giovedì 23 agosto 2007

Giorgio Bocca: la napoletanità non salva Napoli

Lo scrittore Raffaele LaCapria ha elaborato una sua teoria per mettere d’accordo la Napoli della borghesia colta ed europea a quella della camorra sanguinaria e selvaggia.La borghesia napoletana, dice, è rimasta traumatizzata dalla rivoluzione del1799 e dalla repressione sanfedista che ne fece la plebe napoletana con strage di migliaia di persone e con un odio che arrivòa casi di cannibalismo.La Napoli di quelli che guardano a Londra o a Parigi ha il terrore che la bestia plebea si risvegli e la divori. Ha perciò tentato di gettare una testa di ponte verso questo mondo feroce e imprevedibilee ha inventato negli ultimi due secoli la napoletanità, un modo di essere napoletani comune ad entrambi, accettabile da entrambi:il napoletano come lingua comune, le superstizioni,le canzoni, la pizza e i maccheroni, il paesaggio stilizzato delle pastiere, il teatro di Viviani e De Filippo,il cielo e i colori delGolfo.Una teoria elegante ma consolatrice perché la napoletanità non è stata inventata negli ultimi secoli da una borghesia preoccupata ma egemone, ma è lacultura popolare napoletana come si è elaborata nei millenni ed è una cultura non estranea alla camorra,ma sua complice, sua compagna di strada.Nell’analisi della camorra,osserva l’antropologo MarinoNiola, viene sottovalutato il peso dei fattori culturali di cui la borghesia,e prima di lei l’aristocrazia,sono, se non responsabili,complici come il culto della furbizia e del raggiro, la prepotenza e l’arroganza del più forte,l’affermazione del proprio particulare,del proprio io, il doppio gioco fra superstizione e religione, fra tradizione e modernità. In città come Napoli, dicevaBenedetto Croce, «non si è ancora cominciato a portar via le immondiziedel Duecento». E questo nei vicoli come nei palazzi nobiliari o nei quartieri residenziali.La maschera di Napoli, Pulcinella, è il prodotto di questa ambiguità, maschio e femmina, vivo e morto, sciocco e intelligente,insidiosamente servile e senza limiti superbo, irriverente e cortigiano,a volte ottuso a volte furbo, ma sempre come se avesse una forma superiore di ragione. Sulla scena impersonato da Totò, il teatrante principale.La dea della fecondità napoletana cambia nome, ma è sempre la stessa: la Cerere delle spighe mature o la santa Patrizia. San Gennaro nasce nel quartiere dove è nata Santa Patrizia, che è lo stesso in cui sorgeva il tempio di Cerere, e prima che La Capria inventasse la napoletanità,essa celebrava i suoi saturnali a Piedigrotta, le sue feste dissipatrici nei palazzi dei principi, le sue vendette sanguinarie nei bassi e portava in processione Maradona, dipinto su un drappo in posa da condottiero o disegnato suun muro di Secondigliano con in testa la corona dell’Addolorata.Ricordare a un napoletano che la cultura in cui è nato è una cultura tollerante fino alla complicità è impossibile.Avendo scritto sulla moltiplicazione degli impieghi e delle commissioni, l’amico Isaia Sales mi ha osservato: «Tutto si può dire di Bassolino e dei suoi collaboratori tranne di non aver lottato e rischiato in prima persona contro gli abusi, l’illegalità,la camorra».Ma se Napoli è quella che è nonostante gli onesti, è segno che il suo modo di essere non funziona.Quella di La Capria è una teoria elegante ma consolatrice. Se la città è quella che è, nonostante gli onesti, è segno che il suo modo di essere non funziona
(Giorgio Bocca)
da: http://demo.extra.kataweb.it/eolextrademo/index.jsp?giornale=espresso&ref=esphpedi

giovedì 16 agosto 2007

I camorristi non dimenticano

Io Saviano, condannato a morte

di Gianluca Di Feo

La sentenza dei Casalesi: aspetteremo il momento giusto. La vita blindata senza più libertà. Le paure per i familiari. E il coraggio di scrivere e accusare. Per dare una speranza ai giovani. Colloquio con Roberto Saviano


Sono tardarielli ma non scurdarielli. "I Casalesi arrivano tardi, ma non dimenticano mai". Lo spiegò ai magistrati l'unico vero pentito della camorra casertana, ricostruendo come i boss avessero atteso 11 anni prima di eseguire la sentenza contro un loro nemico. Hanno fatto calmare le acque, ridotto al minimo l'attenzione sulla vittima e solo a quel punto sono partiti i killer. Clemenza o perdono non gli appartengono: i signori della nuova mafia hanno dimostrato con il piombo e con il sangue che la loro parola è peggio di una fatwa. Perché loro sanno ricordare. Oggi le dichiarazioni raccolte nelle carceri e l'attività informativa nel triangolo dei boss, tra Casapesenna, Casal di Principe e San Cipriano d'Aversa, il feudo dei Casalesi, sono concordi: anche contro Roberto Saviano è stato emesso il verdetto. I padrini hanno lasciato in bianco solo la data dell'esecuzione: "Basta aspettare, verrà il momento giusto. E allora si chiuderanno i conti". L'autore di 'Gomorra' non si sente un condannato a morte. Quando gli poni la domanda, il volto si illumina con un sorriso ingenuo che tradisce i suoi 28 anni. Perché non accetta nemmeno l'idea di essere costretto all'esilio: "Napoli mi manca tantissimo. Come per tutte le cose che si perdono aumenta il carico di nostalgia. La mia esperienza viene da lì". Oggi può tornare a Napoli quando vuole, circondato però da carabinieri e auto corazzate. E ogni movimento deve essere concordato con la scorta. Il che lo spinge a stare chiuso in casa, a leggere e scrivere. Ma senza radici, senza succhiare linfa alla vita reale, tutto diventa un isolamento sterile. Un incubo che fa passare in secondo piano ogni altra preoccupazione. "Paura non ne ho. Fin quando c'è la parola, la possibilità di trasmettere le proprie idee, quella è la vera difesa. Certo, con il mio lavoro ho esposto anche i miei familiari. L'unico motivo per cui ho maledetto il mio libro è per le pressioni che hanno subito i miei cari e di cui non mi perdonerò".
Attorno a lui spesso c'è il vuoto. Il condominio del centro di Roma dove viveva in una stanza da studente ha protestato per la quiete disturbata dalla scorta. E i vicini della madre hanno addirittura scritto al Comune chiedendo che alla donna venisse 'assegnata una residenza più sicura': un modo burocratico per chiederne il trasloco. Alla 'Süddeutsche Zeitung' ha parlato di una quotidianità randagia, senza fissa dimora, senza più punti cardinali. Tranne quello che considera più importante: la scrittura. "Scoprire quanto potesse essere potente la scrittura è stato uno choc. Non solo per lo sconvolgimento totale della mia esistenza. In genere, un libro non riesce a influire sulla vita dell'autore. Invece intorno a 'Gomorra' si è creato subito un passaparola, una catena di persone che attraverso il libro si sentivano a me vicine e io ho sentito questo contatto con loro. Non avrei mai immaginato tanto. Due siti Web di solidarietà, la vicinanza di amici nuovissimi che hanno protetto le mie parole. E quella di alcuni colleghi".Ci tiene anche a ricordare le persone che si sono occupate della sua sicurezza, gli stessi investigatori che portano avanti le indagini sui Casalesi: il coordinatore della Procura antimafia di Napoli, Franco Roberti; i pm Antonello Ardituro e Raffaele Marino, il colonnello Gaetano Maruccia. A Raffaele Cantone, il pubblico ministero che conduce i processi più importanti contro la camorra casertana, lo unisce anche la pressione continua dei clan. E c'è poi Tano Grasso che lo ha consolato con l'esperienza di chi ha vissuto sotto scorta per un intero decennio. Molte cose l'hanno sorpreso negativamente. "Soprattutto l'accusa di aver infangato la mia terra. Di aver speculato sul suo dolore. C'è stata prima diffidenza e poi ostilità per il modo con cui ho raccontato la criminalità. Da molta intellighenzia napoletana e dal mondo puritano delle lettere che si è sentito invaso da nuovi codici, nuove visioni e soprattutto nuovi lettori".Poi c'è stata una gelosia verso il successo, come se fosse frutto di chissà quale operazione di marketing editoriale. "Invece 'Gomorra' sancisce l'ascesa del lettore e dimostra la grande possibilità della scrittura. Rivoluzionaria. Perché non è la scrittura che apre la testa, non è lo scrittore che rende liberi i lettori. No: è il lettore che rende libero lo scrittore, che cancella la censura. Pamuk, Politkovskaja, Rushdie - che hanno dovuto affrontare situazioni ben più gravi della mia come testimonia il sacrificio della giornalista russa - hanno imposto le loro idee grazie alla spinta dei lettori. È un meccanismo che trasforma il mercato, legando consumo e libertà di scrittura".
Innegabile che le prime minacce dei padrini campani abbiano fatto da volano al successo del volume. "Sono rimasti spiazzati pure loro. Finora in quel territorio persino l'omicidio di un sindacalista non aveva fatto notizia, persino il piano per assassinare un magistrato con il tritolo già pronto non era arrivato sui media nazionali. Non si preoccupavano di intimidire un ragazzotto che aveva scritto un libro di cui si parlava troppo: perché avrebbe dovuto mai attirare attenzione?". La lezione di 'Gomorra' non è passata inosservata anche dentro le altre mafie: le pagine stampate hanno cominciato a dare fastidio. Saviano cita la vicenda di Lirio Abate, costretto a lasciare Palermo dopo il saggio sui complici illustri di Provenzano. Il segno di un'insofferenza crescente contro chi smaschera il vero volto della nuova mafia. Per i Casalesi quella dello scrittore è diventata una sfida continua. Il discorso sulla piazza di Casal di Principe, chiamando per nome i padrini latitanti e invitando la gente a ribellarsi, non è stata perdonato. Poi la presenza in tribunale nel giorno della requisitoria, di fronte ai killer detenuti. "Da anni la criminalità organizzata non si trova più davanti persone che vogliano svelare il meccanismo delle loro attività, il sistema del loro potere. Hanno preso comeuna sfida il mio guardargli in faccia. Loro accettano i professionisti: accettano di venire descritti negli atti dei magistrati, degli avvocati, degli investigatori e in qualche misura anche dei giornalisti. Non accettano invece la mia volontà di usare strumenti 'sporchi' che non possono gestire. Personaggi come Raffaele Cutolo sanno condizionare l'immagine: hanno cercato la pubblicità, le interviste. Ne hanno fatto come uno strumento. Cutolo o altri boss come Augusto La Torre invece hanno reagito perché 'Gomorra' ha spezzato lo schema. Si sono sentiti gestiti da qualcun altro: gli piace essere raccontati, ma alle loro condizioni. La piazza di Casale? Ho chiesto ai cittadini di cacciare i boss, gli ho spiegato che la camorra non portava ricchezza, ma la distruggeva. Nessuno pronuncia mai quei nomi in pubblico a Casale e quel giorno in piazza c'erano tanti ragazzi: bisognava farlo".Nel pensiero di Saviano c'è un chiodo fisso: la questione meridionale. Un concetto su cui si è discusso fino al punto da renderlo logoro, svuotandolo di ogni proposta e soprattutto di qualunque progetto. Ma che oggi si incarna nella realtà di una generazione senza futuro. "Una speranza può nascere solo dai giovani meridionali. La mia è l'unica generazione che emigra in massa, l'unica dagli anni Cinquanta. Si sta imponendo un modello culturale secondo il quale chi resta è un incapace, un fallito, un traffichino. È una cosa pericolosa, contro la quale bisogna reagire. Perché si lasciano andare via i talenti migliori e si spengono le speranze di chi resta, destinandolo a un futuro di mediocrità". E accusa: "La politica ha perso la sua carica riformista, che era stata una caratteristica continua del dopoguerra". Elenca come modelli Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Ernesto Rossi. "Se i politici di oggi si fossero formati su questi libri, invece di avere sul comodino gli scritti di Ho Chi Min o di altri mostri sacri del '68, adesso riuscirebbero a inquadrare i problemi. Il Sud ha prodotto pensatori che avevano capito tutto. Bisogna ripartire da lì: non dimenticare che esiste una questione meridionale".Ma il Sud cambierà? Saprà reagire alla grande slavina che lentamente sommerge la vita civile, l'imprenditoria, la cultura, la politica. Saviano schiera un'ironia amara e inverte il canone di Giacomo Leopardi: "Io ho l'ottimismo della ragione e il pessimismo della volontà".
Cambiare richiederà tempo, almeno un'intera generazione: "Nemmeno io riuscirò a vederlo. Ma se non si comincia, non accadrà mai. Io credo che ci siano realtà che non hanno l'ossessione del turismo, l'idea di un Meridione ridotto a bacheca. Ci sono imprenditori agricoli che recuperano l'eccellenza, maestranze tra le migliori in Europa nel cemento, una leva dinamica di piccoli imprenditori che sono la forza dell'economia campana". Già, ma sono anche i settori più esposti all'assalto della mafia. "Certo, la criminalità organizzata investe dove c'è eccellenza e potenzia queste aziende. Non è vero che la camorra non genera crescita. No. Ma genera una crescita distorta, che non migliora la qualità della vita delle persone; che fa arricchire solo pochi e trasferisce i capitali lontano. È una crescita che impoverisce il Sud". L'altra faccia della medaglia è una classe politica e intellettuale che considera lesa maestà denunciare il dramma della regione. "Sono un'intellighenzia che parla solo di presunta bellezza e ignora i problemi reali. Spendono ore per Caravaggio e non si guardano intorno. È ora di finirla con questo sistema. Chi osserva non ignora la bellezza di Napoli ma proprio da essa parte per denunciare: da Caravaggio bisogna apprendere la forza del guardare in faccia la vita. Loro invece si cullano in una visione consolatoria del Sud, una visione che piuttosto che essere innovativa è terribilmente oscurantista".I leader di partito lo hanno quasi corteggiato, stupiti dalla sua capacità di parlare ai giovani. Da Fassino a Fini, da Visco a Berlusconi, tanti gli hanno trasmesso interesse e manifestato solidarietà. "A parole, ci sarebbero nell'intero arco costituzionale le condizioni per rilanciare la lotta alla camorra". La prova di concretezza verrà anche dalle risposte all'appello del procuratore Roberti, che ha invocato le migliori forze per rispondere alle nuove minacce dei Casalesi. Perché in Campania la grande politica fa come i boss: latita. "Fausto Bertinotti è stato l'unico esponente nazionale ad andare a Casal di Principe, non era mai accaduto prima". Saviano è rimasto colpito dalla scoperta che anche nella base della destra, inascoltata spesso dalle dirigenze, è ancora viva quella mobilitazione antimafia, punto di forza del Msi legalitario di Almirante. Un risveglio che diventa provocazione verso il torpore della sinistra. "È stato bello vedere che c'è una forma di destra sociale che sul territorio sta riscoprendo l'orgoglio di un'identità che non scende a patti con la camorra. La sinistra continua a vivere in un equivoco. Gli slogan sono quelli che vengono da un passato di militanza concreta, ora non hanno più niente dietro. Ma la consapevolezza degli elettori è superiore a quella dei politici. O la politica lo capisce o è finita".
(16 agosto 2007)

da: L'Espresso

mercoledì 15 agosto 2007

Effetto Gomorra

Casalesi, operazione Gomorra

L’allarme del procuratore Franco Roberti: sappiamo che Saviano e il pm Cantone sono nel mirino, chiediamo che vengano schierati gli investigatori migliori contro la camorra casertana. E che ci siano sforzi eccezionali per catturare i padrini latitanti. Perché i Casalesi sono diventati una nuova mafia, che ha infiltrato l’economia e le istituzioni

Il procuratore Franco RobertiLeonardo Sciascia diceva: "I mafiosi odiano i magistrati che ricordano". E i Casalesi odiano anche gli scrittori che fanno conoscere a tutto il mondo il loro vero volto». Franco Roberti, responsabile della Direzione distrettuale antimafia campana e procuratore aggiunto di Napoli, conosce i movimenti sotterranei nelle famiglie casertane. Quegli indicatori che nelle ultime settimane indicano tempesta. Ed interviene con un'intervista a "L'espresso" ? che sarà in edicola domani - pesando le parole una a una, conscio della serietà della situazione: «C'è tutta una serie di segnali che evidenziano come il clan dei Casalesi si stia interessando a investigatori come Raffaele Cantone e a scrittori come Roberto Saviano che hanno provocato con il loro lavoro la sprovincializzazione del fenomeno camorra e fatto conoscere al mondo il vero volto della mafia casalese». «Di questa situazione nei confronti di Cantone e Saviano noi della Direzione distrettuale di Napoli siamo assolutamente consapevoli. Per questo stiamo premendo perché vengano a lavorare nel Casertano i migliori investigatori italiani. Per questo da settembre chiederemo rinforzi quantitativi e qualitativi negli organici degli uffici di polizia che indagano in quell'area». Quello di Roberti è un discorso irrituale. Con bersagli chiari: «Chiederemo uno sforzo eccezionale per la cattura di latitanti storici: Antonio Iovine e Michele Zagaria sono ricercati da oltre dieci anni e sono inseriti nell'elenco dei più pericolosi d'Italia. Ma stiamo già facendo uno sforzo senza precedenti che ha provocato nell'ultimo anno la cattura di Casalesi di primissimo livello come Francesco Schiavone, cugino del celebre Sandokan, Giuseppe Russo o il reggente del clan Sebastiano Panaro. E dimostreremo che non ci sarà nessun calo di attenzione sui Casalesi dopo che il pm Cantone avrà lasciato l'ufficio per un nuovo incarico: l'unità di lavoro casertana della Dda, oltre a me che la coordino, sarà sempre dotata di autentici carri armati, giovani o meno giovani, che assicureranno continuità e incisività alle indagini, sia sul versante militare che su quello degli affari dei Casalesi».
Bastano queste ultime frasi a testimoniare quanto l'aria sia pesante. Per spiegarlo Roberti nell'intervista a "L'espresso" ricorre ai suoi ricordi personali, raccolti direttamente in un ventennio vissuto in prima linea. Perché è dalla fine degli anni Ottanta che i casalesi hanno costruito il loro potere di sangue e denaro, contando sempre sul silenzio. «Hanno sempre avuto tendenze egemoniche. Tutti i media guardavano a Napoli, invece il potere era nel Casertano. Carmine Alfieri, il capo indiscusso della camorra tra il 1984 e il 1992, si riteneva un subordinato di Antonio Bardellino, il fondatore dei Casalesi. Dopo il pentimento, Alfieri mi raccontò: "Io a Bardellino non potevo dare consigli. Era un grande campano, davanti a lui mi toglievo tanto di capello"». Ma la vera forza dei signori della provincia più criminale d'Italia, arrivata a segnare il record mondiale di omicidi, è il fiuto per gli affari: «Sono stati i primi a uscire dal settore edile e dagli appalti per inserirsi nel ciclo dei rifiuti, nella produzione di beni di largo consumo, nelle aziende agro-alimentare, nei giochi e nelle scommesse legali, nei consorzi di bonifica. Non dimenticherò mai come nel dicembre 1992 scoprii il nuovo business dei rifiuti. Interrogavo Nunzio Perrella, un trafficante del Rione Traiano che era passato dalla droga alla munnezza. Da Thiene nel Vicentino raccoglieva le scorie tossiche delle fabbriche di vernice e li sversava in Campania. E disse che a comandare erano i Casalesi». Adesso la capacità dei Casalesi ? prosegue Roberti nell'intervista a "L'espresso" che sarà in edicola domani - è andata ancora oltre: sono passati dall'economia industriale a quella finanziaria. «Sono così ricchi che agiscono investendo capitali nelle imprese legali, senza pretendere il controllo della gestione. Hanno inventato le società a p.c.m. ossia a partecipazione di capitale mafioso, che sono ormai parte rilevante dell'economia campana e nazionale. Ma trovano mercato anche all'estero. Perchè la loro strategia è vincente: i boss guadagnano facendo risparmiare le imprese. Sono più morbidi nelle banche: chiedono interessi inferiori, non fanno fretta per recuperare l'investimento. Hanno una ricchezza talmente vasta che li esonera dalle intimidazioni e dallo strozzinaggio. Il processo Zagaria sulle infiltrazioni nelle ditte di Parma e della pianura padana dimostra come gli imprenditori del Nord fossero felici di avere i capitali della camorra».
Roberto SavianoPer questo, sostiene Roberti, i Casalesi hanno dato vita a una metamorfosi micidiale: un nuovo modo di essere mafia. «Bisogna aggiornare il concetto di metodo mafioso alla luce della loro trasformazione. Non solo il vincolo di omertà e la forza di intimidazione, ma anche la forza del denaro. E quella delle relazioni imprenditoriali e istituzionali». Perché tutti i grandi gruppi delle costruzioni sono venuti a patti con i Casalesi. E il loro potere non potrebbe esistere senza il sostegno della politica. Un fronte meno esplorato, perché non ci saranno mai baci tra ministri e boss casertani. Non servono più relazioni dirette e vecchie testimonianze di pubblica stima. No, anche in questo i Casalesi sono l'evoluzione della specie. «I rapporti con le istituzioni sono dominati dal mimetismo. Sono rapporti di reciproca funzionalità, un concetto che è stato fissato da sentenze ormai in giudicato. In pratica l'accordo tra padrini e leader politici nazionali avviene mediante gli esponenti locali del partito nel territorio controllato dai boss». E qui Roberti nell'intervista a "L'espresso" che sarà in edicola domani cita le motivazioni di un processo che ha fatto epoca, quello contro Antonio Gava, ex ministro degli Interni, protagonista della politica nazionale e leader della Dc in Campania che era stato accusato di associazione mafiosa proprio con Carmine Alfieri e Antonio Bardellino, il fondatore dei Casalesi. «Dalla sentenza che ha assolto Gava con l'articolo 530 secondo comma, ossia il comma che ha sostituito la vecchia insufficienza di prove, risulta provato con certezza che Gava era consapevole dei rapporti di reciprocità funzionale esistenti tra i politici locali della sua corrente e l'organizzazione camorristica, nonché della contaminazione tra la criminalità organizzata e le istituzioni locali del territorio campano».A gestire lo scambio pensavano quindi altre figure, come il plenipotenziario di Gava, Francesco Patriarca, condannato con sentenza definitiva e arrestato a Parigi nelle scorse settimane, o Antonio D'Auria «segretario di Gava che andava a braccetto con camorristi ergastolani a cui aveva fatto da padrino di cresima» Insomma: la politica usa dei diaframmi per non sporcarsi le mani a livello nazionale. Un modo che rende più sicuri gli uomini di governo e semplifica anche le cose ai boss: più basso il livello, più semplice la trattativa. E se si passa dalla Campania di Gava ai Casalesi di oggi, che puntano sugli esponenti regionali dell'Udeur e dei Ds, si scopre che il quadro non è meno inquietante. Ma Roberti non entra nel merito delle istruttoria ancora aperte. Ribadisce la pericolosità del «rapporto sinallagmatico tra camorra, imprese e politica», che fa prosperare tutti: «I politici ottenevano sostegno elettorale dai clan, tangenti dagli impreditori e creavano consenso sociale con gli appalti. L'impresa conquistava l'appalto e la tranquillità nei cantieri garantita dai boss. La camorra invece portava a casa subappalti, mazzette e il rapporto con i politici per raggiungere protezioni nelle forze dell'ordine o informazioni sulle inchieste. Il tutto poi cementato dalle fatture false, che offrono occasione di riciclaggio e permettono di mettere insieme i fondi per pagare politici e boss».Eccolo il segreto dei Casalesi: l'evoluzione del modello mafioso. Un triangolo d'oro, che funziona senza sparare né minacciare. A patto di costruire una cortina di silenzio. Una cortina doppiamente necessaria mentre si celebrano i processi, condotti e istruiti dal pm Raffaele Cantone, che vedono alla sbarra capi e gregari, cassieri e killer. Ma arriva "Gomorra" e la macchina perfetta dei Casalesi si inceppa: in un anno il libro di Saviano mette sotto i riflettori di mezza Europa famiglie fino ad allora ignorate.«C'è stata un'esplosione di attenzioni proprio nel momento in cui i clan tra processo e affari volevano il silenzio. Ma l'evoluzione in senso mafioso, che ha trasformato la camorra casalese in una parte funzionalmente rilevante dell'economia non solo campana, ma nazionale, con proiezioni forti anche all'estero, ha determinato l'esigenza di tenere bassa l'attenzione su questi interessi economici. E sta creando una riorganizzazione interna, con rischi di tensioni. Perché questa attivazione dei media che ha seguito il libro di Saviano ha provocato la sprovincializzazione del fenomeno camorra e l'effetto, temutissimo perché devastante sugli affari del clan, della caduta di ogni alibi di non conoscenza. Nessuno ormai, quando gli si presenta un imprenditore casalese può dire di non sapere, di non sospettare...».
Una discarica a Caivano,in prvincia di NapoliQuesta nuova sfida sfugge alle categorie con cui i boss cresciuti in campagna interpretano il mondo. Crea un corto circuito nel loro sistema di potere: temono di perdere la faccia e con ciò vedere cadere il rispetto che sostiene il loro dominio sul territorio casertano. Ma sanno che usare i Kalashnikov provocherebbe la mobilitazione dello Stato e farebbe crollare i loro investimenti. «La tensione interna ai clan nasce proprio dalla necessità di tenere bassa l'attenzione sugli affari senza però perdere il controllo militare sugli affiliati. Nel passato recente ci sono stati altri segnali di tensione, che hanno riguardato persino i boss latitanti entrati in contrasto su scelte strategiche che comprendevano anche l'attentato contro un magistrato». Roberti non fa nomi: ma anche allora nel mirino c'era il pm Cantone. Oggi cosa accadrà? Il procuratore aggiunto di Napoli non vuole stare a guardare. E per questo nell'intervista a "L'espresso" che sarà in edicola domani invoca «i migliori investigatori, rinforzi qualitativi e quantitativi degli organici delle forze di polizia, uno sforzo eccezionale per la cattura dei latitanti storici». Perché finora dei Casalesi si è soprattutto parlato, senza che ci fosse una mobilitazione dello Stato per azzerare il loro impero: i padrini hanno affrontato i problemi giudiziari e quelli giornalistici senza che nel loro feudo la loro tranquillità venisse intaccata.«I Casalesi finora hanno mantenuto una pax mafiosa, praticamente senza fatti di sangue. Sanno che l'attenzione per la camorra in genere nasce solo quando si spara. Per cui si fa ricorso a mezzi emergenziali per eludere l'obbligo politico e istituzionale di fronteggiarla su piano ordinario». E Roberti poi pronuncia parole amare per un napoletano che ama la sua terra: «Qui non c'è nessuna emergenza. La camorra è parte integrante della società napoletana e casertana, ne costituisce una delle facce. Bisogna prendere atto che questa realtà è parte di noi. Solo così saranno possibili gli interventi strategici per combatterla».
(09 agosto 2007)

da: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Casalesi-operazione-Gomorra/1714717

domenica 12 agosto 2007

Nuovi partiti o nuova politica?

Il partito che non c'è

LUCA RICOLFI

Vogliono rifare la Dc in piccolo. L’Udc, l’Udeur e altre schegge del mondo cattolico da tempo accarezzano l’idea di ricostituire un nuovo partito di centro - la «cosa bianca» - non pregiudizialmente schierato con la destra o la sinistra, ma capace di condizionarle entrambe con almeno il 10% dei voti. Ridotto all’osso il ragionamento è questo. Quindici anni di bipolarismo hanno certificato che le due coalizioni sono troppo eterogenee e troppo ricattabili dai partiti estremi per poter governare. Chi è al potere non riesce ad attuare il suo programma, e chi è all’opposizione rifiuta in blocco quel poco che chi è al governo riesce a fare. Così non si può andare avanti, ma per fortuna una soluzione c’è: costruiamo un partito moderato di centro, che consenta ai partiti non estremisti di entrambi gli schieramenti, e segnatamente a Margherita, Ds e Forza Italia, di liberarsi della zavorra dei partiti estremisti. Per fare questo basta unire le forze e cambiare il sistema elettorale, eliminando il premio di maggioranza, ad esempio attraverso l’adozione di un sistema elettorale come quello tedesco. Una volta soppresso il premio di maggioranza (che di norma rende autosufficiente la coalizione che ha vinto le elezioni), chi vorrà governare dovrà cercarsi degli alleati, e preferirà senz’altro imbarcare i ragionevoli Casini & Mastella piuttosto che tenersi i bizzosi Diliberto & Calderoli. Così, se Dio vuole, l’Italia avrà finalmente un governo degno di questo nome: fine della seconda Repubblica, e amen per gli ingenui che hanno creduto in questo «bipolarismo sgangherato». Questo genere di ragionamento non è completamente campato per aria. Il suo punto forte, a mio parere, sta nel fatto che - almeno nel decennio 1998-2007, ossia dalla caduta del primo governo Prodi a oggi - il cammino delle riforme è stato lentissimo e qualche volta anche retrogrado. In barba alle promesse di stabilità e alternanza, dall’estate del ’98 a oggi l’Italia ha avuto ben sei governi in 9 anni, che spesso hanno stravolto, disfatto o bloccato quello che i precedenti governi avevano tentato di fare. Il risultato netto di questo continuo fare e disfare, riformare e controriformare, non è ovviamente negativo su tutti i fronti, ma certo è molto inferiore anche alle più scettiche previsioni, e comunque è drammaticamente al di sotto del minimo che sarebbe stato necessario per ammodernare l’Italia, rendendola un po’ più simile ai principali Paesi dell’Eurozona. Insomma, quel che convince dei ragionamenti «centristi» è che, se lo scenario che essi ipotizzano - nuova Dc più sistema tedesco - dovesse andare in porto, difficilmente l’Italia potrebbe essere governata peggio che in questi anni. Nonostante le sue buone ragioni, il ragionamento centrista ha tuttavia - almeno ai miei occhi - un fondamentale punto debole. Tutte le ipotesi di «rifondazione democristiana» partono da un postulato tutto da dimostrare e a mio parere sostanzialmente falso, almeno in Italia: il postulato secondo cui più si è moderati e più si è riformisti, meno si è moderati e più si è ostili alle riforme. Se per riforme non intendiamo, semplicemente, senso delle istituzioni e rispetto dell’avversario, ma il coraggio di fare scelte difficili, talora impopolari, in materia di spesa pubblica, mercato del lavoro, grandi opere, federalismo fiscale, liberalizzazioni, pari opportunità, legalità, meritocrazia - insomma tutto quel che serve per rendere il nostro Paese più moderno e più giusto - non possiamo non vedere che questa attitudine politica nulla ha a che fare con l’essere di destra o di sinistra, ma nemmeno con l’essere centristi o estremisti, moderati o radicali. Il nemico numero uno delle riforme scongelatrici del sistema non è il radicalismo in quanto tale ma - semmai - il «partito della spesa» che teme il mercato, detesta il merito e crede che il compito centrale dell’azione politica non sia di far funzionare le istituzioni, eliminare gli sprechi, lasciare l’ossigeno ai produttori di ricchezza ma, tutto al contrario, sia quello di far affluire «risorse» ai propri protetti. Da questo fondamentale punto di vista non c’è grande differenza fra gli estremisti di An o di Rifondazione comunista e i moderati dell’Udc o dell’Udeur. Basta guardare che cosa succede quando un’azienda pubblica non sta più sul mercato (Alitalia), o quando gli statali pretendono più soldi dei dipendenti privati, o quando i forestali della Calabria minacciano disordini di piazza se non verrà loro conservato il posto, o quando i territori (perlopiù del Mezzogiorno) in cui l’Udc e l’Udeur sono più insediate reclamano «risorse». Certo fa piacere sentire, dopo un quinquennio di silenzio, che un partito come l’Udc sia improvvisamente diventato un grande sponsor delle liberalizzazioni. Ma come dimenticare che - quando era al governo - erano ben altre le priorità? Ricordo un’inchiesta di Franco Bechis che, più o meno a due terzi della legislatura scorsa, aveva calcolato che - se accettate - le proposte di legge dell’Udc sarebbero costate alle casse pubbliche la bellezza di 58 miliardi di euro. E come non ricordare che alcune idee imprescindibili di qualsiasi politica di rilancio dell’Italia, dal federalismo fiscale alle grandi liberalizzazioni (la cosiddetta agenda Giavazzi) sono difese innanzitutto da partiti tutt’altro che moderati, come la Lega e i Radicali? Per farla breve, io temo che da questo fondamentale punto di vista - l’attitudine a sperperare denaro pubblico e la connessa disattenzione per i ceti produttivi - non faccia nessuna vera differenza essere governati da post-comunisti, ex fascisti, o neo-democristiani. Se di qualcosa di nuovo ha bisogno l’Italia, non è di una nuova Dc, ma nemmeno di operazioni (per ora) puramente cosmetiche come il nascente Partito democratico (Ds più Margherita) o la probabile «risposta» del nascituro Partito della libertà (Forza Italia più An). Il primo guaio dell’Italia non è il potere di veto dei partiti estremisti, ma è la mancanza di chiarezza e di coraggio dei grandi partiti che hanno la responsabilità di guidare il Paese. Se i governi di questi anni sono stati deboli e incapaci di fare quel che andava fatto non è solo per colpa delle cosiddette «ali» dei due schieramenti, ossia dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, ma perché i partiti-guida hanno abdicato al loro compito e non hanno voluto prendersi i propri rischi. In questi lunghi anni il riformismo è stato la parola d’ordine di tutti i governi, ma a credere in una vera svolta, in una rinascita anti-assistenziale dell’Italia, sono stati in pochi, in entrambi gli schieramenti. Sia a destra che a sinistra il partito della spesa è più forte del partito del mercato, sia a destra che a sinistra il merito e la responsabilità individuale non contano, sia a destra che a sinistra l’imperativo categorico non è fare le riforme ma impedire agli altri di governare, o di tornare al governo. Ma questi, ahimè, non sono problemi che si risolvono con un nuovo sistema elettorale, né con un nuovo partito: ci vuole un’altra mentalità politica, e probabilmente una nuova classe dirigente. E se proprio si vuole affrontarli con un nuovo partito, è curioso che si pensi di farlo con un partito moderato, clientelare, familista, erede della tradizione cattolica. La Dc, con il valido aiuto dei suoi alleati laici e moderati e la parziale connivenza dell’opposizione comunista, ha portato al collasso i conti pubblici dell’Italia, lasciando alla vituperata seconda Repubblica l’immane compito di riparare i guai della prima. Difficile pensare che siano proprio gli eredi di quel partito a riportarci fuori da quei guai. Come molti italiani, neanch’io credo che il nostro Paese abbia bisogno di un ennesimo partito. Ma se c’è un partito che manca, nel firmamento della politica italiana, non è il partito dei moderati ma, semmai, il partito della responsabilità e del merito. Un partito che non c’è, che probabilmente non ci sarà mai, ma che - se ci fosse - sarebbe radicale. Molto radicale.
da: www.lastampa.it

sabato 11 agosto 2007

Fondamentalismo religioso e tolleranza liberale

Slavoj Zizek: Il credo della passione decaffeinata

il manifesto, 28 febbraio 2004 -
Le credenziali di coloro che, ancor prima della sua uscita, criticano violentemente il nuovo film di Mel Gibson sulle ultime dodici ore della vita di Cristo appaiono impeccabili: non è forse pienamente giustificata la loro preoccupazione che il film, realizzato da un fanatico tradizionalista cattolico con impeti occasionali di antisemitismo, possa innescare sentimenti antisemiti? Più in generale, La passione di Cristo non è una sorta di manifesto dei nostri fondamentalisti e anti-secolaristi (occidentali, cristiani)? Rigettarlo non è dunque dovere di ogni secolarista occidentale? Un attacco così privo di ambiguità non è sine qua non, se vogliamo dimostrare di non essere segretamente dei razzisti che attaccano solo il fondamentalismo di altre culture (islamiche)? La reazione del papa al film è nota: profondamente commosso, ha mormorato: «È proprio come avvenne in realtà!», ma questa affermazione è stata subito ritrattata dai portavoce ufficiali del Vaticano. Così la sua reazione spontanea è stata velocemente sostituita dalla posizione neutra «ufficiale», emendata in modo da non ferire nessuno. Questo spostamento è la migliore esemplificazione di cosa c'è che non va nella tolleranza liberale, con la sua paura politicamente corretta che possa essere ferita la sensibilità religiosa di chicchessia: anche se nella Bibbia si dice che una folla di ebrei chiese la morte di Cristo, non si dovrebbe rappresentare direttamente questa scena, ma sdrammatizzarla e contestualizzarla per chiarire che gli ebrei non possono essere ritenuti responsabili collettivamente per la crocifissione. In tal modo l'aggressiva passione religiosa è semplicemente repressa: essa resta lì, cova sotto la superficie e, non trovando espressione, diventa sempre più forte. È questo lo scenario di fondo che dobbiamo tenere presente nel considerare La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci, questa appassionata difesa dell'Occidente contro la minaccia musulmana, questa aperta affermazione della superiorità dell'Occidente, questa denigrazione dell'Islam non in quanto cultura diversa, ma in quanto barbarie (per cui non saremmo nemmeno in presenza di uno scontro tra civiltà, bensì tra la nostra civiltà e la barbarie musulmana). Il libro è, in senso stretto, l'opposto della tolleranza politicamente corretta: la sua appassionata vitalità è la verità della tolleranza esanime del politicamente corretto. Dentro questo orizzonte, l'unica risposta appassionata alla passione fondamentalista è un secolarismo aggressivo del tipo esibito recentemente dal governo francese, che ha proibito di indossare nelle scuole tutti i simboli e gli indumenti religiosi più evidenti (non solo i veli per le musulmane, ma anche i copricapo ebraici e le croci cristiane troppo vistose). Non è difficile prevedere l'effetto finale di questa disposizione: esclusi dallo spazio pubblico, i musulmani saranno spinti direttamente a costituirsi in comunità fondamentaliste non integrate... Lacan aveva ragione quando sottolineava il collegamento tra la regola della fraternité post-rivoluzionaria e la logica della segregazione. Forse il divieto di abbracciare un credo con totale passione spiega perché, oggi, la cultura stia emergendo come la categoria centrale della vita e del mondo. La religione è permessa non come un modo di vivere sostanziale, ma come una particolare «cultura» o, piuttosto, un fenomeno riguardante gli stili di vita: ciò che la legittima non è la sua pretesa di verità immanente, ma il modo in cui essa ci permette di esprimere i nostri sentimenti e atteggiamenti più riposti. Noi non crediamo più veramente; semplicemente, seguiamo (alcuni) rituali e usi religiosi per rispetto allo «stile di vita» della comunità a cui apparteniamo (pensiamo al proverbiale ebreo non credente che segue le regole kosher «per rispetto della tradizione»). Cos'è uno stile di vita culturale se non il fatto che, anche se non crediamo in Babbo Natale, a dicembre c'è un albero di Natale in ogni casa e anche nei luoghi pubblici? Forse, allora, «cultura» è il nome che diamo a tutte quelle cose che pratichiamo senza crederci veramente, senza «prenderle sul serio». Non è questo anche il motivo per cui la scienza - fin troppo reale - non rientra in questa nozione di cultura? E non è questo anche il motivo per cui liquidiamo i credenti fondamentalisti - che osano prendere sul serio il loro credo - come «barbari», come anti-culturali, come una minaccia alla cultura? Oggi, in ultima analisi, percepiamo come minaccia alla cultura coloro che vivono la loro cultura immediatamente, che non si distanziano da essa. Ricordate l'indignazione quando, tre anni fa, le forze talebane in Afghanistan fecero esplodere le antiche statue dei Buddha a Bamiyan? Sebbene nessuno di noi, occidentali illuminati, creda nella divinità del Buddha, ci ha indignato che i musulmani talebani non dimostrassero il rispetto dovuto all'«eredità culturale» del loro paese e dell'umanità intera. Invece di credere attraverso l'altro come tutte le persone di cultura, essi credevano veramente nella loro religione e dunque non erano molto sensibili al valore culturale dei monumenti di altre religioni. Per loro, le statue del Buddha erano solo dei falsi idoli, non «tesori della cultura». (E, incidentalmente, questa indignazione non è la stessa dell'antisemita illuminato di oggi che, sebbene non creda nella divinità di Cristo, nondimeno rimprovera agli ebrei di avere ucciso nostro Signore Gesù? O la stessa del tipico ebreo secolarizzato che, pur non credendo in Geova e Mosè come suo profeta, nondimeno pensa che gli ebrei abbiano un diritto divino alla terra di Israele?) Questo è il motivo per cui, oggi, una simile passione è politicamente scorretta: tutto sembra permesso, ma in realtà i divieti sono meramente spostati. Pensate all'impasse odierna sulla sessualità o sull'arte: esiste niente di più noioso, opportunistico e sterile che soccombere all'ingiunzione del super-io di inventare incessantemente nuove trasgressioni e provocazioni artistiche (l'attore che si masturba sul palcoscenico o si provoca masochisticamente dei tagli, lo scultore che espone cadaveri di animali in putrefazione o escrementi umani), o all'ingiunzione analoga di misurarsi in forme di sessualità sempre più «audaci»? In alcuni circoli «radicali» negli Stati uniti, recentemente è stata avanzata la proposta di «ripensare» i diritti dei necrofili (coloro che desiderano avere rapporti sessuali con corpi morti). Perché dovrebbero esserne privati? Così è stata formulata l'idea che, così come si firma per autorizzare l'espianto di organi a fini medici in caso di morte improvvisa, si possa anche firmare per consentire che il proprio corpo sia messo a disposizione dei necrofili. Tale posizione realizza la vecchia intuizione di Kierkegaard su come l'unico vicino buono sia il vicino morto: un vicino morto - un cadavere - è il partner sessuale ideale di un soggetto «tollerante» che cerca di evitare qualunque molestia. Per definizione, un cadavere non può essere molestato. Oggi sul mercato troviamo tutta una serie di prodotti che sono stati privati delle loro proprietà dannose: caffè senza caffeina, panna senza grassi, birra senza alcool... E l'elenco continua. Che dire del sesso virtuale come sesso senza sesso, della dottrina di Colin Powell della guerra senza vittime (dalla nostra parte, naturalmente) come guerra senza guerra, della ridefinizione contemporanea della politica in quanto arte del governo tecnico come politica senza politica, fino al credo decaffeinato - un credo che non ferisce nessuno e non impegna pienamente nemmeno noi stessi? Ecco due temi che determinano l'atteggiamento tollerante e liberale di oggi nei confronti degli Altri: il rispetto dell'alterità, l'apertura verso di essa, e la paura ossessiva della molestia. In breve, l'Altro va bene nella misura in cui la sua presenza non è intrusiva, nella misura in cui l'Altro non è veramente Altro. Ciò che sta emergendo sempre di più come il diritto umano fondamentale nella società tardocapitalistica è il diritto di non essere molestati, cioè di poter restare a distanza di sicurezza dagli altri. Una struttura simile è chiaramente presente nel modo in cui ci relazioniamo con l'arricchimento capitalistico: va bene purché sia controbilanciato da attività caritatevoli. Prima si accumulano miliardi, poi li si restituisce (parzialmente) ai bisognosi. E lo stesso è per la guerra, per la logica emergente del militarismo umanitario o pacifista: la guerra va bene in quanto serve veramente a portare pace, democrazia, o a creare le condizioni per distribuire gli aiuti umanitari. Ciò significa che, contro la falsa tolleranza del multiculturalismo liberale, dobbiamo tornare al fondamentalismo religioso? La stessa critica al film di Gibson rende evidente l'impossibilità di tale soluzione. Inizialmente Gibson voleva girare il film in latino e aramaico e proiettarlo senza sottotitoli; sotto la pressione dei distributori, ha poi deciso di prevedere i sottotitoli in inglese (o in altre lingue). Questo compromesso da parte sua non è però una semplice concessione alle pressioni commerciali; rispettare il programma originale avrebbe reso piuttosto evidente la natura auto-confutante del progetto di Gibson. Vale a dire, immaginiamo il film senza sottotitoli proiettato nel grande centro commerciale di un sobborgo americano: la voluta fedeltà all'originale si sarebbe trasformata nel suo opposto, in uno spettacolo esotico e incomprensibile. Ma c'è una terza posizione, oltre il fondamentalismo religioso e la tolleranza liberale. Torniamo alla distinzione «politicamente corretta» tra il fondamentalismo islamico e l'Islam: Bush e Blair (e anche Sharon) non dimenticano mai di elogiare l'Islam come una grande religione di amore e tolleranza che nulla ha a che fare con gli orribili attentati terroristici. Così come questa distinzione tra Islam buono e terrorismo islamico cattivo è un falso, bisognerebbe problematizzare anche la tipica distinzione radicale-liberale tra ebrei e stato di Israele o sionismo, cioè il tentativo di allargare lo spazio in cui gli ebrei e i cittadini ebrei di Israele potranno criticare la politica dello stato di Israele e l'ideologia sionista non solo senza essere accusati di antisemitismo ma anzi basando la loro critica sul loro appassionato attaccamento all'ebraismo, su ciò che essi ritengono vada salvato dell'eredità ebraica. Ma questo è sufficiente? Marx ha detto a proposito del petit-bourgeois che egli vede in ogni oggetto due aspetti, il buono e il cattivo, e cerca di tenere il buono e combattere il cattivo. Bisognerebbe evitare lo stesso errore nel trattare il giudaismo: il «buon» giudaismo levinasiano della giustizia, del rispetto e della responsabilità nei confronti dell'altro ecc., contro la «cattiva» tradizione di Geova, i suoi accessi vendicativi e la violenza genocida contro il popolo vicino. Bisognerebbe avere il coraggio di trasferire il divario, la tensione, nel cuore stesso del giudaismo: non è più questione di difendere la purezza della tradizione ebraica della giustizia e dell'amore per il vicino contro l'asserzione aggressiva sionista dello stato-nazione. Allo stesso modo, invece di celebrare la grandezza del vero Islam contro il suo uso sbagliato da parte dei terroristi fondamentalisti o deplorare il fatto che, di tutte le grandi religioni, l'Islam sia quella che più resiste alla modernizzazione, bisognerebbe piuttosto vedere questa resistenza come una chance: essa non porta necessariamente al fascismo islamico, ma può anche articolarsi in un progetto socialista. Precisamente perché ospita le peggiori potenzialità di una risposta fascista alla nostra situazione presente, l'Islam può anche rivelarsi come il luogo delle potenzialità migliori. Invece di cercare di redimere il nucleo puramente etico di una religione contro le sue strumentalizzazioni politiche, bisognerebbe criticare implacabilmente questo stesso nucleo - in tutte le religioni. Oggi che le religioni stesse (dalla spiritualità New Age al facile edonismo spiritualista del Dalai Lama) sono più che pronte a servire la ricerca postmoderna del piacere, paradossalmente, solo un materialismo coerente è in grado di sostenere una posizione etica militante veramente ascetica.
Traduzione Marina Impallomeni

Il peso della chiesa cattolica nel nostro paese

Ahi Costantin di quanto mal fu madre

di EUGENIO SCALFARI

Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c'è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l'arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l'Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell'America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità. Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L'"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d'una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento. La questione cattolica è dunque quella che spiega più d'ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell'opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...". La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione. Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall'Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto. Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l'emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano. La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall'Austria e da alcuni paesi cattolici dell'America meridionale. Le capacità finanziarie dell'episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l'esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza. A fronte di quest'offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d'intransigenza che sfiorano l'anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l'antica diffidenza di togliattiana memoria. Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un'avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell'ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell'elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza. * * * Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche. Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori". L'obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica. Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l'hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un'altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono. * * * Un elemento decisivo della questione cattolica e dell'anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l'articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un'organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d'un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c'è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d'un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali. Questa doppia elica non esiste in nessun'altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell'impossibilità di realizzare l'unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi. Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all'interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell'episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando. Negli scorsi giorni l'atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante. Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l'otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all'episcopato italiano quell'otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza. * * * Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare. Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell'opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari. Perciò sperare che la democrazia possa diventare l'"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
(5 agosto 2007)

Restaurazione antisindacale

In una intervista pubblicata da L'Unità il 6 agosto 2007, il sociologo Luciano Gallino, componente il Comitato Promotore di Sd dice: bisogna difenderli, hanno un ruolo vitale. Ma in Italia c’è chi sogna la Thatcher

Ora vogliono ammazzare i sindacati

di Roberto Rossi
Residuo premoderno, istituzione demodé, struttura in ritardo irrimediabile sui tempi. Adesso anche casta. Il sindacato in Italia è sottoposto a un pesante attacco come mai prima d’ora. E che ricorda quello che subì, negli anni 80, quello inglese.«È lo stesso piano inclinato» spiega il sociologo Luciano Gallino. Per ora cambia solo la pendenza.
Professore, tra le affermazioni più in voga oggi c’è anche quella di considerare il ruolo del sindacato come troppo invadente nella vita politica del Paese. Concorda?«È un’affermazione fuori da ogni realtà. Se il sindacato avesse tale potere non si spiegherebbe come i salari dei lavoratori dipendenti in Italia siano fermi da oltre dieci anni, ormai quasi 15, mentre sono cresciuti in termini reali in Francia, Germania e altrove».
Qual è la forza, la presa del sindacato nella società?«Il vantaggio del sindacato è che ha una presa diretta con il mondo che lo circonda. Molte persone, forse anche i redattori dell’Espresso, pensano che il sindacato sia fatto da 30-50 signori che stanno seduti in Corso Italia o da altre parti e che da lì sragionino sulle sorti dei lavoratori. Il sindacato è fatto da decine di migliaia di persone in contatto con le forze produttive del Paese, con le crisi aziendali, le delocalizzazioni, giorno per giorno. Hanno un contatto con la realtà superiore ai partiti che una volta avevano sezioni, club, scuole dove si studiava la società, ma che oggi sono spariti».
Perché secondo lei il settimanale l’Espresso, voce rappresentativa di una parte della sinistra, ha dipinto i sindacati come casta proprio ora? In fondo sono gli stessi di dieci anni fa. C’è un motivo contingente?«Non lo so. Ma se ci fosse mi pare che la cosa si profili un po’ preoccupante. Quello che il sindacato ha fatto fino a questo punto è resistere, non molto tutto sommato, sulla questione delle pensioni. E ha finito col firmare un protollo dove le pensioni vengono riformate con differenze minime rispetto al piano del centrodestra. E nel quale si sono presi impegni nel mercato del lavoro che potrebbero essere stati scritti benissimo dal governo Berlusconi. Io mi sono guardato il protocollo Damiano. Il fatto di averlo sottoscritto è per i sindacati un segno di debolezza. Altro che casta! Un documento del genere 10 anni fa non sarebbe stato proponibile».
Anche in Gran Bretagna, negli anni ‘80, il ruolo del sindacato fu pesantemente messo in discussione e poi ridimensionato. C’è un parallelismo?«Purtroppo il piano inclinato è il medesimo. Lì i sindacati sono stati eliminati dalla scena politica ed economica licenziando decine di migliaia di lavoratori. In Italia non siamo allo stesso livello, per fortuna».
Il piano inclinato è l’ideologia liberista?«Direi proprio di sì, ma non solo. Aggiungerei, come ricorda Warren Buffett, il secondo uomo più ricco al mondo, che le forze delle grandi imprese, delle corporation, i loro modelli, hanno vinto. Hanno perseguito un tale successo che contrastarlo appare sempre più difficile».
Ha vinto il concetto di modernismo?«Sì, ma in una concezione molto povera, molto deforme del modernismo. Perché, il modernismo o, meglio, la modernità, mirava alla sintesi, la più alta possibile, tra esigenze individuali e interessi collettivi. Il concetto moderno così come si è è malamente affermato ha sostenuto e sta sostenendo solo il primo aspetto. E cioè un liberismo sfrenato che permette notevoli sviluppi della ricchezza privata a scapito di quella pubblica».
Questo progetto di modernismo di basso profilo ha fatto breccia anche a sinistra?«Ahimè sì. Naturalmente bisogna fare i conti con la storia. Con il fatto che il capitalismo non abbia più antagonisti reali e credibili».
Attaccare il sindacato torna ciclicamente di moda. Era successo con Berlusconi, torna in auge oggi. Perché?«Perché la vittoria di cui parlavamo prima è forse più ampia di quanto non ci potesse aspettare. E, per la verità, non ha trovato grosse resistenze. Sono le capacità critiche che sono venute meno. La capacità di fare fronte ai dati e ragionarci sopra. Gran parte del discorso politico attuale è ideologico, rispetto al quale i fatti e le cifre non esistono più. Mi sembra molto caratteristico quanto è avvenuto sul fronte delle pensioni ma anche sul fronte del mercato del lavoro».
Il segretario della Cgil Epifani ha parlato più volte di un ritorno di un “diciannovismo”, cioè il tentativo di delegittimazione delle istituzioni tra queste anche i sindacati?«Per ora il termine mi sembra forte anche se credo che ci sia qualcosa di vero. Perché così come si attacca il sindacato si attacca anche la politica in quanto tale o le stesse istituzioni della democrazia. Spero che fra quattro o cinque anni non si riveli un termine pienamente azzeccato».
Rispetto a dieci anni fa, diciamo quando il protocollo Damiano non sarebbe stato preso in considerazione, come è cambiato il sindacato?«Potremmo dire che ha qualche acciacco in più. Uno dei problemi principali è una difficoltà di rappresentanza. La frammentazione dell’attività produttiva ha anche frammentato e distribuito sul territorio le forze di lavoro. Inoltre le tecnologie e i nuovi modelli di organizzazione del lavoro hanno moltiplicato e differenziato interessi materiali e ideali dei lavoratori. Però il loro ruolo è ancora vitale. Basta dare un’occhiata a quello che succede nel mondo e uno scopre che dove i sindacati non ci sono di fatto i lavoratori vengono pagati 70 centesimi di dollaro l’ora o fanno 60-70 ore alla settimana».