di monopolio, hanno smesso di esserlo. Per i paesi che le accolgono, si tratta di uno sviluppo «di seconda mano».<br /><br />Ma questa fase vede anche il trasferimento di liquidità dal settore produttivo (meno redditizio) a quello speculativo, con conseguenti crisi di indebitamento e massicci spostamenti di capitali accumulati. L’incredibile boom di questi ultimi anni è determinato dal fatto che gli esercizi speculativi che caratterizzano la fine di una fase B coincidono con la creazione di nuovi monopoli, che devono permettere l’inizio di una nuova fase A.<br /><br />Durante questa evoluzione, il terzo mondo ha perso la sua unità e la sua influenza politica. Ma ha anche subito un netto declino economico. Sopravvive ormai ai margini del sistema-mondo, più polarizzato che mai, in cui le differenze di reddito e di condizioni di vita hanno raggiunto un livello senza precedenti nella storia dell’umanità.<br /><br />Se, come abbiamo visto, l’equilibrio del sistema-mondo capitalista non si ristabilisce mai completamente, è perché i contro-movimenti implicano la modificazione dei parametri che sostengono il sistema. L’equilibrio è quindi perennemente in divenire, determinato dalla combinazione di ritmi ciclici e di trend (tendenze) secolari. Questi ultimi tuttavia non possono perpetuarsi all’infinito, perché ad un certo momento si scontrano con dei limiti.<br /><br />Quando ciò accade, i ritmi ciclici non riescono più a ristabilire l’equilibrio. Il sistema deraglia e, entrando nella sua crisi terminale, si trova di fronte ad una biforcazione. Deve cioè scegliere tra due (o più) strade che portano a una nuova struttura, con un nuovo equilibrio, nuovi ritmi ciclici e nuovi trend di lungo periodo. Tale scelta non può tuttavia essere predeterminata, perché dipende da un numero infinito di fattori, che in parte sfuggono ai vincoli del sistema. Ed è precisamente ciò che sta accadendo in questo momento. Per rendersene conto, bisogna esaminare i tre principali trend secolari che si stanno avvicinando al loro punto di rottura e che pertanto frenano l’accumulazione incessante di capitale - che è il carattere distintivo del capitalismo in quanto sistema storico. Questa triplice pressione tende a rendere inoperante il motore principale del sistema e a provocare una crisi strutturale.<br /><br />La prima tendenza secolare è l’incidenza dei salari reali sui costi di produzione, calcolata sull’insieme dell’economia-mondo. Più è bassa tale incidenza, più alti saranno i profitti. Ma il livello del salario reale è determinato dai rapporti di forza all’interno delle diverse zone dell’economia-mondo. Più esattamente, è legato al peso politico dei vari gruppi antagonisti - la cosiddetta lotta di classe. È infatti ingannevole pensare che il livello dei salari è imposto dal mercato, perché tale livello è anche funzione, da una parte, della forza politica dei lavoratori, settore per settore, e dall’altra, delle reali possibilità di delocalizzazione che si offrono al padronato. Due fattori in costante mutamento. I lavoratori, in qualsiasi area geografica si trovino, cercheranno sempre di mettere in piedi un’organizzazione di tipo sindacale e azioni rivendicative che permettano loro di negoziare in maniera più efficace con i propri datori di lavoro. E, se è vero che a volte possono subire qualche rovescio, determinato dalle controffensive politiche organizzate dai gruppi capitalistici, è pur vero che, sul lungo periodo, la tendenza alla «democratizzazione» delle istanze politiche, caratteristica di tutta la storia del sistema-mondo moderno, ha accresciuto il potere politico delle classi lavoratrici.<br /><br />Per far fronte a questa situazione, i capitalisti del mondo intero hanno giocato - con successo - la carta della delocalizzazione di alcuni settori economici verso zone a bassi salari. Un’operazione politicamente delicata, che in particolare deve considerare, nella stima degli eventuali profitti, anche una valutazione del diverso livello di specializzazione della manodopera.<br /><br />I nuovi immigrati di origine rurale, che per la prima volta si immettono sul mercato del lavoro, costituiscono da sempre il principale serbatoio di manodopera a basso costo, perché accettano salari inferiori agli standard mondiali. Il loro reddito sarà comunque superiore a quello che percepivano dalle loro precedenti attività agricole e, a causa del loro sradicamento sociale e del loro disorientamento politico, essi non saranno in grado di difendere i loro interessi. Questi due fattori, tuttavia, sono destinati a scomparire col tempo e, progressivamente, anche questi lavoratori cominceranno ad esigere una migliore remunerazione. Ma, soprattutto, sono ormai cinquecento anni che il mondo si deruralizza e tale processo ha subito dopo il 1945 una brusca accelerazione.<br /><br />Fra venticinque anni il vecchio mondo agricolo sarà probabilmente scomparso. E i capitalisti non avranno allora altra scelta che restare dove sono e accettare la lotta di classe. Ma, a questo punto, avranno perso il loro vantaggio. Perché, malgrado la polarizzazione dei redditi reali, si approfondiscono, tanto nei paesi ricchi che in quelli poveri, le competenze politiche e la conoscenza del mercato, anche tra i ceti meno abbienti. Persino gli abitanti dei barrios e delle favelas - la maggior parte dei quali, tecnicamente disoccupata, vivacchia grazie all’economia informale - sanno bene che esistono ormai alternative reali che permettono loro di domandare un salario decente in cambio della sottomissione all’economia formale del salariato. Tutti fattori, questi, che esercitano ed eserciteranno una pressione sempre più forte sui livelli di profitto.<br /><br />La seconda tendenza a lungo termine che minaccia il capitalismo riguarda il costo degli input materiali. Da cosa dipende tale costo? Esso comprende non solo il loro prezzo d’acquisto, ma anche gli oneri legati alla lavorazione dei materiali. Se il prezzo d’acquisto è coperto interamente dall’impresa, che ne trarrà poi eventualmente un profitto, le spese per la lavorazione dei materiali sono invece spesso pagate da terzi. Per esempio, se la trasformazione di una materia prima produce residui tossici, il costo reale comprenderà alla fine anche le spese sostenute per lo smaltimento di tali residui.<br /><br />Le imprese, ovviamente, cercano di ridurre al minimo il costo di questo tipo di operazione e, a tal fine, possono ad esempio riversare i rifiuti in un corso d’acqua, dopo una sommaria decontaminazione. Tale operazione è definita dagli economisti «esternalizzazione dei costi». Riprendiamo il nostro esempio. Gli agenti inquinanti riversati nel ruscello rischiano di avvelenarne le acque e anche di causare, magari decine di anni dopo, gravi danni. Insomma, benché esternalizzati, i costi rimangono tangibili, anche se sono difficili da valutare.<br /><br />Per far fronte al problema, la collettività può promuovere un’azione di disinquinamento: in tal caso l’istanza che si fa carico dell’operazione di risanamento - spesso lo stato - ne sosterrà i costi. Il che provocherà un sensibile abbassamento dei costi delle materie prime per alcuni produttori, e di conseguenza un aumento dei loro margini di profitto, a scapito delle collettività, su cui hanno scaricato una parte del costo reale delle loro produzioni.<br /><br />Ma anche questa logica, come la riduzione dei costi salariali mediante la delocalizzazione, non può funzionare in eterno. A lungo andare, infatti, non ci saranno più corsi d’acqua da inquinare o non si potranno più tagliare alberi senza produrre gravi e immediati rischi per l’equilibrio della biosfera. E questa è precisamente la situazione in cui ci troviamo oggi dopo cinque secoli di pratiche irresponsabili, il che spiega lo sviluppo spettacolare del movimento ecologista in tutto il mondo. Ovviamente i governi potrebbero intraprendere un’immensa campagna di disinquinamento e di rinnovo organico. Ma essa presuppone notevoli spese. Chi se ne farà carico? Le imprese ritenute responsabili dell’inquinamento, o i cittadini? Nella prima ipotesi, i margini di profitto delle imprese interessate si ridurrebbero drasticamente. Nella seconda, si registrerebbe un aumento considerevole della pressione fiscale. E, d’altra parte, disinquinare e rinnovare la biodiversità senza mettere in discussione le attuali pratiche inquinanti equivale più o meno a ripulire le stalle di Augia. Non scorgendo quindi alcuna soluzione plausibile a questo dilemma sociale nell’ambito dell’economia-mondo capitalista, considero che essa costituisca il secondo vincolo strutturale che frena l’accumulazione del capitale. Il terzo riguarda la tassazione. Serve a finanziare i servizi pubblici, e le imprese l’accettano come parte dei costi di produzione, purché non sia troppo alta. Ma quali sono le cause dell’aumento della pressione fiscale? Da una parte, le esigenze di sicurezza (esercito, polizia), che nel corso dei secoli hanno comportato spese sempre più elevate.<br /><br />Dall’altra, l’istituzione di burocrazie amministrative sempre più estese, create innanzitutto per percepire le imposte, poi per garantire lo svolgimento delle diverse funzioni dello stato moderno. Fra esse, anche lo sviluppo di servizi sociali pubblici, in risposta alle rivendicazioni popolari, che ha in un certo modo assicurato una relativa stabilità politica di fronte al crescente malcontento dei più poveri.<br /><br />Sorta di tangente pagata per ammansire le «classi pericolose», per contenere cioè la lotta di classe, la risposta a queste rivendicazioni popolari - che noi definiamo «democratizzazione» - costituisce anch’essa una tendenza strutturale degli ultimi secoli. Le principali richieste riguardano l’istruzione, la sanità e la garanzia di un reddito per tutta la durata della vita, in particolare quindi sussidi di disoccupazione e pensioni per i più anziani. Ma, benché tali domande siano state ormai quasi universalmente soddisfatte, il livello di richieste sociali continua ad aumentare in tutti i paesi.<br /><br />Tutti contro lo stato CiÒ dovrebbe comportare un po’ ovunque un aumento dei tassi d’imposizione fiscale, al punto da costituire un serio ostacolo all’accumulazione di capitale. Ecco perché i capitalisti fanno campagna in favore di una massiccia riduzione delle imposte, e denunciano l’alta pressione fiscale sulle famiglie, cercando di guadagnarsi l’appoggio delle classi popolari. Ma se l’alleggerimento della pressione fiscale è un tema molto popolare, lo stesso non può dirsi per la riduzione delle prestazioni sociali. Questi tre principali vincoli strutturali, risultato di tendenze sempre più accentuate, minano la capacità di accumulazione del capitale.<br /><br />Una crisi resa ancor più grave dalla perdita di legittimità delle strutture statali. Gli stati hanno infatti un ruolo cruciale nella capacità d’accumulazione capitalistica: essi rendono possibile la formazione di semi-monopoli, uniche fonti di profitti considerevoli.<br /><br />Contribuiscono anche - reprimendole o comprandole - ad ammansire le «classi pericolose». Sono infine all’origine della maggior parte delle ideologie che infondono nelle masse una relativa pazienza.<br /><br />Abbiate pazienza, le riforme arriveranno. All’orizzonte si preannuncia un mondo di prosperità e di uguaglianza. Questa la promessa del liberalismo, ideologia dominante da 150 anni a questa parte. Ma anche dei movimenti d’opposizione, ivi compresi quelli che si proclamano rivoluzionari.<br /><br />Ovviamente, fintanto che i movimenti comunisti, social-democratici o di liberazione nazionale si battevano contro regimi dittatoriali, coloniali o semplicemente conservatori, si guardavano bene dall’invitare le folle alla calma. Ma, una volta raggiunto il potere, durante il periodo 1945-1970 (corrispondente alla fase A del ciclo di Kondratiev), trovandosi con le spalle al muro, si videro costretti a loro volta a chiedere ai popoli di attendere, in vista di un futuro che, ovviamente, sarebbe stato radioso. Ma non se ne è fatto nulla. Nonostante le numerose e necessarie riforme, i movimenti post-rivoluzionari non sono stati in grado di ridurre in maniera significativa la polarizzazione delle ricchezze, né tantomeno di instaurare una reale uguaglianza politica. E, poiché il sistema-mondo è sempre l’economia-mondo capitalista, i regimi posti al di fuori del centro si sono ritrovati nell’impossibilità strutturale di «riagganciare» i paesi ricchi. Questo fallimento storico ha generato un’immensa disaffezione nei confronti dei movimenti contestatari che, se ancora godono di qualche sostegno, è perché costituiscono un «male minore» rispetto a movimenti più a destra e non perché siano realmente latori di un nuovo progetto di società. Ciò ha generato un massiccio disinvestimento nei confronti delle strutture statali. Un po’ ovunque, coloro che un tempo consideravano lo stato una potenza trasformatrice, manifestano ormai un profondo scetticismo rispetto alla sua capacità di promuovere i cambiamenti, o addirittura di difendere l’ordine sociale. Questa ondata mondiale anti-statalista ha due conseguenze immediate.<br /><br />Innanzitutto, la moltiplicazione delle paure sociali, che spinge gli individui a sottrarre allo stato la sua funzione di garante della sicurezza. Il che genera un circolo vizioso: più la gente si fa carico individualmente della propria difesa, più la violenza diventa caotica e più difficile sarà per lo stato gestire la situazione. Tale dinamica compare nei vari paesi che compongono l’economia-mondo in momenti e secondo ritmi diversi, ma tende ad accelerare quasi ovunque.<br /><br />Seconda conseguenza: per uno stato delegittimato è molto più difficile ammansire le «classi pericolose» e quindi svolgere quella funzione di garante dei semi-monopoli di cui i capitalisti hanno bisogno.<br /><br />Mentre questi ultimi devono far fronte ai tre fattori succitati di abbassamento tendenziale del tasso di profitto, gli stati appaiono sempre meno capaci di aiutarli a risolvere questi dilemmi. Di fatto, di questi tempi, gli araldi delle multinazionali all’interno della Banca mondiale danno l’impressione di prestare ai problemi del terzo mondo più attenzione di quanto facciano gli ex militanti di sinistra convertiti ormai alla dottrina dell’«ingerenza» moralizzatrice.<br /><br />Ecco perché possiamo affermare che l’economia-mondo è ormai entrata nella sua crisi terminale, che potrebbe durare mezzo secolo. Resta da vedere cosa succederà nel corso di questa transizione dall’attuale sistema-mondo verso uno o diversi altri sistemi. Da un punto di vista analitico, la risposta dipende dalla relazione tra i cicli di Kondratiev e la crisi sistemica. Da un punto di vista politico, invece, si tratta di determinare quale tipo di intervento sociale è possibile o auspicabile nel corso di tale transizione. I cicli di Kondratiev fanno parte del funzionamento «normale» dell’economia capitalista, ma non si interrompono quando il sistema entra in crisi.<br /><br />I diversi meccanismi che definiscono il comportamento del sistema continuano a funzionare. Quando l’attuale fase B si esaurirà, seguirà senz’altro una nuova fase A, che d’altronde è forse già cominciata. Azzardando una metafora, possiamo paragonare il sistema capitalista a una macchina dal motore integro che si avventura su una discesa corrispondente al ciclo di Kondratiev. Questa macchina, come abbiamo visto, è soggetta a tre vincoli, che possono essere paragonati ad altrettanti danni alla carrozzeria o alle ruote. Nella discesa, quindi, la macchina non procederà in linea retta. Peggio ancora: i freni non funzionano perfettamente. Che succederà? Nessuno lo sa. Salvo che, se l’autista accelera, l’auto potrebbe cadere nel burrone. Joseph Schumpeter (1883-1950) (6) ha detto molto tempo fa che il crollo del capitalismo sarebbe stato determinato dai suoi successi più che dai suoi fallimenti. Abbiamo qui voluto indicare in che modo tali successi hanno, alla lunga, limitato in maniera strutturale quella capacità di accumulazione che il capitalismo dovrebbe assicurare in maniera perpetua. Ecco una prova concreta dell’ipotesi schumpeteriana. Riprendendo la metafora dell’automobile danneggiata, potremmo pensare che, in tali condizioni, un automobilista responsabile ridurrebbe la velocità. Ma, purtroppo, nell’economia capitalista non c’è spazio per i guidatori prudenti. Nessun individuo o gruppo ha il potere di prendere le decisioni da solo. Esse sono determinate da un gran numero di attori sociali, ognuno dei quali agisce autonomamente in funzione dei propri interessi immediati. E possiamo star certi che la macchina, invece di rallentare, andrà sempre più veloce, sebbene le curve si facciano via via più frequenti. Nel nuovo periodo d’espansione in cui entra l’economia-mondo, infatti, le condizioni che hanno spinto il capitalismo verso la crisi si aggraveranno.<br /><br />In termini tecnici, le fluttuazioni diventeranno sempre più caotiche. E, parallelamente, si assisterà ad una vertiginosa regressione dei livelli di sicurezza collettiva e individuale, in relazione alla perdita di legittimità delle strutture statali. Con, come probabile corollario, un conseguente aumento della violenza quotidiana in tutto il mondo.<br /><br />Si aprirà quindi un periodo di grande confusione politica, in cui avremo l’impressione che le griglie interpretative abituali, concepite per comprendere l’attuale sistema-mondo, siano ormai inadeguate. Il che non sarà necessariamente vero: è solo che le analisi tradizionali si soffermeranno sui fenomeni in via di estinzione dell’attuale sistema-mondo, e non sulla transizione in sé.<br /><br />Improvvisamente, l’azione politica non avrà più alcuno strumento per modificare in profondità le realtà del momento. In compenso, poiché l’esito della transizione è imprevedibile e le fluttuazioni seguiranno un corso quasi folle, ogni forma di mobilitazione, per quanto piccola essa sia, avrà conseguenze enormi. Ci stiamo avvicinando ad uno di quei pochi periodi storici in cui può veramente entrare in gioco il libero arbitrio.<br /><br />In questa lunga fase di transizione, assisteremo allo scontro tra due vasti schieramenti: quello di coloro che vorranno conservare, anche in forma diversa, i privilegi assicurati dall’attuale sistema non egualitario; e quello di coloro che auspicano la nascita di un nuovo sistema sostanzialmente più equo e democratico. Ovviamente, i membri del primo schieramento si presenteranno sotto mentite spoglie: si diranno modernizzatori, nuovi democratici, difensori della libertà, progressisti, quando non addirittura rivoluzionari. L’esito dello scontro dipenderà dalla capacità di mobilitazione dei due campi ma anche, in larga misura, dalla capacità di fornire le migliori analisi degli eventi e le alternative più efficaci. Ci troviamo di fronte a un bivio, dove è importante unificare le conoscenze, l’immaginazione e la prassi. L’esito è intrinsecamente incerto e quindi aperto all’azione e alla creatività umana. Il concetto di terzo mondo aveva senso nel quadro politico degli anni 60. Marginalizzato negli anni 80, esso è definitivamente morto negli anni 90. Ma la realtà a cui faceva riferimento è sempre al suo posto, oggi più di ieri. È solo scomparso l’effimero quadro di riferimento in cui tale concetto fu forgiato - la guerra fredda.<br /><br />Ma il nuovo assetto che l’ha sostituito ha chiarito quali sono le reali poste in gioco: l’incredibile polarizzazione dell’economia-mondo capitalista e la sua crisi strutturale, che ci mettono entrambe di fronte a scelte di portata storica.<br /><br />note:<br />* Direttore del centro Fernand-Braudel, Binghamton e ricercatore associato all’Università di Yale, negli Stati uniti. Il suo ultimo libro è L’Utopistique, ou les choix politiques du XXI siècle, Editions de l’Aube, La Tour d’Aigues, 2000. Non è ancora uscito in Italia, dove però sono stati pubblicati Capitalismo storico e realtà capitalistica. Asterios, 2000; Geopolitica e geocultura, Asterios, 1999; Dopo il liberalismo, Jaca Book, 1999. (1) In un articolo pubblicato da France-Observateur intitolato «Tre mondi, un pianeta», Alfred Sauvy parlava di «questo terzo mondo, ignorato, sfruttato, disprezzato [che] aspira, come il terzo stato, a diventare qualcosa». (2) Le Tiers du monde, sous-développement et développement, Puf, Parigi, 1956. (3) Emmannuel-Joseph Sieyès, opuscolo Qu’est-ce que le Tiers Etat? (gennaio 1789). (4) Le Tiers Monde et la gauche, Seuil, Parigi, 1979. (5) Per Nikolai Kondratiev (1892-1938), la storia economica si basa, da due secoli, su alcuni cicli economici lunghi (che durano da cinquanta a sessant’anni), alternati a fasi di crescita legate alle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche (A) e fasi di recessione dovute all’eccesso di impianti e capitali (B).<br /><br />(6) Si legga Benjamin Coriat e Robert Boyer, «Destruction créatrice ou le retour de Schumpeter», Le Monde diplomatique, settembre 1984. Traduzione di S.L.<br /><br /> <br /><br />Pubblicato lunedì 22 Dicembre 2008<br /><br />da: http://www.italia.attac.org/spip/delinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-72934963605705932882008-12-20T18:16:00.000+01:002008-12-20T19:13:41.626+01:00Svegliamoci!La corruzione inconsapevole<br />che affonda il Paese <br />di ROBERTO SAVIANO <br /> <br />La cosa enormemente tragica che emerge in questi giorni è che nessuno dei coinvolti delle inchieste napoletane aveva la percezione dell'errore, tantomeno del crimine. Come dire ognuno degli imputati andava a dormire sereno. Perché, come si vede dalle carte processuali, gli accordi non si reggevano su mazzette, ma sul semplice scambio di favori: far assumere cognati, dare una mano con la carriera, trovare una casa più bella a un costo ragionevole. Gli imprenditori e i politici sanno benissimo che nulla si ottiene in cambio di nulla, che per creare consenso bisogna concedere favori, e questo lo sanno anche gli elettori che votano spesso per averli, quei favori. Il problema è che purtroppo non è più solo la responsabilità del singolo imprenditore o politico quando è un intero sistema a funzionare in questo modo. <br /><br />Oggi l'imprenditore si chiama Romeo, domani avrà un altro nome, ma il meccanismo non cambierà, e per agire non si farà altro che scambiare, proteggere, promettere di nuovo. Perché cosa potrà mai cambiare in una prassi, quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo. Che un simile do ut des sia di fatto corruzione è un concetto che moltissimi accoglierebbero con autentico stupore e indignazione. Ma come, protesterebbero, noi non abbiamo fatto niente di male! <br /><br />E che tale corruzione non vada perseguitata soltanto dalla giustizia e condannata dall'etica civile, ma sia fonte di un male oggettivo, del funzionamento bloccato di un paese che dovrebbe essere fondato sui meccanismi di accesso e di concorrenza liberi, questo risulta ancora più difficile da cogliere e capire. La corruzione più grave che questa inchiesta svela sta nel mostrarci che persone di ogni livello, con talento o senza, con molta o scarsa professionalità, dovevano sottostare al gioco della protezione, della segnalazione, della spinta. <br /><br />Non basta il merito, non basta l'impegno, e neanche la fortuna, per trovare un lavoro. La condizione necessaria è rientrare in uno scambio di favori. In passato l'incapace trovava lavoro se raccomandato. Oggi anche la persona di talento non può farne a meno, della protezione. E ogni appalto comporta automaticamente un'apertura di assunzioni con cui sistemare i raccomandati nuovi. <br /><br />Non credo sia il tempo di convincere qualcuno a cambiare idea politica, o a pensare di mutare voto. Non credo sia il tempo di cercare affannosamente il nuovo o il meno peggio sino a quando si andrà incontro a una nuova delusione. Ma sono convinto che la cosa peggiore sia attaccarsi al triste cinismo italiano per il quale tutto è comunque marcio e non esistono innocenti perché in un modo o nell'altro tutti sono colpevoli. Bisogna aspettare come andranno i processi, stabilire le responsabilità dei singoli. Però esiste un piano su cui è possibile pronunciarsi subito. Come si legge nei titoli di coda del film di Francesco Rosi "Le mani sulla città: "I nomi sono di fantasia ma la realtà che li ha prodotti è fedele". <br /><br />Indipendentemente dalle future condanne o assoluzioni, queste inchieste della magistratura napoletana, abruzzese e toscana dimostrano una prassi che difficilmente un politico - di qualsiasi colore - oggi potrà eludere. Non importa se un cittadino voti a destra o a sinistra, quel che bisogna chiedergli oggi è esclusivamente di pretendere che non sia più così. Non credo siano soltanto gli elettori di centrosinistra a non poterne più di essere rappresentati da persone disposte sempre e soltanto al compromesso. La percezione che il paese stia affondando la hanno tutti, da destra a sinistra, da nord a sud. E come in ogni momento di crisi, dovrebbero scaturirne delle risorse capaci di risollevarlo. Il tepore del "tutto è perduto" lentamente dovrebbe trasformarsi nella rovente forza reattiva che domanda, esige, cambia le cose. Oggi, fra queste, la questione della legalità viene prima di ogni altra. <br /><br />L'imprenditoria criminale in questi anni si è alleata con il centrosinistra e con il centrodestra. Le mafie si sono unite nel nome degli affari, mentre tutto il resto è risultato sempre più spaccato. Loro hanno rinnovato i loro vertici, mentre ogni altra sfera di potere è rimasta in mano ai vecchi. Loro sono l'immagine vigorosa, espansiva, dinamica dell'Italia e per non soccombere alla loro proliferazione bisogna essere capaci di mobilitare altrettante energie, ma sane, forti, mirate al bene comune. Idee che uniscano la morale al business, le idee nuove ai talenti. <br /><br />Ho ricevuto l'invito a parlare con i futuri amministratori del Pd, così come l'invito dell'on del Pdl Granata ad andare a parlare a Palermo con i giovani del suo partito. Credo sia necessario il confronto con tutti e non permettere strumentalizzazioni. Le organizzazioni criminali amano la politica quando questa è tutta identica e pronta a farsi comprare. Quando la politica si accontenta di razzolare nell'esistente e rinuncia a farsi progetto e guida. Vogliono che si consideri l'ambito politico uno spazio vuoto e insignificante, buono solo per ricavarne qualche vantaggio. E a loro come a tutti quelli che usano la politica per fini personali, fa comodo che questa visione venga condivisa dai cittadini, sia pure con tristezza e rassegnazione. <br /><br />La politica non è il mio mestiere, non mi saprei immaginare come politico, ma è come narratore che osserva le dinamiche della realtà che ho creduto giusto non sottrarmi a una richiesta di dialogo su come affrontare il problema dell'illegalità e della criminalità organizzata. Il centrosinistra si è creduto per troppo tempo immune dalla collusione quando spesso è stato utilizzato e cooptato in modo massiccio dal sistema criminale o di malaffare puro e semplice, specie in Campania e in Calabria. Ma nemmeno gli elettori del centrodestra sono felici di sapere i loro rappresentanti collusi con le imprese criminali o impegnati in altri modi a ricavare vantaggi personali. Non penso nemmeno che la parte maggiore creda davvero che sia in atto un complotto della magistratura. Si può essere elettori di centrodestra e avere lo stesso desiderio di fare piazza pulita delle collusioni, dei compromessi, di un paese che si regge su conoscenze e raccomandazioni. <br /><br />Credo che sia giunto il tempo di svegliarsi dai sonni di comodo, dalle pie menzogne raccontate per conforto, così come è tempo massimo di non volersela cavare con qualche pezza, quale piccola epurazione e qualche nome nuovo che corrisponda a un rinnovamento di facciata. Non ne rimane molto, se ce n'è ancora. Per nessuno. Chi si crede salvo, perché oggi la sua parte non è stata toccata dalla bufera, non fa che illudersi. Per quel che bisogna fare, forse non bastano nemmeno i politici, neppure (laddove esistessero) i migliori. In una fase di crisi come quella in cui ci troviamo, diviene compito di tutti esigere e promuovere un cambiamento. <br /><br />Svegliarsi. Assumersi le proprie responsabilità. Fare pressione. È compito dei cittadini, degli elettori. Ognuno secondo la sua idea politica, ma secondo una richiesta sola: che si cominci a fare sul serio, già da domani. <br /><br />(20 dicembre 2008)<br /><br />da: www.repubblica.itdelinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-9135833578155154308.post-64763951977502423872008-12-19T04:11:00.000+01:002008-12-19T04:12:49.729+01:00America: mercato senza fiduciaCOME RISTABILIRE LA FIDUCIA PER FAR RIPARTIRE L'ECONOMIA:<br />Data: Giovedi 18 Dicembre 2008 (19:00)<br />Argomento: Economia<br /><br /><br />LA DIMENSIONE PSICOLOGICA<br /><br /> A CURA DEL GEORGE WASHINGTON'S BLOG<br /><br />La sfiducia deteriorata che sta uccidendo la nostra economia non si attenuerà finché non sarà resa pubblica la verità sugli abusi perpetrati dal nostro governo<br /><br />Oltre ai fattori tecnici che hanno causato la crisi finanziaria – l’enorme bolla speculativa e l'effetto leva, i derivati, il sistema bancario a riserva frazionaria, lo spendere oltre i propri mezzi e così via – c’è un altro fattore importante.<br /><br />Come hanno scritto in ottobre gli psicologi del mercato Richard L. Peterson e Frank Murtha:<br /><br /><br />“Questa crisi è fondamentalmente psicologica. <br /><br />La fiducia è la benzina nel motore del capitalismo. Senza di quella, il motore si blocca. <br /><br />La fede è come la benzina, senza di quella la macchina non si muoverebbe.<br /><br />La fiducia se ne è andata, non c’è più fiducia tra le controparti nel sistema finanziario. Come se non bastasse, la fede è ai livelli minimi. Gli investitori hanno perso fiducia nella possibilità che le azioni forniscano dei rendimenti decenti (poiché non l’hanno più).<br /><br />Ora si tratta di un problema PSICOLOGICO.”<br /><br /><br />Comprensibilmente, il rifiuto della Fed di rivelare a chi ha dato i 2.000 miliardi di dollari di prestiti e l’opposizione di Paulson a divulgare quello che sta facendo il Tesoro (persino alla commissione di vigilanza al Congresso sul programma TARP) si stanno aggiungendo alla sfiducia degli investitori e dei contribuenti. Ovviamente, hanno bisogno di iniziare a rendere pubblico quello che stanno facendo.<br /><br />E i grandi istituti finanziari non si fidano l’uno dell'altro perché sanno che tutte le altre società potrebbero aver tenuto nascosti i loro problemi o falsificato i loro libri contabili. Vedete qui, qui e qui.<br /><br />Il contesto più ampio<br /><br />Ma questi fatti non possono cadere nel vuoto.<br /><br />Ricordate, ogni volta che Paulson, Bernanke e Bush aprono bocca, il mercato cola a picco (vedete qui e qui).<br /><br />Perché? <br /><br />Beh, cosa fareste se, mentre state andando in banca, vi capitasse di vedere il vostro banchiere abituale aggredire una vecchietta e rubarle la borsetta? Andreste diritti in banca come se nulla fosse successo e affidereste i vostri soldi a quel banchiere?<br /><br />Forse no.<br /><br />In modo analogo, la fiducia degli americani nei nostri leader e nel nostro sistema è crollata. Che gli americani ci abbiano riflettuto oppure no, sappiamo tutti che Bush ci ha mentito sulla guerra in Iraq con delle false dichiarazioni sulle armi di distruzione di massa. Sappiamo che l’amministrazione Buh ha messo in atto un’ampia politica di tortura, e ha mentito al riguardo. Sappiamo che il nostro governo ci sta spiando da anni, ma ha mentito al riguardo. Sappiamo che il nostro reparto militare e di intelligence avrebbe dovuto fermare gli attacchi dell’11 settembre, che la versione ufficiale dell’11 settembre è molto dubbia, e che qualcosa doveva essere andato storto per permettere loro di riuscire nel loro intento.<br /><br />Quindi come ristabiliamo la fiducia?<br /><br />Anche se è contro l’opinione prevalente, per ristabilire la fiducia nel nostro governo e nei suoi leader direi che abbiamo bisogno di istituire dei tribunali sui crimini di guerra contro coloro che hanno autorizzato il programma di tortura. Abbiamo bisogno di indagini vere e di rivelazioni complete sulla propaganda sulle armi di distruzione di massa, sullo spionaggio e sull’11 settembre.<br /><br />Tutti sono comunque a conoscenza di queste cose, ma le menzogne e le coperture hanno intaccato profondamente la nostra fiducia.<br /><br />Per quanto complesso possa sembrare, la sfiducia deteriorata che sta uccidendo la nostra economia non si attenuerà finché non sarà resa pubblica la verità su questi abusi perpetrati dal nostro governo.<br /><br />Invece di trascinare al ribasso i mercati con il pessimismo, la divulgazione della verità ristabilirà la fiducia nel nostro governo, nei nostri leader e nel nostro sistema, e ci permetterà di iniziare a ricostruire l’economia e il sistema finanziario.<br /><br />“Ci eravamo sbagliati” sono le tre parole magiche che possono porre fine al cancro della sfiducia e iniziare a far ripartire l’economia.<br /><br />Se siete un economista, uno psicologo, un sociologo o uno storico con esperienza nella psicologia dei mercati, apprezzerei i vostri suggerimenti.<br /><br />Titolo originale: "How To Restore Trust So As to Revive the Economy"<br /><br />Fonte: http://georgewashington2.blogspot.com/<br />Link<br />15.12.2008<br /><br />Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di JJULESdelinushttp://www.blogger.com/profile/13783286136450621508noreply@blogger.com0