giovedì 22 gennaio 2009

FIDEL, CRISTINA E BARAK

Fidel, Cristina e Barack, che il pugno degli Stati Uniti diventi una mano tesa verso l’America latina

di Gennaro Carotenuto, giovedì 22 gennaio 2009

Che il presidente della Repubblica argentina, Cristina Fernández de Kirchner, scelga di andarsene a Cuba il giorno dell’insediamento del Presidente degli Stati Uniti e incontri l’influente pensionato Fidel Castro, che da settimane la solita grande stampa dava in coma o già morto, e lo trovi in ottime condizioni, è di per sé una notizia.

Ma il rilievo politico non sta tutto nell’incontro, nel peso politico della visita ufficiale del primo presidente argentino dopo Raúl Alfonsín 23 anni fa, sta nel segnale lanciato da Argentina e Cuba all’uomo appena insediatosi alla Casa Bianca. Per Fidel è “un uomo sincero” e “con buone idee”.


Barack Obama è il decimo presidente degli Stati Uniti da quando Cuba ha smesso di esserne una colonia di fatto ed è il quinto da quando con la caduta del muro di Berlino l’isola grande non è più un satellite dell’Unione Sovietica per essere un piccolo ma rilevante attore autonomo della politica internazionale. Un dato di fatto che potrebbe indurre Obama e il suo segretario di Stato, Hillary Clinton, a riconsiderare mezzo secolo di errori e di crimini iniziati con l’invasione della Baia dei Porci voluta da John Kennedy.

Buenos Aires è geograficamente molto più lontana dall’Avana di quanto non lo sia Washington eppure quella visita ufficiale e quell’incontro proprio mentre in riva al Potomac due milioni di persone si accalcavano a festeggiare Obama ha un significato preciso. Dal mar dei Caraibi fino alla Terra del Fuoco esiste un solo spazio latinoamericano, esiste un concerto latinoamericano che oramai è tornato ad includere pienamente Cuba, dopo decenni di isolamento preteso dalla superpotenza e Obama e Clinton da questo dato ineludibile debbono partire per disegnare la loro politica cubana e latinoamericana.

Argentina e Brasile, i due grandi paesi del Sud, sono in prima fila nel riconoscere a Cuba di aver tenuto alta la bandiera dell’integrazione latinoamericana in tutti questi 50 anni anche quando le due lunghe notti, quella delle dittature e quella neoliberale, rendevano ogni paese del continente una monade completamente isolata dalla regione (salvo che per il Piano Condor, il sistema di sterminio voluto dal Nord) in un sistema economico pienamente coloniale così come tracciato dalla teoria del sottosviluppo.

L’Argentina e il Brasile sono state in prima fila non solo nel dare impulso al pieno reinserimento di Cuba nella comunità internazionale, ma nel costruire una relazione forte con il Venezuela Bolivariano, nel rompere insieme le relazioni con il Fondo Monetario Internazionale, nel difendere la Bolivia dal golpismo finanziato dal Nord, nel dare impulso a tutte le istituzioni integrazioniste, dal Mercosur a Unasur, al Gruppo di Río, al Banco del Sud e nel rifiuto dell’ALCA, il trattato di libero commercio coloniale che gli Stati Uniti volevano imporre al continente.

Oggi l’America latina si profila come un attore capace di parlare come tale forse più di altri ben più consolidati, come la Unione Europea. Parlando alla Scuola latinoamericana di Medicina, la gloriosa istituzione cubana che in questi anni ha laureato decine di migliaia di medici latinoamericani provenienti dalle classi popolari e che solo a Cuba hanno potuto studiare gratuitamente per poi tornare nei loro paesi a mettersi a disposizione della loro gente, Cristina ha detto: “Presto o tardi i popoli trionfano. E questo è quello che sta succedendo nella Nostra America latina”.

Rivolgendosi ai paesi considerati ostili, quelli islamici in primo luogo, Obama ha usato uno dei passaggi più evocativi del suo discorso: “se sarete disposti a sciogliere il pugno vi tenderemo la mano”. Ebbene Fidel e Cristina insieme hanno ribaltato il discorso di Obama: “Gli Stati Uniti hanno sempre mostrato il pugno contro di noi senza mai riuscire a vincerci. Oggi il concerto latinoamericano, se gli Stati Uniti accetteranno di riconoscerlo in quanto tale e sapranno sciogliere il pugno, è disposto a tendere la mano”.

da: http://www.gennarocarotenuto.it/5646-fidel-cristina-e-barack-che-il-pugno-degli-stati-uniti-diventi-una-mano-tesa-verso-lamerica-latina/

venerdì 16 gennaio 2009

IL RITORNO DI MARX

REGOLARE LA FINANZA O SUPERARE IL CAPITALISMO?
Marx, il gran ritorno

Trascurati dai partiti socialisti europei in quanto «vecchie teorie semplicistiche» che sarebbe bene abbandonare, detronizzati nelle università dove furono a lungo insegnati come base dell'analisi economica, i lavori di Karl Marx suscitano di nuovo grande interesse. Del resto, è stato proprio il filosofo tedesco ad analizzare a fondo la meccanica del capitalismo, i cui soprassalti disorientano gli esperti. Mentre gli illusionisti pretendono di «moralizzare» la finanza, Marx ha cercato di mettere a nudo i rapporti sociali.

di LUCIEN SÈVE *
Erano quasi riusciti a farcelo credere: la storia era finita, il capitalismo, con generale soddisfazione, costituiva la forma definitiva dell'organizzazione sociale; la «vittoria ideologica della destra», parola di primo ministro, si era ormai compiuta, solo alcuni incurabili sognatori agitavano ancora lo spettro di non si sa quale diverso futuro. Lo spettacolare terremoto finanziario dell'ottobre 2008 ha spazzato via di colpo questo castello di carte. A Londra, il Daily Telegraph scrive: «Il 13 ottobre 2008 resterà nella storia come il giorno in cui il sistema capitalistico britannico ha riconosciuto il suo fallimento (1).» A New York, davanti a Wall Street, i manifestanti brandiscono cartelli con la scritta: «Marx aveva ragione!». A Francoforte, un editore annuncia che la vendita del Capitale è triplicata. A Parigi, una nota rivista, in un dossier di trenta pagine, analizza, a proposito di colui che si diceva definitivamente morto, «i motivi di una rinascita» (2). La storia si riapre...
Ad immergersi in Marx, più di uno fa delle scoperte. Righe scritte un secolo e mezzo fa sembrano parlarci con sorprendente attualità.
Esempio: «Poiché l'aristocrazia finanziaria dettava le leggi, controllava la gestione dello stato, disponeva di tutti i poteri pubblici costituiti, dominava l'opinione pubblica nei fatti e con la stampa, si riproducevano in tutti gli ambienti, dalla corte fino al caffè più malfamato, la stessa prostituzione, lo stesso inganno spudorato, la stessa sete di arricchirsi non certo con la produzione, ma con la sottrazione della ricchezza altrui (3)...» Marx parla della situazione in Francia alla vigilia della rivoluzione del 1848... Di che far riflettere.
Ma al di là delle sorprendenti somiglianze, la diversa epoca rende gratuita qualsiasi trasposizione diretta. L'attualità, ancora una volta evidente, di quella magistrale Critica dell'economia politica che è il Capitale di Marx, si situa ben più in profondità.
Infatti, a cosa è dovuta l'ampiezza della presente crisi? A leggere quel che quasi tutti sostengono, responsabili sarebbero la volatilità di prodotti finanziari sofisticati, l'incapacità del mercato dei capitali di auto-regolarsi, la scarsa moralità di chi gestisce i soldi... In pratica, si tratterebbe unicamente di errori interni al sistema il quale gestisce, oltre all'«economia reale», quella che viene definita l'«economia virtuale» - come se non si fosse appena constatato quanto anche quest'ultima sia reale. Eppure, la crisi iniziale dei subprime è nata proprio dalla crescente mancanza di denaro di milioni di famiglie americane, a fronte dell'indebitamento dovuto all'essersi candidate a proprietarie. Il che obbliga ad ammettere che, in fin dei conti, il dramma del «virtuale» ha le sue radici nel «reale». E il «reale», nel caso specifico, è l'insieme globalizzato del potere d'acquisto popolare. Dietro lo scoppio della bolla speculativa creata dal dilatarsi della finanza, c'è l'universale accaparramento, da parte del capitale, della ricchezza creata dal lavoro, e dietro questa distorsione, per cui la parte spettante ai salari è diminuita di più di dieci punti, un calo colossale, c'è un quarto di secolo di austerità per i lavoratori in nome del dogma neoliberista. Le trombe della moralizzazione Carenza di regolazione finanziaria, di responsabilità gestionale, di moralità borsistica? Certo. Ma se si riflette senza tabù, si deve guardare ben oltre: occorre mettere in discussione il dogma gelosamente protetto, di un sistema di per sé al di sopra di ogni sospetto, e poi meditare su quella ragione ultima delle cose che Marx chiama «legge generale dell'accumulazione capitalistica». Egli dimostra che, là dove le condizioni sociali della produzione sono proprietà privata della classe capitalista, «tutti i mezzi atti a sviluppare la produzione si mutano in mezzi di dominazione e sfruttamento del produttore», sacrificato all'accaparramento di ricchezza da parte dei possidenti, accumulazione che si nutre di se stessa e tende dunque a diventare folle. «L'accumulazione di ricchezza in un polo» crea necessariamente per converso un'«accumulazione proporzionale di miseria» all'altro polo, e da qui rinascono inesorabilmente le premesse di violente crisi commerciali e bancarie (4). È proprio di noi che si parla in questo caso.
La crisi è scoppiata nella sfera del credito, ma la sua forza devastante si è formata in quella della produzione, con la spartizione sempre più squilibrata del valore aggiunto tra lavoro e capitale, un maremoto che un sindacalismo di bassa lega non ha potuto impedire e che è stato accompagnato da una sinistra socialdemocratica che tratta Marx come un cane rognoso. Non è allora difficile immaginare che valore possano avere le soluzioni alla crisi - «moralizzazione» del capitale, «regolazione» della finanza - proclamate da politici, gestori, ideologi, che ancora ieri fustigavano il semplice sospetto di un atteggiamento non «tutto liberista».
«Moralizzazione» del capitale? È una parola d'ordine che merita un premio all'umorismo nero. Se c'è infatti un ordine di considerazioni che volatilizza qualsiasi regime di sacrosanta libera concorrenza, è proprio la considerazione morale: l'efficienza cinica guadagna colpo su colpo, con la stessa sicurezza con cui la moneta cattiva scaccia la buona. La preoccupazione «etica» è pubblicitaria. Marx risolveva la questione in poche righe nella sua prefazione al Capitale: «Non dipingo certo di rosa il personaggio del capitalista e del proprietario fondiario», ma «meno di qualsiasi altra, la mia prospettiva, in cui lo sviluppo della società in quanto formazione economica è studiato come processo di storia naturale, potrebbe rendere l'individuo responsabile di rapporti di cui rimane socialmente un prodotto (5)... ». Ecco perché non basterà certamente qualche ceffone, per «rifondare» un sistema in cui il profitto resta l'unico criterio. Non si tratta di essere indifferenti all'aspetto morale delle cose.
Anzi, al contrario. Ma, valutato in modo serio, il problema è di tutt'altro ordine rispetto alla delinquenza di padroni canaglia, all'incoscienza di traders pazzi o anche all'indecenza dei paracaduti dorati. Quel che il capitalismo ha di indifendibile in questo senso, al di là dei comportamenti individuali, è il suo stesso principio: l'attività umana che crea ricchezza vi ha lo statuto di merce, ed è dunque trattata non come fine in sé, ma come semplice mezzo. Non c'è bisogno di aver letto Kant per vedervi l'origine prima dell'amoralità del sistema. Se si vuole veramente moralizzare la vita economica, bisogna prendersela con ciò che la de-moralizza. Il che passa certo - amena riscoperta di molti liberisti - per la ricostruzione di regolamentazioni statali.
Ma affidarsi, a questo scopo, allo stato sarkozyano dello scudo fiscale per i ricchi e della privatizzazione delle Poste supera i limiti dell'ingenuità - o dell'ipocrisia. Quando si pretende di affrontare la questione della regolamentazione, è imperativo ritornare ai rapporti sociali fondamentali - e qui, di nuovo, Marx ci offre un'analisi di indiscutibile attualità: quella sull'alienazione.
Nella sua prima accezione, elaborata in celebri testi giovanili (6), il concetto definisce la maledizione che costringe il salariato del capitale a produrre la ricchezza per altri, solo producendo la propria indigenza materiale e morale: deve perdere la vita per guadagnarla.
La multiforme inumanità di cui la massa dei salariati è oggi vittima (7), dall'esplosione delle patologie del lavoro ai licenziamenti borsistici passando per i bassi salari, mostra con grande crudeltà quanto l'analisi sia ancora valida. Ma, nei suoi lavori della maturità, Marx ritorna sull'alienazione dandole un senso ben più vasto: poiché il capitale riproduce costantemente una radicale separazione tra mezzi di produzione e produttori - fabbriche, uffici, laboratori non sono di chi vi lavora - , le loro attività produttive e cognitive, non collettivamente controllate alla base, sono lasciate all'anarchia del sistema della concorrenza, dove si convertono in incontrollabili processi tecnologici, economici, politici, ideologici; gigantesche forze cieche che li soggiogano e li schiacciano.
Gli uomini non fanno la propria storia, è la loro storia che li fa.
La crisi finanziaria illustra in modo terrificante questa alienazione, proprio come la crisi ecologica e quel che bisogna chiamare la crisi antropologica, quella delle vite umane: nessuno ha voluto queste crisi, ma tutti le subiscono.
È da questo «spossessamento generale», spinto all'estremo dal capitalismo, che risorgono inarrestabilmente le rovinose assenze di regolamentazione concertata. Per cui chi si vanta di «regolare il capitalismo» è sicuramente un ciarlatano politico. Regolare sul serio, richiederà molto più dell'intervento statale, per quanto necessario esso possa essere, perché, chi regolamenterà lo stato? Occorre che a riprendere il controllo dei mezzi di produzione siano i produttori materiali - intellettuali finalmente riconosciuti per quel che sono, e che non sono gli azionisti: i creatori della ricchezza sociale, aventi come tali l'indiscutibile diritto di prendere parte alle decisioni di gestione in cui si decide della loro stessa vita. Di fronte ad un sistema la cui evidente incapacità di regolarsi ci costa un prezzo esorbitante, bisogna, secondo Marx, iniziare senza indugio il superamento del capitalismo, lunga marcia verso una diversa organizzazione sociale dove gli esseri umani, grazie a nuove forme di associazione, controlleranno insieme le loro forze sociali impazzite.
Tutto il resto è fumo negli occhi, dunque tragica delusione annunciata.
Si va ripetendo che Marx, molto incisivo nella critica, mancherebbe di credibilità quanto alle soluzioni, poiché il suo comunismo, «testato» all'Est, sarebbe radicalmente fallito. Come se il defunto socialismo staliniano-brezneviano avesse avuto qualcosa di veramente comune con l'idea di comunismo di Marx, di cui quasi nessuno peraltro cerca di recuperare il senso reale, che è agli antipodi di quel che l'opinione corrente mette sotto la parola «comunismo». In realtà, quel che potrebbe essere il «superamento» del capitalismo nel XXI secolo, in senso autenticamente marxista, si delinea sotto i nostri occhi in modo completamente diverso (8).
La bancarotta dell'Homo Ïconomicus Ma qui ci fermiamo: volere un'altra società sarebbe una cruenta utopia, perché non si cambia l'uomo. E «l'uomo», il pensiero liberista sa cosa è: un animale che trae la sua essenza non dal mondo umano, ma dai suoi geni, un calcolatore mosso dal suo solo interesse individuale - Homo Ïconomicus (9) - , con cui non è possibile altro che una società di proprietari privati in concorrenza «libera e non falsata». Ora anche questa idea fa bancarotta. Sotto l'eclatante tracollo del liberismo pratico si consuma sottovoce il fallimento del liberismo teorico e del suo Homo Ïconomicus. Doppio fallimento. Scientifico, prima di tutto. Nel momento in cui la biologia si separa da un semplicistico «tutto-genetico», l'ingenuità dell'idea di «natura umana» salta agli occhi. Dove sono i geni, annunciati con grande clamore, dell'intelligenza, della fedeltà o dell'omosessualità? Quale mente colta può ancora credere, ad esempio, che la pedofilia sia congenita? E fallimento etico. Perché quel che protegge da lustri l'ideologia dell'individuo concorrenziale, è la disumanizzante pedagogia del «diventate assassini», una liquidazione programmata delle solidarietà sociali non meno drammatica dello scioglimento dei ghiacci polari, una de-civilizzazione a tutto tondo per la follia dei soldi facili, che dovrebbe fare arrossire chi osa annunciare una «moralizzazione del capitalismo». Dietro il naufragio storico in cui la dittatura della finanza affonda e ci fa affondare, c'è quello del discorso liberista su «l'uomo».
E lì, sta la più inattesa delle attualità di Marx. Perché questo formidabile critico dell'economia è anche, nello stesso momento, l'iniziatore di una vera rivoluzione nell'antropologia. Una dimensione totalmente misconosciuta del suo pensiero, che non si può esporre in venti righe. Ma la sua sesta tesi su Feuerbach ne esprime lo spirito in due frasi: «L'essenza umana non è un'astrazione inerente all'individuo preso a parte. Nella sua realtà, è l'insieme dei rapporti sociali».
Al contrario di quanto pensa l'individualismo liberista, «l'uomo» storicamente sviluppato, è il mondo dell'uomo. Lì ad esempio, e non nel genoma, si forma il linguaggio. Lì prendono origine le nostre funzioni psichiche superiori, come ha superbamente dimostrato un marxista a lungo misconosciuto, Lev Vygotski, uno dei grandi psicologi del XX secolo, il quale ha così aperto la strada ad una visione completamente diversa dell'individualità umana.
Marx è attuale e anche più di quanto non si pensi? Sì, purché si voglia attualizzare l'idea tradizionale che spesso ci si fa di lui.


note:
* Filosofo. Ha appena pubblicato il tomo 2 di Penser avec Marx aujourd'hui, intitolato L'homme?, La Dispute, Parigi.

(1) The Daily Telegraph, Londra, 14 ottobre 2008.

(2) Le Magazine littéraire, n° 479, Parigi, ottobre 2008.

(3) Karl Marx, La lotta di classe in Francia, Editori riuniti, 1984; citato in Manière de voir, n° 99, «L'internationale des riches» giugno-luglio 2008.

(4) Karl Marx, Il capitale, Libro I, Editori riuniti, 1983 o Presses universitaires de France, Parigi, 1993, p. 724.

(5) Le Capital, Libro I, p. 6.

(6) «Le travail aliéné», Manuscrits de 1844, Flammarion, Parigi, 1999.

(7) Leggere Christophe Dejours, Travail, usure mentale, Bayard, 2000; «Aliénation et clinique du travail» Actuel Marx, n° 39, «Nuovelles aliénations», Parigi, 2006.
(8) In Un futur présent: l'après-capitalisme, La Dispute, Parigi, 2006, Jean Sève dipinge un quadro impressionante di questi inizi di superamento osservabili in settori molto diversi.

(9) Leggere tra gli altri Tony Andréani, Un être de raison. Critique de l'Homo Ïconomicus, Syllepse, Parigi, 2000.
(Traduzione di G. P.)

da: http://www.monde-diplomatique.it/LeMonde-archivio/Dicembre-2008/pagina.php?cosa=0812lm03.01.html

Il ritorno di Karl Marx
By Fred Weston


Friday, 14 November 2008

Recentemente sono apparsi diversi articoli su giornali e siti internet di tutto il mondo, che rilevano il fatto che le vendite di libri di Marx nell’ultimo anno sono aumentate notevolmente in Germania Est, specialmente tra i giovani. Vale la pena citare alcuni di questi articoli.

Il Goethe-Institut ha pubblicato un articolo dal titolo “Sta per essere riscoperto: Karl Marx”, in cui si legge, tra l’altro:

“Da un po’ di tempo ormai, ogni volta che si parla del sistema di libero mercato, si sentono espressioni come capitalismo di rapina, locuste finanziarie e neo-liberalismo. Forse Karl Marx e le sue teorie stanno per tornare in auge?

Beatrix Bouvier, direttore del Museo e del Centro di Studi nella Casa di Karl Marx a Trier, preferisce non parlare di un “rinascimento” di Karl Marx. Eppure, ella stessa ha osservato in un’intervista con l’Agenzia di Stampa Tedesca che l’interesse per il filosofo ed economista tedesco è aumentato di recente, specialmente tra i giovani.

La casa editrice Karl Dietz Verlag è entusiasta della crescente domanda per le opere di Marx. Nel maggio 2008 le vendite del Capitale sono triplicate rispetto al maggio 2007. Questo chiaro aumento di interesse era stato preannunciato già nel 2007, quando erano state vendute il doppio delle copie dell’anno precedente.”

Sul sito internet di STV troviamo un articolo dal titolo “La crisi globale rispedisce i tedeschi dell’est da Marx”, che afferma:

“Due decenni dopo la caduta del Muro di Berlino, il padre fondatore del comunismo, Karl Marx, è tornato di moda nella Germania Est grazie alla crisi finanziaria mondiale.

La sua analisi critica del capitalismo scritta nel 1867, “Il Capitale”, dopo decenni di oblio, è diventato un best-seller a sorpresa per la casa editrice accademica Karl-Dietz-Verlag.

‘Tutti pensavano che non ci sarebbe mai più stata alcuna domanda per Il Capitale’, ha affermato il direttore Joern Schuetrumpf all’agenzia Reuters dopo che sono state vendute 1.500 copie finora in quest’anno, il triplo che in tutto il 2007 e un aumento di cento volte rispetto al 1990.

‘Perfino banchieri e manager ora leggono Il Capitale per cercare di capire che cosa sia successo. Insomma, Marx è l’autore del momento’, ha affermato Schuetrumpf.”

L’autore procede spiegando che questo ritorno a Marx riflette un rifiuto del capitalismo da parte di molti nella Germania orientale, e cita un recente sondaggio che mostra come il 52% dei tedeschi dell’est consideri l’economia di libero mercato “insostenibile” e il 43% abbia dichiarato che preferivano il socialismo al capitalismo. Queste cifre sono confermate da diverse interviste significative.

L’articolo cita Thomas Pivitt, un lavoratore nel settore informatico di 46 anni di Berlino Est, che afferma: “A scuola leggevamo degli ‘orrori del capitalismo’. Avevano proprio ragione. Karl Marx ci aveva visto giusto. Avevo una vita abbastanza piacevole prima della caduta del Muro. Nessuno si preoccupava del denaro perché il denaro non contava più di tanto. Avevi un lavoro perfino se non ne volevi uno. L’idea comunista non era poi così male.”

Hermann Haibel, un fabbro in pensione, ora settantaseienne, si esprime così: “Pensavo che il comunismo fosse una merda, ma il capitalismo è pure peggio. Il mercato libero è brutale. I capitalisti vogliono spremerci, spremerci sempre di più, senza limiti.”

In Gran Bretagna il Daily Mail parla dello stesso argomento in un articolo, “La morsa del credito fa lievitare le vendite del Capitale di Marx in Germania”, che riporta altresì le cifre: “Il libro ha venduto 1500 copie finora in quest’anno, il triplo di quelle vendute in tutto il 2007 e 100 volte più che nel 1990.”

Ora alcuni borghesi potrebbero rilevare cinicamente che 1500 è ancora un piccolo numero, ma secondo queste cifre nel 1990 ne vendevano soltanto 15 all’anno. Possiamo stare certi che la TV tedesca e i giornali non stanno facendo pubblicità al Capitale. Il più grande spot per Il Capitale è la crisi economica mondiale e le condizioni generali dei lavoratori sotto il capitalismo.

La vita insegna, e oggi le persone sono costrette a imparare molto rapidamente. E insieme a questo c’è un desiderio di capire davvero come funziona il sistema. Quale migliore autorità a cui rivolgersi che Karl Marx in persona, che molto tempo fa spiegò il meccanismo che conduce a crisi come quella attuale in cui stiamo vivendo.

Basta guardare alla situazione dell’Islanda in questo momento per comprendere quanto Marx fosse nel giusto. Non è soltanto una banca o un’azienda ad essere andata in bancarotta. Qui abbiamo un intero Paese in una crisi irrecuperabile. Gauti Kristmannsson, un giornalista islandese che scrive per il New York Times, sottolinea il fosco scenario che attende il suo Paese nell’articolo “La Tempesta di Ghiaccio”:

“A una a una, le banche più importanti sono state nazionalizzate dal governo, e agli Islandesi attoniti è stato detto che ciascuno di noi è debitore di milioni di dollari – a chi, non lo sappiamo. (…)

I primi 500 banchieri hanno perso i loro posti di lavoro tutti insieme; molti altri stanno attendendo il doppio colpo della disoccupazione e della perdita della propria casa a causa dei propri mutui saliti alle stelle. (…)

Improvvisamente, ci sono file in banca per accaparrarsi valute straniere, e c’è un tetto massimo su quanta se ne può possedere – le banche d’oltremare rifiutano di accettare la nostra valuta in caduta libera, la corona. Una delle mie studentesse, che studia in Spagna, non riesce a ottenere denaro dall’Islanda per pagare il suo affitto. Importatori ed esportatori non riescono a ottenere valuta per i loro affari. I turisti islandesi all’estero hanno problemi a ritirare contanti dai bancomat. Il governo britannico ha applicato le leggi anti-terrorismo per bloccare i beni delle banche islandesi; e la lista continua, come se fosse la sceneggiatura per l’incubo della globalizzazione. (…)

Lo shock è così forte che non sono subentrati né rabbia né commiserazione. Pensavamo che l’Islanda fosse un Paese indipendente in grado di badare a se stesso senza l’aiuto della Russia o del Fondo Monetario Internazionale, che la nostra valuta avesse un suo valore, che potessimo possedere aziende e banche in tutto il mondo. (…) Sotto molti aspetti, abbiamo accettato acriticamente il sistema capitalista, che ora sembra essere stato un gigantesco casinò senza padrone. Pensavamo, alla fine, di poter avere ‘denaro in cambio di niente’ e ora affrontiamo l’amara verità che non avremo niente per il nostro denaro.”

Il giornalista conclude l’articolo chiedendosi “Che fare?” e si risponde da sé: “nessuno lo sa, men che meno i politici, banchieri, affaristi…” ma come in Germania, Karl Marx sta arrivando in soccorso. Questo autunno una nuova edizione del Manifesto Comunista verrà pubblicata in Islanda.

Il massiccio aumento delle vendite del Capitale in Germania e la pubblicazione del Manifesto in Islanda non sono che aneddoti. Ma alle volte gli aneddoti possono rivelare molto più che un migliaio di sondaggi d’opinione. Le persone di tutto il mondo sono state scosse dagli eventi del mercato finanziario. Ora cercano risposte e, dal momento che non ne trovano in nessuna delle teorie economiche ufficiali e dominanti, si rivolgono all’unica che ha predetto ciò che accade oggi: il marxismo!

Se qualcuno ha dei dubbi su questo, legga la seguente citazione dal Manifesto Comunista, pubblicato nel 1848, 160 anni fa:

I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.

Sfidiamo chiunque a trovare una descrizione migliore di ciò che sta accadendo ora, nell’anno 2008. Leggete le teorie di qualunque dei principali economisti borghesi, leggete Friedman o Keynes, leggete la miriade di articoli pubblicati nelle riviste finanziarie degli ultimi venti anni. Troverete ch quando fanno riferimento a Marx lo fanno per mostrare quanto avesse torto. Naturalmente, alcuni dei più seri analisti sono giunti quasi a comprendere che cosa stava accadendo, ma nessuno con la chiarezza di Marx.

Il fatto più preoccupante per la borghesia è che Marx non ha semplicemente analizzato i meccanismi del sistema capitalista; ha indicato come le crisi del sistema portino infine alla rivoluzione, ad una rivolta dei lavoratori, della gente comune che soffre le conseguenze di queste crisi periodiche. Questa idea sta iniziando a mettere radici nella mente di molti lavoratori e giovani in tutto il mondo. Se sei uno di loro ti invitiamo di entrare a far parte della Tendenza Marxista Internazionale e ad aiutarci a costruire una forza che possa mettere fine a questo folle sistema.

Source: FalceMartello



da: http://www.marxist.com/il-ritorno-di-karl-marx.htm

mercoledì 7 gennaio 2009

Avete mai visto come vivono i palestinesi?

Gaza, lettera aperta ai politici italiani
di Luisa Morgantini*

Non una parola, non un pensiero, non un segno di dolore per le centinaia di persone uccise, donne, bambini, anziani e militanti di Hamas, anche loro persone. Case sventrate, palazzi interi, ministeri, scuole, farmacie, posti di polizia. Ma dove è finita la nostra umanità. Dove sono i Veltroni, con i loro "I care", come si può tacere o difendere la politica di aggressione israeliana? La popolazione di Gaza e della Cisgiordania, i palestinesi tutti, pagano il prezzo dell'incapacità della Comunità Internazionale di far rispettare ad Israele la legalità internazionale e di cessare la sua politicale coloniale. Certo Hamas con il lancio dei razzi impaurisce ed è una minaccia contro la popolazione civile israeliana, azioni illegali, da condannare. Bisogna fermarli.
Ma basta con l' impunità di Israele e dei ricatti dei loro gruppi dirigenti.

Dal 1967 Israele occupa militarmente i territori palestinesi, una occupazione brutale e coloniale. Furto di terra, demolizione di case, check point dove i palestinesi vengono trattati con disprezzo, picchiati, umiliati, colonie che crescono a dismisura portando via terra, acqua, distruggendo coltivazioni. Migliaia di prigionieri politici, ai quali sono impedite anche le visite dei familiari.

Ma voi dirigenti politici, avete mai visto la disperazione di un contadino palestinese che si abbraccia al suo albero di olivo mentre un buldozzer glielo porta via e dei soldati che lo pestano con il fucile per farglielo lasciare, o una donna che partorisce dietro un masso e il marito taglia il cordone ombelicale con un sasso perché soldati israeliani al check point non gli permettono di passare per andare all' ospedale, o Um Kamel, cacciata dalla sua casa, acquistata con sacrifici perché fanatici ebrei non sopravissuti all'olocausto ma arrivati da Brooklin, pensando che quella terra e quindi quella casa sia loro per diritto divino, sono entrati di forza e l'hanno occupata perché vogliono costruire in quel quartiere arabo di Gerusalemme un'altra colonia ebraica? Avete mai visto i bambini dei villaggi circostanti Tuwani a sud di Hebron che per andare a scuola devono camminare più di un ora e mezza perché nella strada diretta dal loro villaggio alla scuola si trova un insediamento e i coloni picchiano ed aggrediscono i bambini, oppure i pastori di Tuwani che trovano le loro tanche d'acqua o le loro pecore avvelenate da fanatici coloni, o la città di Hebron ridotta a fantasma perché nel centro storico difesi da più di mille soldati 400 coloni hanno cacciato migliaia di palestinesi, costringendo a chiudere più di 870 negozi?

Avete visto il muro che taglia strade e quartieri che toglie terre ai villaggi che divide palestinesi da

Palestinesi, che annette territorio fertile e acqua ad Israele, un muro considerato illegale dalla Corte Internazionale di giustizia? Avete visto al valico di Eretz i malati di cancro rimandati indietro per questioni di sicureza, negli ultimi 19 mesi sono 283 le persone morte per mancanze di cure, avrebbero dovuto essere ricoverate negli ospedali all'estero, ma non sono stati fatti passare malgrado medici israeliani del gruppo Phisician for Human rights garantissero per loro. Avete sentito il freddo che penetra nelle ossa nelle notte gelide di Gaza perché non c'è riscaldamento, non c'è luce, o i bambini nati prematuri nell'ospedale di Shifa con i loro corpicini che vogliono vivere e bastano trenta minuti senza elettricità perché muoiano?

Avete visto la paura e il terrore negli occhi dei bambini, i loro corpi spezzati? Certo anche quelli dei bambini di Sderot, la loro paura non è diversa, e anche i razzi uccidono ma almeno loro hanno dei rifugi dove andare e per fortuna non hanno mai visto palazzi sventrati o decine di cadaveri intorno a loro o aerei che li bombardano a tappeto. Basta un morto per dire no, ma anche le proporzioni contano dal 2002 ad oggi per lanci di razzi di estremisti palestinesi sono state uccise 20 persone. Troppe, ma a Gaza nello stesso tempo sono stati distrutte migliaia e migliaia di case ed uccise più di tre mila persone tra loro centinaia di bambini che non tiravano razzi.

Dopo le manifestazioni di Milano dove sono state bruciate bandiere israeliane, voi dirigenti politici avete tutti manifestato indignazione, avete urlato la vostra condanna. Ne avete tutto il diritto. Io non brucio bandiere né israeliane né di altri paesi e penso che Israele abbia il diritto di esistere come uno Stato normale, uno stato per i suoi cittadini, con le frontiere del 1967, molto più ampie di quelle della partizione della Palestina decisa dalla Nazioni Unite del 1947.

Avrei però voluto sentire la vostra indignazione e la vostra umanità e sentirvi urlare il dolore per tante morti e tanta distruzione, per tanta arroganza, per tanta disumanità, per tanta violazione del diritto internazionale e umanitario. Avrei voluto sentirvi dire ai governanti israeliani: Cessate il fuoco, cessate l'assedio a Gaza, fermate la costruzione delle colonie in Cisgiordania, finitela con l' occupazione militare, rispettate e applicate le risoluzioni delle Nazioni Unite, questo è il modo per togliere ogni spazio ai fondamentalismi e alle minaccie contro Israele.

Ieri lo dicevano migliaia di israeliani a Tel Aviv, ci rifiutamo di essere nemici, basta con l'occupazione.

Dio mio in che mondo terribile viviamo.

*Vice Presidente del Parlamento Europeo

lunedì 5 gennaio 2009

UNA STORIA ARGENTINA

Hgo o "mordere nella stupidità"
Una storia argentina di Manuel Rivas

Nel linguaggio dell’eternauta, quest’anno Héctor Germán Oesterheld (Hgo) compie 89 anni. Figlio di un ebreo tedesco e di una basca spagnola, Hgo è nato a Buenos Aires il 23 luglio 1919. La data della morte è sconosciuta. Nella storia drammatica dell’umanità, forse l’eufemismo più orribile è quello di desaparecido. “Non sono vivi né morti: sono scomparsi”. Quest’aforisma si deve al dittatore argentino Jorge Rafael Videla. Hgo è un desaparecido, il numero 7.456 della lista Conade (Commissione nazionale sui desaparecidos). Si sa che la vigilia di Natale del 1977 i suoi sequestratori gli tolsero il cappuccio e lo lasciarono a occhi scoperti per cinque minuti. Hgo salutò uno per uno i suoi compagni di prigionia e cantò con un giovane detenuto-desaparecido la canzone Fiesta di Joan Manuel Serrat. Anche le sue figlie sparirono: prima Beatrice (19 anni), poi Diana (23 anni), poi Estela (24 anni) e per ultima Marina (18 anni). Hgo è uno dei più straordinari creatori di avventure del novecento. Con lui è cambiato il profilo dell’eroe. L’Eternauta, la sua opera principale, una storia commovente e profetica, va oltre le frontiere della politica e dei generi letterari. E ogni giorno diventa un classico per i suoi lettori. È un’opera omerica del fumetto che mette in discussione il genere umano. “Dopo aver letto Oesterheld non possiamo più accettare di leggere delle cose qualsiasi”. Non l’ha affermato un critico qualunque in un raptus di magnanimità. Lo ha detto El Negro. L’ha detto Roberto Fontanarrosa. Rispettato da ogni tifoseria, da quelli del River e del Boca, e su qualsiasi campo di calcio o di letteratura. Anche in fondo e a sinistra, in qualsiasi redazione, dove di solito siedono i censori. E i cinici. La storia di dove si siedono i censori è di Enrique Medina. Medina ebbe il coraggio di andare nell’ufficio della censura, proprio prima del colpo di stato, a chiedere notizie del suo libro Las hienas. Che astuzia. E poi ricevette una telefonata: “Ma sei stupido!”. Che mania questa degli eufemismi. La paura che mettono gli eufemismi. Meglio sentirsi dire: “Il tuo becchino ha inito le ferie”. Ma torniamo a noi. Ci sono due grandi industrie nella storia dell’Argentina: il calcio e il fumetto. El Negro Fontanarrosa era un esperto di entrambe. Il miglior racconto di calcio che ho mai letto è la storia di Cardaña, il numero 5 del Peñarol, prima soprannominato El Hombre e poi, più precisamente, El Hombre de Neanderthal. Cardaña, rozzo e sentimentale, per beneficenza va a trovare in ospedale un bambino in condizioni gravi. Quel piccolo tifoso, che ha i giorni contati, accoglie il suo idolo come merita: “Brutti figli di puttana, come potete perdere con quelle schiappe del Nacional?”. Ecco come scriveva El Negro: non cedeva di un centimetro, neanche una lacrima gratis. Fu lui che disse: “Dopo Oesterheld come la mettiamo?”.

Scrivere come un pazzo
Quando studiava geologia all’università, lavorava già come correttore e scriveva storie come un pazzo. Quando lavorava come esperto di oro e platino per il Banco de crédito industrial de la República Argentina scriveva articoli e storie come un pazzo. Quando vagava sui monti e sulle pianure come Robinson Crusoe scriveva storie come un pazzo. Gli offrirono di lavorare a Topolino e accettò, perché non era un apocalittico della cultura e quello che gli piaceva era scrivere storie come un pazzo. Scrisse letteratura per l’infanzia, molta sotto lo pseudonimo di Sánchez Puyol. Fu l’epoca d’oro di quel genere narrativo nell’Argentina degli anni quaranta e cinquanta, con Gatitos e Bolsillitos. Gli piaceva scrivere per l’infanzia. “I bambini sono trattati sempre come degli stupidi”. Fu anche l’epoca d’oro del fumetto argentino, quando fondò con il fratello Jorge la casa editrice Frontera e uscirono due pubblicazioni che avrebbero fatto la storia. Hora Cero e Frontera. Avevano una tiratura di circa centomila copie. Cos’aveva a che fare Hgo con l’industria culturale? Scriveva come un pazzo. In trent’anni scrisse le sceneggiature di almeno centocinquanta serie di fumetti collaborando con una cinquantina di disegnatori. Sempre prolifico ed esigente. Perché scelse il fumetto? Avrebbe potuto essere un grande scrittore? È bello parlare con Martín Mórtola e Fernando Oesterheld, i suoi nipoti. “Voleva demolire l’artificiosa opposizione tra alta e bassa cultura. Non aveva pregiudizi elitari. Voleva arrivare alla gente e non lo considerava un obiettivo incompatibile con la qualità. Questa è un’altra delle lezioni dell’Eternauta, un’opera d’avanguardia che ha raggiunto le persone, una grande avventura e una letteratura straordinaria”. Guillermo Saccomanno, in Escritura y memoria, propone un suggestivo parallelismo: “Se Martín Fierro, un poema creolo e popolare, è riuscito ad affermarsi come il grande romanzo di fondazione della nostra letteratura, perché non fare una forzatura e affermare lo stesso di questo fumetto che si chiama l’Eternauta?”. Jorge Luis Borges era ammaliato dall’universo Oesterheld. Inoltre Hgo era uno straordinario creatore di fantascienza non troppo fantastica. “Leggeva le riviste scientifiche più all’avanguardia di tutto il mondo”, ricorda Elsa Sánchez, sua moglie. Ha riempito l’Argentina e altri paesi di gente interessante. Ray Kilt, Sargento Kira, Indio Suárez, Bull Rocket, Ernie Pike, Ticonderoga, Randall, Sherlock Time. E il gruppo, l’eroe collettivo, dell’Eternauta.
Quando passò alla clandestinità e sapeva di essere perseguitato da Loro, cosa faceva Oesterheld? “Scriveva come un pazzo”. Gli diedero la caccia, lo fecero sparire, gli succhiarono il sangue. Cosa faceva Oesterheld? Ana María Caruso, dalla prigionia del centro clandestino di detenzione chiamato Sheraton, riuscì a scrivere una lettera che compare nel rapporto Nunca más della Commissione nazionale sui desaparecidos: “Adesso è con noi El Viejo, l’autore dell’Eternauta e del Sgt. Kirk. Ve lo ricordate? Il povero vecchio passa le sue giornate a scrivere fumetti che inora nessuno dà segno di voler pubblicare”. Scriveva come un pazzo.

Fango sugli stivali
Nessuno, dopo aver letto l’Eternauta, potrebbe più accettare di leggere delle cose qualsiasi. Cambia lo sguardo. È una di quelle opere che sanno “mordere nella stupidità” come piaceva a Franz Kafka. O come piaceva a Emil Cioran: “Un libro dev’essere un pericolo”. “Cosa fare? Cosa fare per evitare tanto orrore?”. Chi grida queste parole? È lo sceneggiatore, Oesterheld, alla fine dell’Eternauta. Non è fuori, ma dentro, in una vignetta. Una delle idee dirompenti di Oesterheld fu quella di entrare a far parte dell’opera come personaggio. Un coraggio formale che avrà molte conseguenze. Siamo nel 1957. Francisco Solano López (Buenos Aires, 1928) lo rende riconoscibile. Lo disegna con i suoi tratti. All’inizio della trama l’Eternauta appare allo sceneggiatore nella mansarda in cui lavora e gli racconta la sua storia di eroe perso nell’eternità. Alla fine l’Eternauta riesce a tornare a casa dalla moglie e dalla figlia, che lo rimproverano per averci messo mezz’ora a comprare il giornale. Mezz’ora? Lo sceneggiatore, Oesterheld, il nostro Hgo, cerca di dissuadere l’Eternauta. Tutto quello che gli ha raccontato, tutto quello che sta per succedere! La nevicata mortale, l’invasione guidata da un potere oscuro, Loro, che usano per i loro fini i terribili mostri e gli intelligenti kol, schiavi della paura, che a loro volta trasformano gli umani sopravvissuti in uomini-robot. Ma l’Eternauta non riconosce più lo sceneggiatore. Tornando nel passato, ha perso la memoria del futuro. La memoria passa allo sceneggiatore. Chi è adesso l’Eternauta? Siamo nel 1957. Hgo grida dal fumetto: “Cosa fare? Cosa fare per evitare tanto orrore?”. È la prima versione dell’Eternauta. Nel 1969 ci sarà una seconda versione, disegnata da Alberto Breccia, in cui le coordinate geopolitiche sono più precise. La pubblicazione solleva molte polemiche. La rivista Gente ne forza il finale. L’Eternauta diventa un personaggio inquietante, troppo verosimile. Nel 1976, con i disegni di Solano López, si pubblica un seguito dell’avventura, una seconda parte. È un processo pieno di ostacoli. Sceneggiatore e disegnatore si vedono appena. Hgo sente sul collo il fiato di Loro e detta capitoli dalle cabine telefoniche. Le ultime volte in cui va alla casa editrice Récord, che doveva pubblicare l’Eternauta II, si presenta sempre a orari assurdi, come un’ombra. A tradirlo è solo “la scia di fango secco dei suoi stivali” sul tappeto. Perché uno dei molti rifugi di Hgo era l’isola del Tigre.

La tecnologia infernale
Erano arrivati Loro, come l’Eternauta avrebbe chiamato i dittatori. Nel prologo di Ernesto Sábato al rapporto Nunca más, in cui si documentano gli orrori della dittatura e l’usurpazione dello stato da parte di una maia in uniforme, c’è scritto: “Dalle informazioni in nostro possesso si desume che questa tecnologia infernale fu applicata da esecutori sadici ma ben inquadrati”. Insieme a migliaia di desaparecidos, la “tecnologia infernale” si portò via Hgo e le sue quattro figlie. Erano già passati alla clandestinità quando cominciò la dittatura argentina, che durò sette anni crudeli (1976-1983). L’unico cadavere che Elsa riuscì a recuperare fu quello di Beatriz. A 19 anni fu la prima vittima di Loro. Il 19 giugno 1976 Beatriz chiamò la madre e le dette appuntamento in un bar. Due giorni dopo sul treno, mentre Elsa andava al lavoro, un uomo molto nervoso con un vestito elegante si avvicinò per dirle che sua figlia era stata sequestrata da un “gruppo di lavoro” dell’esercito. Elsa Sánchez de Oesterheld cominciò il pellegrinaggio per ritrovare Beatriz, ma sull’Argentina era davvero caduta una “nevicata mortale”. Si scontrò con muri di silenzio. I conoscenti facevano finta di non conoscerla e perfino suo nipote Jorge Oesterheld, un sacerdote potente che oggi è portavoce della conferenza episcopale argentina, preferì “guardare dall’altra parte”. Elsa sapeva di essere diventata un pericolo per le figlie. Tutti i suoi movimenti erano sorvegliati per arrivare alle ragazze e a Hgo. In un certo senso anche lei era una desaparecida apparentemente in libertà. Lo sterminio programmato della famiglia di Hgo continuò: a Tucumán il 4 luglio 1976 scomparve Diana, 23 anni, incinta; il 27 aprile 1977 fu sequestrato Hgo e il 14 dicembre dello stesso anno sparì Estela, 24 anni. Nella sua ultima lettera, scritta quel giorno, dice: “Mammina: è un mese che Marina non è con noi”. Significa: Marina è scomparsa. Aveva diciott’anni.

La tortura metafisica
Loro, con le bande di gurbos, mostri e uomini-robot, applicarono la tecnologia infernale su scala industriale. Per far sparire i cadaveri usarono una variante dell’incinerazione: i voli della morte. Forse pensavano che la scomparsa sottomarina di migliaia di persone sarebbe stata inodore, innocua e impercettibile. Il più grande detective della storia, Sigmund Freud, scrisse: “Censurare un testo non è difficile, più difficile è cancellarne le tracce”. I carnefici ignoravano che anche il corpo umano è un testo. E questa è la verità di fondo dell’Eternauta, la ragione della sua forza a distanza di così tanti anni. “La persistenza dell’Eternauta di per sé è un modo per non dimenticare”, scrive Judith Filc. Nel primo anniversario del golpe militare, il 24 marzo 1977, un altro geniale eternauta argentino, lo scrittore Rodolfo Walsh, compagno e collega in molti sensi di Hgo, spedì per posta e distribuì clandestinamente la Carta abierta de un escritor a la junta militar (lettera aperta di uno scrittore alla giunta militare). È uno dei pamphlet di denuncia più commoventi della storia, in cui Walsh fece conoscere al mondo la dimensione del genocidio: quindicimila desaparecidos fino a quel momento. “Siete arrivati alla tortura assoluta, atemporale, metafisica”. In questo contesto la parola metafisica, associata alla tortura, perde tutta la sua astrazione ed esprime l’incommensurabilità dell’orrore vissuto nella realtà. Durante una perquisizione della sua vecchia casa, dove viveva solo Elsa, l’ufficiale mostro al comando del “gruppo di lavoro” spiegò che stavano dando la caccia a Héctor l’ebreo. Elsa rispose che suo marito era figlio di un proprietario terriero tedesco e di una spagnola. Poi aggiunse: “E anche se fosse ebreo?”. Tra le cose che ispirarono Loro per mettere in pratica la “tecnologia infernale”, la tortura e la scomparsa forzata di migliaia di persone, come Hgo e le sue quattro figlie, ci sono alcuni metodi nazisti. Per esempio, un ordine di Hitler, il decreto Nacht und Nebel, notte e nebbia. Il testo di questo decreto, ricostruito dal tribunale di Norimberga, sconsigliava la consegna del cadavere della persona eliminata alla famiglia. L’obiettivo era “disseminare il terrore” per indebolire qualsiasi resistenza. Nel 1977, il periodo in cui Hgo fu detenuto, il generale Ibérico Saint Jean, governatore della provincia di Buenos Aires durante i fatti della notte delle matite spezzate (scomparsa e omicidio di un gruppo di adolescenti), dichiarò in pubblico e senza eufemismi: “Prima uccideremo i sovversivi, poi i loro simpatizzanti e per ultimi gli indifferenti”. Tra le migliaia di desaparecidos ci sono un centinaio di poeti, scrittori e sceneggiatori di fumetti. Un altro Loro, un collega militare del generale Ibérico, il comandante Luciano Menéndez che guidava il iii corpo dell’esercito e fu il responsabile dei roghi di libri del 29 aprile 1976, dichiarò: “Così come distruggiamo con il fuoco la documentazione perniciosa che offende l’intelletto e la nostra cristianità, distruggeremo anche i nemici dell’anima argentina”. Loro, come Creonte, punivano oltre la morte. Gridando ad Antigone, alle figlie di Oesterheld: “Se la tua natura è amare, va’ tra i morti e amali. Finché io avrò vita non comanderà una donna”.

Ernie Pike
Quando creò Ernie Pike, uno di quei grandi personaggi che cambiarono il profilo dell’eroe rendendolo una figura complessa, fatta di carne e ossa e non d’acciaio, i primi episodi furono disegnati da Hugo Pratt. Quando vide il fumetto, Hgo rimase perplesso: il volto di Ernie Pike, corrispondente di guerra che mette sempre in dubbio le versioni ufficiali, era il suo. E lo videro anche i torturatori: riconobbero in Hgo Ernie Pike. E quindi ci andarono giù pesanti con Ernie Pike. Elsa Sánchez de Oesterheld mi racconta un’altra storia che la lasciò a bocca aperta. Qualche anno fa, nel 2002, alla ine di un incontro, le si avvicinò una donna, una dottoressa che era stata rapita, detenuta nell’Esma (la scuola di meccanica dell’esercito dove furono detenute circa cinquemila persone) e sopravvissuta alla prigionia. Le raccontò che un giorno Alfredo Astiz, un ufficiale dell’Esma noto come l’Angelo della morte, tirò fuori dal cassetto del suo tavolo un libro e le disse più o meno così: “Prendi e leggilo. È il miglior libro d’Argentina”. Era l’Eternauta. In quell’episodio uno dei personaggi si lamenta: “Tutti scomparsi… come se non fossero mai esistiti”.

Un incarico per Hgo
Siamo nel 2008. Il 23 luglio, se fosse ancora vivo, Héctor Germán Oesterheld avrebbe compiuto 89 anni. La sua condizione terrena è quella di desaparecido forzato. Fu sequestrato da uno di questi eufemismi criminali chiamati “gruppi di lavoro” e fu detenuto in almeno tre carceri clandestine, ovvero in dei non luoghi: Campo de Mayo, El Vesubio e Sheraton, dov’era conosciuto come El Viejo, il vecchio. Gli indizi e le prove circostanziali fanno presumere che Hgo morì all’inizio del 1978. Non c’è traccia del cadavere. Il rifiuto era la risposta sistematica che ricevevano le migliaia di ricorsi. Per quanto si sa, all’inizio Hgo fu maltrattato e torturato. Poi, su iniziativa di un militare, cercarono di coinvolgerlo nella stesura di una biografia del libertador San Martín. Oesterheld si era fatto conoscere come biografo. Già nel 1951, quando scriveva libri per bambini, Perón avrebbe voluto che lavorasse alla sua biografia. Lui riuscì a dire di no. La moglie Elsa pensa che da quando scrisse Che (Rizzoli 2007), illustrato da Alberto Breccia e da suo figlio Enrique, Hgo fu segnato. La biografia del Che fu pubblicata nel 1968, in piena dittatura di Onganía. L’editore gli aveva proposto di farla uscire come opera anonima, ma Héctor rispose: “Un personaggio come il Che non merita che un lavoro su di lui sia fatto di nascosto”. Il libro ottenne un successo immediato. La prima edizione andò a ruba in un mese, ma la casa editrice fu perquisita e Breccia e Oesterheld furono minacciati di morte. Poi avvenne una cosa strana. Ricevette una telefonata dall’ambasciata degli Stati Uniti. Gli proposero di scrivere qualcosa di simile, una biograia sullo stesso stile, altrettanto immediata e diretta, ma su John F. Kennedy. Hgo declinò l’offerta. Era già pronta quella di Evita. Non fu pubblicata: non ci sarebbero state più biografie. E adesso in prigionia se ne uscivano con San Martín! Non si sa a che punto arrivò né che ne fu dei suoi appunti. La vita di San Martín raccontata da Oesterheld? Probabilmente Loro si resero conto del possibile scivolone: se la biografia fosse stata portata a termine avrebbero dovuto far sparire San Martín. Le statue si sarebbero messe a parlare e sarebbero finite in fondo al mare.

Una strana visita
La tortura peggiore a cui sottoposero Oesterheld, a parte il tormento fisico, fu quella di mostrargli le foto delle figlie morte. Loro, come Creonte, punivano oltre la morte, mostrando i diversi cadaveri di Antigone. A Elsa restituirono solo il corpo della prima figlia uccisa, Beatriz, “quella che somigliava più al padre”. Poi sparì Diana, 23 anni, con il suo compagno, Raúl. Dopo fu la volta di Marina, diciotto anni. Sopravviveva Estela, la più grande, di 24 anni. C’è una testimonianza sul periodo di detenzione di Oesterheld nel carcere clandestino di Campo de Mayo. Juan Carlos Scarpatti disse: “Non lo conoscevo personalmente, ma attirò la mia attenzione. Lo vidi, diciamo, abbattuto, molto angosciato. Allora mi avvicinai e gli chiesi cos’aveva. Mi disse che gli avevano mostrato le foto delle figlie. Dei loro cadaveri”. Ma la notizia della morte di Estela e di suo marito – anche lui si chiamava Raúl – la ricevette quando i carcerieri dello Sheraton gli dissero che c’era una visita speciale per lui. L’hotel Sheraton, eufemismo per il non luogo, era un altro centro di detenzione clandestino che si trovava in un settore nascosto del commissariato di Villa Insuperable, all’interno della città. Era il 14 dicembre 1977. La “visita speciale” era di un bambino di tre anni, suo nipote Martín. Quel giorno avevano ucciso i suoi genitori. Ancora oggi Martín ricorda di essere rimasto seduto per ore con suo nonno in un “corridoio orribile con delle pareti di lattice blu brillante”. Difficile non vederlo come un episodio dell’Eternauta fatto piombare nella realtà. El Viejo e il nipote che ha conosciuto a malapena, insieme in un non luogo dove ti succhiano il sangue. Sono ottocento i bambini rubati all’epoca di Loro, e solo novanta sono riusciti a tornare alle loro famiglie di origine. Un’altra ramificazione della “tecnologia infernale”. Due nipoti di Hgo ed Elsa, i figli di Diana e Marina, sono desaparecidos. La comparsa di Martín nel non luogo, il fatto che qualcuno abbia deciso di portarlo dal Viejo, che tutti credevano morto, è un episodio che può avere un’interpretazione morbosa, ma può anche essere visto alla luce del l’Eternauta. Forse è stata opera di un kol. I kol, subalterni intelligenti di Loro, diventano disobbedienti quando la “ghiandola del terrore” smette di funzionare. Per una volta Oesterheld dette un indirizzo, quello dei genitori di Elsa. Martín fu portato dalla nonna. Antigone dalla morte mandava un segnale.

Il passerotto combattente
Ana di Salvo, psicologa, compagna di prigionia di Hgo nel centro di detenzione illegale del Vesubio, mi racconta che Oesterheld rimaneva sempre in disparte, diffidente. Parliamo del maggio del 1977, quindi non era da molto che lo avevano arrestato. “Ci dissero: ‘Arriverà El Viejo’. All’inizio non sapevo chi fosse. Non conoscevo la storia dell’Eternauta. Aveva un problema di pelle, era pieno di foruncoli in faccia e sulla testa. C’era una dottoressa tra le detenute. Gli diede una pomata, ma lui la riiutò. Era diffidente. Una notte in cui faceva molto freddo e stava dormendo sul pavimento di legno gli offrimmo una coperta. L’accettò. Ma sempre con un’aria di diffidenza. La mattina lo venivano a prendere e lo riportavano la sera. Ci raccontò che gli stavano facendo scrivere una storia su San Martín. Gli parlai di mio figlio Luciano. Gli chiesi di scrivermi una poesia, una storia per lui. Ma non ci fu tempo. Dopo avermi fatto sparire senza spiegazioni per 73 giorni, mi riportarono a casa. Pensi continuamente che stanno per ucciderti. Nel viaggio verso casa, guardando il paesaggio, uno dei sequestratori disse: ‘Buon posto per la caccia’. E io, non so perché, gli risposi: ‘Qui c’è il divieto di caccia, va rispettato’. Rimase perplesso. Le cose vanno così. Mio figlio Luciano, quando tornai, non voleva saperne di me. Pensava che l’avessi abbandonato di proposito. Un giorno gli comprai un racconto per bambini intitolato Chipió, el gorrioncito peleador (Chipió, il passerotto combattente). A Luciano piaceva molto la faccia di quell’uccellino. Imparò a leggere con lui e il libro ci riconciliò. Non sapevo che l’avesse scritto El Viejo: aveva usato uno pseudonimo. Molti anni dopo, in una mostra su Oesterheld, raccontai la storia a Martín, suo nipote, e lui mi disse: ‘In quel racconto c’era quello che mio nonno scrisse per tuo figlio’”.

L’ultima lettera
L’ultima lettera di Estela a sua madre fu scritta il giorno in cui fu uccisa, il 14 dicembre 1977. È breve, scritta in gran fretta ma curata, con una grafia che cerca di rimanere ferma. Ogni lettera, ogni appunto in quei giorni trasudava nervosismo. Si ha l’impressione che la lettera a Elsa sia anche una lettera che Estela sentì il bisogno di scrivere a se stessa. Non è dificile immaginarla mentre la rilegge a bassa voce tra sé e sé, sforzandosi di dare alla madre la notizia della morte di Marina senza nominare la morte. Come nell’Eternauta, il tempo della lettera è un continuum 4, una specie di futuro del passato: “Marina non è più con noi e questo dolore non lo si può più alleviare, in nessun modo, ma voglio che tu sappia che è morta eroicamente così come ha vissuto”. Consonanti e vocali si accatastano in un presente ricordato: “Credo che dobbiamo essere orgogliosi di lei, così come di Bi (Beatrice), Di (Diana) e Dad (Héctor), e voglio che tu sappia che sono orgogliosa anche di te (Elsa)”. Quest’ultima affermazione ha un significato forte. Va oltre la cortesia filiale. Tutte le persone a cui fa riferimento Estela sono scomparse. La felice nidiata di Beccar sta per essere sterminata. Elsa, la madre, antiperonista, razionale e intuitiva, “molto celta”, dice lei, non li aveva seguiti nel loro impegno rivoluzionario. Aveva discusso animatamente con Hgo, con l’uomo che amava. Sì, era d’accordo con lui. Era una gioventù meravigliosa: bella, colta, ribelle. La migliore generazione che l’Argentina avesse mai avuto. Come Héctor, Elsa passava da Mozart a Janis Joplin e, perché no, condivideva anche i gusti artistici di quella generazione, la libertà nello stile di vita, una sessualità senza tabù, l’avversione all’ingiustizia. Condivideva tutte queste cose, dice Elsa. Ma lei, la donna che era stata così felice a Beccar, in quella casa che era come un laboratorio dell’artista romantico, dove tutto “fremeva e cantava”, dove tutti approdavano e nessuno se ne voleva andare, dove nessuno voleva spegnere la luce, dove le ragazze si riiutavano di andare alle feste o nei locali perché c’era solo “gente stupida”, e allora volevano stare lì, a Beccar, con i loro amici e quelli dei genitori, disegnatori, musicisti, artisti, scrittori, gente che portava delle storie: lei, che aveva conosciuto il paradiso, riuscì a percepire con chiarezza il trambusto della macchina infernale che si stava avvicinando. Sì, discusse con Hgo. Non riusciva a digerire quella metamorfosi nell’Oesterheld che amava e ammirava, l’uomo tranquillo, illuminato, progressista e piuttosto libertario. Una trasformazione dovuta all’influenza degli amici anarchici spagnoli in esilio, quello sguardo antidogmatico che appartiene anche ai suoi eroi. Hgo non era affatto elitario. La sua stessa scelta letteraria, la sceneggiatura dei fumetti, lo dimostra. Ma provava ribrezzo per il populismo peronista. Hgo cambiò. La sua opera principale contiene anche delle tracce autobiografiche. Tra il primo Eternauta (1957) e la seconda versione (1969) c’è una rivoluzione di sguardo. I riferimenti geopolitici diventano più concreti: l’America Latina è abbandonata alla sua sorte e Loro, gli oscuri poteri cosmici, sono la grande potenza. Hgo diventò più radicale, d’altronde anche il mondo intorno cadeva a pezzi. Le pagine del calendario cadevano per paura e ribrezzo. Il golpe di stato di Aramburu, nel 1956, con l’Operación Masacre, che Rodolfo Walsh racconterà in modo brillante. Il golpe di stato di Onganía, nel 1966, quando i professori e gli alunni dell’università di Buenos Aires furono crudelmente presi a bastonate nel tragitto verso i camion della polizia. Il mandato di Lanusse, nel 1972, con il massacro di Trelew. In questo calvario di sfortunati fasti e catastroiche salvezze, il paese percepì una “scintilla di speranza” nella grande mobilitazione civile cominciata con il cordobazo (un movimento di protesta che si diffuse nel 1969 nella città di Córdoba). In seguito, chiamando in causa l’oftalmologia, potremmo dire che si passò da uno strabismo divergente a uno convergente. Il punto di convergenza fu ancora una volta Perón. Gran parte della sinistra argentina confluì nel peronismo. Per molti era la speranza possibile, un’alleanza contro Loro. E lì c’erano Hgo e le sue iglie. Elsa no: lei manteneva le distanze quando dalla musica si passava alle parole. E lì c’erano anche Rodolfo Walsh e le iglie Vicky e Patricia. Si parla quasi sempre di A sangue freddo, di Truman Capote, come prima opera della narrativa del new journalism. Ma è per ignoranza emisferica. La prima opera è stata Operazione massacro, di Rodolfo Walsh, nel 1957, l’anno in cui nacque anche l’Eternauta. Walsh, di origine irlandese, allora era anche antiperonista. Preferiva gli scacchi alla politica e anche alla letteratura. Ma un giorno, tornando a casa, udì il grido di un soldato moribondo: “Non lasciatemi solo, figli di puttana!”. Il ritorno di Perón, il grande giorno della resurrezione nazionale, passerà alla storia per il massacro di Ezeiza. Lì, all’aeroporto, cominciò lo sterminio della “gioventù meravigliosa”. Più di trenta morti e trecento feriti in quello che avrebbe dovuto essere il giorno più felice. La lusinga diventò condanna: la “gioventù imberbe”. Perón morì quando si avvicinava il giorno della “nevicata mortale”. Il padre della patria era tornato con la mummia di Evita e un suo fantasma, Isabel, manovrata da un sinistro prestigiatore, il segretario López Rega, organizzatore della Tripla A, che mescolò la stregoneria alla produzione industriale della morte. Si moltiplicò il doppio lavoro: molti di quelli che di giorno lavoravano come capi della polizia, la notte diventavano capi della Tripla A. Fino all’arrivo del grande eufemismo, il processo di riorganizzazione nazionale. In altre parole, fino al colpo di stato militare con la sua rete di influenti complicità. Era il regime di Loro. E si mise in moto, a pieno ritmo, la “tecnologia infernale”. Walsh denuncia: “La Tripla A sono oggi le tre armi, e la giunta che voi presiedete non è l’ago della bilancia tra ‘violenze di segno diverso’ né l’arbitro giusto tra ‘due terrorismi’, ma la fonte stessa del terrore che ha smarrito la strada e riesce solo a balbettare un discorso di morte”. La lettera di Estela a Elsa iniva dicendo: “C’è ancora molto da dare in questa vita e sono molte le ragioni per andare avanti”. Quel giorno, dopo che aveva inviato la lettera, la uccisero.

Oesterheld, Hugo Pratt ed Elsa
Lui scriveva a mano. Odiava la macchina da scrivere. Per questo ho imparato stenografia e dattilografia. Per aiutarlo. Dopo esserci sposati abbiamo vissuto quattro anni in un piccolo appartamento nel quartiere Desarrollo. Allora si occupava di minerali. Amava la natura aspra, selvaggia, la steppa deserta. Quando lo conobbi era un misantropo. Poi nacquero le bambine, una dopo l’altra. Disegnava già. ‘Papà, fammi un disegnino’. Scarabocchiava di tutto per loro. Leggeva di tutto. Era abbonato a riviste in tedesco, italiano, inglese e francese. Sapeva un sacco di cose. Gli interessavano tutte le scoperte scientifiche, tutto ciò che era al limite della fantascienza. Borges amava parlare con lui. Le ragazze lo vennero a sapere. Un giorno andarono tutti e cinque insieme a trovarlo. E stettero lì con lui, nella penombra della biblioteca nazionale. Sì, aveva una cultura straordinaria, enciclopedica. Un giorno Hugo Pratt gli mostrò molto soddisfatto alcuni disegni. Un nuovo eroe. Un soldato della conquista del west. Héctor gli disse: ‘Benissimo, ma dovrai ridisegnarlo. Non può avere quel tipo di arma. Il calcio della pistola non era così’. Hugo si sedette, fece un sospiro, gridò: ‘Lo uccido, lo uccido! Dimmi, Héctor Oesterheld, a chi importa com’era il calcio della pistola?’. ‘A me’, rispose Héctor. All’improvviso si alzò e andò verso il garage. Aveva libri dappertutto. Anche in garage. Ovunque. Leggeva sessanta o cento storie alla volta. C’era un pandemonio. Quando cercavo di mettere a posto, lui si disperava. Frugò nel caos. E alla fine tornò tenendo in mano quello che cercava. Lo passò a Hugo. ‘Ecco qui’, gli disse. ‘L’arma dev’essere così’. Era molto sportivo. Giocava a tennis. Il calcio gli piaceva, ma solo da guardare. Aveva una fissazione per lo stadio del River. Quando andava in centro passava sempre di lì. In quello stadio si svolge una battaglia decisiva dell’Eternauta. È stato un periodo idilliaco, un paradiso, quando stavamo in casa a Beccar. Questo l’ho già detto, vero? Quando sono arrivati i disegnatori italiani, ma questo è successo prima, anche quella è stata un’epoca meravigliosa. Tra loro c’era Hugo Pratt (mezzi matti gli italiani!). Era un ragazzo molto bello. Aveva un carisma unico. Tutti i giorni passava da casa nostra. Aveva sempre appetito. Gli preparavo qualcosa per cena. C’erano delle amiche che mi chiedevano: ‘Ma non ti sei innamorata?’. Se ne innamoravano tutte…”. E allora? Anche Elsa, l’Elsa che oggi ricorda, è in cucina a preparare qualcosa per cena. È facile immaginare, sulla soglia della porta della casa di Beccar, Corto Maltese, il mitico personaggio di Pratt. Mormoro: “Forse era lui a essere innamorato”. Elsa mi ascolta in silenzio. E chiude il discorso sugli amori con un gesto ironico, un’interiezione tracciata in aria.

La memoria
Marcelo Brodsky, l’artista e fotografo creatore del Parco della memoria di Buenos Aires, venne a conoscenza della scomparsa del fratello minore Rubén con una telefonata. Lui era in Spagna, in esilio. L’universo acquistò improvvisamente le dimensioni di una cabina telefonica. “L’assenza di una persona scomparsa non ha mai ine. Come spiegarlo alle nuove generazioni? Come narrare un simile orrore? Nel Parco della memoria ogni percorso è un nuovo modo per ricordare. Camminiamo tra scie che si sostengono l’una con l’altra, in cui il risultato è il prodotto di una combinazione”. Brodsky ha giurato di parlare sempre del fratello come se stesse ascoltando Julius Fucik, nel suo Scritto sotto la forca: “Che la tristezza non sia mai associata al mio nome”.

Elsa l’Eternauta
Quando Elsa ed Héctor si sposarono lui lavorava per una banca di credito minerario e analizzava campioni di metalli preziosi. Gran parte del suo lavoro era sul campo. Gli piaceva camminare. Camminare da solo nei grandi spazi. Con il vento della Patagonia in faccia. “È un lavoro duro, la solitudine del geologo può essere devastante, ho conosciuto persone che hanno cominciato a bere”, racconta Elsa. “Ma lui amava questo rapporto solitario con la natura. Amava tutto della natura. Le lumache ci mangiavano le rose e io gli chiedevo di metterci il veleno, ma Héctor diceva: ‘Anche loro hanno il diritto di vivere’. Io rispondevo: ‘Guarda che qui la celta panteistica sono io, ma non voglio che mi mangino le rose’. Gli offrirono un buon lavoro, ma avremmo dovuto separarci. Allora scelse l’editoria”. Elsa è nata a Buenos Aires da una famiglia di immigrati galiziani provenienti da un paesino vicino a Santiago, Loño. Nel 1983, quando passò da Loño, Elsa andò a vedere il loro granaio di legno, quello tipico della zona, di cui tanto le aveva parlato il padre. Si aspettava qualcosa di più monumentale. “Che c’è che non va?”, gli chiese lo zio. “È scrostato”. “Tua nonna non ha voluto che lo toccassero. Ha voluto che rimanesse come l’aveva fatto il figlio”. Il figlio era il padre emigrato di Elsa. Hgo passò da quel paesino nel 1962, facendo una “deviazione” da un viaggio in Germania. C’è una foto in cui è immortalato come il Robinson che era, camuffato tra l’erba del contadino mietitore. In Argentina i genitori di Elsa lavorarono sodo per andare avanti, ma avevano una passione: la musica. L’opera e la classica. Ascoltavano tutti i concerti che trasmettevano alla radio. Lo zio Pedro portava sempre un iore all’occhiello. La madre di Elsa leggeva García Lorca. L’aveva visto in un teatro di Buenos Aires stracolmo di persone, era stato accolto dalla folla in calle Corrientes. “Somiglio molto a mio padre. Sono Vicente Sánchez al femminile, estremamente impulsiva. Ero un maschiaccio. Poi subimmo un colpo terribile: mia sorella maggiore morì quando io avevo dodici anni. Studiai musica, danza classica e samba. È vero, tutti volevano ballare con me. No, Héctor non era un gran ballerino. Avevo diciassette anni e lui ventiquattro quando ci innamorammo”. Elsa parla come un libro aperto, che contiene la sua vita e quella degli altri. Il suo sguardo corre più veloce del tempo. Dall’appartamento di Buenos Aires si sente spesso il rumore del passaggio di qualche convoglio ferroviario. I treni, la luce mutevole del giorno, tutto sembra impegnarsi a seguire la velocità, l’intensità del ricordo di Elsa, che parla felice della sua adolescenza ballerina, danzando con le parole. Poi all’improvviso si gira e dice: “Anche gli psicologi si commuovevano. Tutta l’esperienza della psicologia non bastava per affrontare il nostro caso. Mi chiedono come ho fatto a resistere, come faccio a essere ancora viva. Non lo so. Sono qui per uno strano obbligo. Ho già provato tutta la paura del mondo”. All’altezza dei nostri occhi, sullo scaffale della libreria, c’è una foto che guarda verso di noi. Sono loro. Loro quattro. In casa a Beccar. Nell’ora azzurra. Le quattro ragazze Oesterheld. Tutta la bellezza del mondo.


Manuel Rivas è uno scrittore, poeta e giornalista spagnolo. È nato a La Coruña nel 1957. I suoi libri sono scritti in gallego, mentre per l’attività giornalistica usa il castigliano. In Italia ha pubblicato La lingua delle farfalle (Feltrinelli 2005), Il lapis del falegname (Feltrinelli 2004) e Il pirata testamatta (Feltrinelli 2001). Questo articolo è uscito sul País Semanal con il titolo El desaparecido Hgo. La traduzione dallo spagnolo è di Sara Bani.


[da Internazionale, n. 778]

[L'Eternauta è stato pubblicato in Italia su Lanciostory nel 1977, ic]

Articolo rintracciato in rete sul sito:
http://circolopasolini.splinder.com/

venerdì 2 gennaio 2009

Da un messaggio all'altro

L'orizzonte
Da un messaggio all’altro di John Berger

In una recente conferenza sulla poesia, la meravigliosa poetessa americana Adrienne Rich ha fatto notare che “quest’anno un rapporto dell’ufficio statistiche del ministero della giustizia statunitense rileva che su 136 residenti negli Stati Uniti uno è dietro le sbarre e molti sono detenuti in attesa di giudizio o di un processo”. Nel corso della stessa conferenza ha citato il poeta greco Yannis Ritsos: Nel campo l’ultima rondine ha indugiato a lungo, bilanciandosi nell’aria come un nastro nero sulla manica dell’autunno Non è rimasto nient’altro. Solo le case incendiate che ancora bruciano.
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Suona il telefono e, appena sollevato il ricevitore, so che dall’altra parte ci sei tu, che mi chiami dal tuo appartamento di via Paolo Sarpi (due giorni dopo i risultati elettorali e il ritorno in scena di Berlusconi). La rapidità con cui identifichiamo una voce familiare che giunge all’improvviso è confortante, ma anche un po’ misteriosa. Perché le misure, le unità, di cui ci serviamo per calcolare la netta differenza che esiste tra una voce e l’altra, sono indefinite e oscure. Non hanno un codice. Di questi tempi sempre più cose sono codificate. Perciò mi chiedo se non ci siano altri strumenti di misura, altrettanto non codificati e tuttavia precisi, con cui calcoliamo altri dati. Per esempio, la quantità di libertà circostanziata esistente in una data situazione, la sua ampiezza e i suoi limiti esatti. I detenuti diventano esperti in materia. Sviluppano una sensibilità particolare nei confronti della libertà, non come principio, ma come sostanza granulare. Quando se ne presenta un frammento, loro lo riconoscono quasi istantaneamente.
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In una giornata ordinaria, quando non succede niente e le crisi annunciate di ora in ora sono quelle di sempre (e tanto per cambiare i politici dichiarano che senza di loro sarebbe la CATASTROFE), passando accanto a qualcuno può succedere di scambiarsi un rapido sguardo. Alcune di queste occhiate servono a verificare se anche gli altri immaginino la stessa cosa quando si dicono: allora questa è la vita! Spesso stanno immaginando la stessa cosa e in questa condivisione primaria c’è una specie di solidarietà che precede ogni parola o scambio di opinioni. Cerco le parole per descrivere il periodo storico che stiamo vivendo. Dire che non ha precedenti non significa molto, perché, da quando si è scoperta la Storia, ogni periodo è stato senza precedenti! Non sono alla ricerca di una definizione complessa del periodo che stiamo attraversando, perché non mancano i pensatori, tra cui Zygmunt Bauman, che si sono assunti questo compito essenziale. Sto semplicemente cercando un’immagine che funzioni da punto di riferimento. I punti di riferimento non si spiegano fino in fondo, ma ci offrono un terreno comune. In questo senso somigliano ai taciti presupposti contenuti nei proverbi popolari. Senza punti di riferimento si corre l’enorme rischio umano di girare a vuoto.
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Il punto di riferimento che ho trovato è quello della prigione. Niente di meno. In tutto il pianeta viviamo in una prigione. La parola “noi”, stampata o pronunciata sugli schermi, è ormai sospetta, perché chi ha potere la usa di continuo affermando demagogicamente di parlare anche a nome di chi non ne ha. Per parlare di noi usiamo dunque il “loro”. Loro vivono in una prigione. Che genere di prigione? Come è fatta? Dove si trova? O sto usando la parola solo come una figura del discorso? No, non è una metafora, la reclusione è reale, ma per descriverla bisogna pensare in termini storici. Che genere di prigione? Michel Foucault ha dimostrato in modo vivido che il penitenziario è un’invenzione del tardo settecento, inizi dell’ottocento, strettamente connessa alla produzione industriale, alle sue fabbriche e alla sua ilosoia utilitaristica. Prima di allora le carceri erano estensioni della gabbia e della segreta. Quel che distingue il penitenziario è il numero di prigionieri che vi si possono ammassare, e il fatto che sono tutti sotto costante sorveglianza (merito del modello del Panopticon ideato da Jeremy Bentham, che introdusse nell’etica il principio della contabilità). La contabilità richiede che si prenda nota di ogni transazione. Da qui vengono le pareti circolari dei penitenziari, le celle disposte a cerchio e, al centro, la torre di guardia del sorvegliante. Bentham, che all’inizio dell’ottocento ebbe come discepolo John Stuart Mill, fu il principale apologeta utilitarista del capitalismo industriale. Oggi, nell’era della globalizzazione, il mondo è dominato dal capitale finanziario, non da quello industriale, e i dogmi che definiscono la criminalità e le logiche carcerarie sono radicalmente cambiati. I penitenziari esistono ancora e ne vengono costruiti ogni giorno di più. Adesso, però, le pareti della prigione servono a uno scopo diverso. Quello che costituisce un’area di carcerazione si è trasformato.
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Venticinque anni fa Nella Bielski e io abbiamo scritto A question of geography, un dramma sul gulag. Nel secondo atto, uno zek, un prigioniero politico, parla con un nuovo arrivato di scelta, dei limiti delle scelte possibili in un campo di lavoro. Quando ti trascini dopo una giornata di lavoro nella taiga e rientri mezzo morto di fatica e di fame, ti viene data la tua razione di zuppa e di pane. Per la zuppa non hai scelta: va mangiata finché è calda o almeno tiepida. Per i quattrocento grammi di pane una scelta ce l’hai. Per esempio, puoi tagliarlo in tre pezzettini: uno da mangiare adesso con la minestra, uno da succhiare tra i denti prima di addormentarti nella tua cuccetta, il terzo da serbare fino alla mattina dopo alle dieci, quando lavori nella taiga e il vuoto nello stomaco pesa come una pietra. Svuoti una carriola piena di sassi. Finché devi spingerla fino alla fossa non hai scelta. Adesso che è vuota una scelta ce l’hai. Puoi riportarla indietro come ce l’hai portata oppure – se sei intelligente, e la sopravvivenza ti rende intelligente – puoi spingerla tenendola quasi diritta. Se scegli questo secondo modo, fai riposare le spalle. Se sei uno zek e diventi caposquadra, puoi scegliere di atteggiarti a guardiano o di non dimenticare mai che sei uno zek. Il gulag non esiste più. Tuttavia milioni di persone lavorano in condizioni che non sono poi così diverse. Quel che è cambiato è la logica giudiziaria applicata a lavoratori e criminali. Durante il gulag i prigionieri politici, classificati come criminali, erano ridotti a forzati. Oggi milioni di lavoratori sfruttati in modo brutale vengono ridotti allo status di criminali. L’equazione del gulag, criminale = forzato, è stata riscritta dal neoliberismo ed è diventata: lavoratore = criminale latente. L’intero dramma della migrazione globale si esprime in questa nuova formula: chi lavora è un criminale in potenza. Davanti alla legge, è riconosciuto colpevole di tentare a tutti i costi di sopravvivere. Quindici milioni di messicani, donne e uomini, lavorano negli Stati Uniti senza documenti e sono di conseguenza illegali. Lungo la frontiera tra Stati Uniti e Messico sono in progetto un muro di cemento di 1.200 chilometri e un muro “virtuale” di 1.800 torri di guardia. Comunque i modi per aggirarli – tutti pericolosi – si troveranno di certo. Tra capitalismo industriale, dipendente dalla produzione e dalle fabbriche, e capitalismo finanziario, dipendente dalle speculazioni del libero mercato e dagli operatori che gestiscono l’interazione con il cliente (le transazioni finanziarie speculative ammontano, ogni giorno, a 1.300 miliardi di dollari: cinquanta volte più del totale degli scambi commerciali), l’area di carcerazione è cambiata. Adesso la prigione è grande come il pianeta e le sue zone assegnate variano e possono essere definite luogo di lavoro, campo profughi, centro commerciale, periferia, complesso di uffici, favela, sobborgo… La cosa essenziale è che quelli che sono reclusi in queste zone sono compagni di prigionia.
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È la prima settimana di maggio e sul fianco delle colline e sui monti, lungo i viali e intorno ai cancelli, nell’emisfero settentrionale, le foglie di buona parte degli alberi stanno spuntando. Non soltanto tutte le loro diverse varietà di verde sono ancora distinte, si ha anche la sensazione che ogni singola foglia sia diversa, e così ci si trova di fronte a miliardi (la parola è stata corrotta dai dollari), no, non miliardi: a un’infinita moltitudine di nuove foglie. Per i prigionieri, i piccoli segni visibili della continuità della natura sono sempre stati, e continuano a essere, un incoraggiamento segreto.
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Oggi lo scopo di buona parte dei muri della prigione (di cemento, elettronici, pattugliati o inquisitori) non è tener dentro i prigionieri e rieducarli, ma tenerli fuori ed escluderli. La maggior parte degli esclusi sono senza nome. Da questo deriva l’ossessione per l’identità di tutte le forze di sicurezza. Gli esclusi sono anche senza numero. Per due ragioni. Primo perché il loro numero fluttua: ogni carestia, disastro naturale e intervento militare (ora chiamato mantenimento dell’ordine!) riduce o aumenta la loro moltitudine. Secondo, perché stimarne il numero significa affrontare il fatto che loro costituiscono la maggioranza degli esseri viventi sulla faccia della terra. E guardare in faccia questa realtà vuol dire precipitare nell’assoluta assurdità.
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Liberare i piccoli prodotti dalla loro confezione è – lo avrete notato – sempre più difficile. Qualcosa di simile è successo con le vite di chi ha un impiego remunerativo. Chi ha un lavoro legale e non è povero, vive in uno spazio ridottissimo che gli permette un numero sempre minore di scelte, salvo la continua scelta binaria tra ubbidienza e disubbidienza. Il suo orario di lavoro, il suo luogo di residenza, le sue competenze e la sua esperienza passata, la sua salute, il futuro dei suoi figli, tutto quel che esula dalla sua funzione di dipendente deve occupare una piccola posizione di secondo piano rispetto alle esigenze enormi e imprevedibili del Profitto liquido. Inoltre la Rigidità di questa “regola della casa” è chiamata Flessibilità. In prigione le parole cambiano di segno. In Giappone l’allarmante pressione delle condizioni di lavoro di alto livello ha di recente obbligato i tribunali a riconoscere e definire la nuova categoria legale di “morte da superlavoro”. Non esiste altro sistema, viene detto a chi ha un impiego remunerativo. Non c’è alternativa. Prendete l’ascensore. L’ascensore è una piccola cella.
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“Les peuples n’ont jamais que le degré de liberté que leur audace conquiert sur la peur”("Le persone non hanno che il grado di libertà che gli consente la loro audacia che sovrasta la loro paura" ).–Stendhal. Osservo una bimba di cinque anni che prende lezioni di nuoto in una piscina comunale coperta. Indossa un costume blu scuro. Sa già nuotare, ma non si sente ancora abbastanza sicura per farlo senza sostegno. L’istruttrice la porta sul lato della piscina dove non si tocca. La bambina deve saltare nell’acqua afferrandosi a una lunga bacchetta che l’insegnante tiene tesa verso di lei. È un modo di aiutarla a vincere la paura dell’acqua. Ieri hanno fatto la stessa cosa. Oggi l’istruttrice vuole che la bambina salti senza aggrapparsi alla bacchetta. Uno, due, tre! La bimba salta, ma all’ultimo momento afferra l’asta. Nessuna delle due dice niente, ma si scambiano un vago sorriso. Intrepida la ragazzina, paziente la donna. La bambina esce dall’acqua arrampicandosi sulla scaletta e torna sul bordo della piscina. “Lasciami saltare di nuovo!”, dice. La donna fa un cenno di assenso. La bimba inspira, sibilando, e salta, le mani lungo i ianchi, senza afferrarsi a niente. Quando riemerge, la punta della bacchetta è lì proprio davanti al suo naso. Fa due bracciate fino alla scaletta senza toccarla. Brava! Nell’istante in cui la bambina è saltata in acqua senza la bacchetta, nessuna delle due era in prigione.
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Osservate la struttura del potere senza precedenti che circonda il mondo, e come funziona la sua autorità. Ogni tirannia scopre e improvvisa il proprio insieme di controlli. Ed è per questo che spesso, al principio, non ci accorgiamo che si tratta di controlli viscosi. Le forze del mercato che dominano il mondo asseriscono di essere inevitabilmente più forti di qualsiasi stato-nazione. Questa asserzione è confermata ogni istante. Da una telefonata non richiesta per convincere l’abbonato a sottoscrivere una nuova assicurazione sanitaria o pensione privata fino al più recente ultimatum dell’Organizzazione mondiale del commercio. Il risultato è che la maggior parte dei governi non governa più. Un governo non procede più nella direzione che si è scelto. La parola orizzonte, con la sua promessa di un futuro in cui sperare, è svanita dal discorso politico, a destra e a sinistra. La sola cosa ancora aperta alla discussione è come misurare quel che c’è. I sondaggi d’opinione rimpiazzano l’orientamento e si sostituiscono al desiderio. La maggior parte dei governi ammassa il branco invece di governare (nello slang carcerario degli Stati Uniti, mandriani è uno dei tanti nomi con cui sono chiamati i secondini). Nel settecento alla pena della carcerazione a lungo termine si dava con tono di approvazione la definizione di “morte civile”. Tre secoli dopo, i governi stanno imponendo con la legge, la forza, le minacce economiche e il loro brusio mediatico, regimi di massa di “morte civile”.
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Vivere sotto una qualsiasi tirannide del passato non era forse una forma di carcerazione? Non nel senso che sto descrivendo. Quel che viviamo oggi è nuovo, per via del rapporto che ha con lo spazio. È qui che il pensiero di Zygmunt Bauman è illuminante. Egli mostra che le forze del mercato finanziario che oggi governano il mondo sono extraterritoriali, vale a dire “libere dalle costrizioni territoriali, le costrizioni della località”. Sono perennemente remote, anonime e dunque non devono preoccuparsi delle conseguenze fisiche, territoriali delle loro azioni. Bauman cita Hans Tietmeyer, presidente della banca federale tedesca: “La posta odierna è creare condizioni favorevoli alla fiducia degli investitori”. La sola e suprema priorità. Ne consegue che il controllo delle popolazioni mondiali, composte di produttori, consumatori e poveri emarginati, è il compito assegnato ai docili governi nazionali. Il pianeta è una prigione e i governi ubbidienti, di destra o di sinistra, sono i mandriani.
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Il sistema-prigione opera grazie al ciberspazio. Il ciberspazio offre al mercato una rapidità di scambio pressoché istantanea, in funzione ventiquattr’ore su ventiquattro in tutto il mondo per commerciare. Da questa rapidità, da questa velocità, la tirannia del mercato ottiene la sua licenza extraterritoriale. Una simile velocità, tuttavia, ha un effetto patologico su quelli che la praticano: li anestetizza. Qualunque cosa succeda, business as usual. Quella velocità non lascia spazio al dolore: forse alle sue avvisaglie, ma non alla sofferenza. Di conseguenza, la condizione umana è bandita, esclusa, da chi fa funzionare il sistema, che è solo, perché non ha cuore. In passato i tiranni erano spietati e inaccessibili, ma facevano parte del vicinato ed erano esposti al dolore. Non è più così, e in questo sta il probabile punto debole del sistema.
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“I portoni si richiudono Siamo nel cortile della prigione in una nuova stagione”.–Tomas Transtömer. Loro (noi) sono compagni di prigionia. Questo riconoscimento, con qualunque tono di voce lo si dichiari, contiene un rifiuto. Da nessuna parte più che in prigione il futuro è conteggiato e atteso come qualcosa di assolutamente opposto al presente. Chi è in carcere non accetterà mai che il presente sia definitivo. Nel frattempo, come vivere questo presente? Che conclusioni trarre? Che decisioni prendere? Come agire? Adesso che il punto di riferimento è stato fissato, ho qualche indicazione da suggerire. Di qua dai muri si dà retta all’esperienza, nessuna esperienza è considerata obsoleta. Qui la sopravvivenza è rispettata ed è inutile dire che spesso dipende dalla solidarietà tra compagni di prigionia. Le autorità lo sanno, ecco perché ricorrono all’isolamento, attraverso la segregazione fisica o il loro brusio mediatico, per disconnettere le vite individuali dalla storia, dal lascito del passato, dalla terra e, soprattutto, da un futuro comune. Ignorate le chiacchiere del carceriere. Ovviamente, tra i carcerieri, ce ne sono di cattivi e di meno cattivi. In certe condizioni è utile notare la differenza. Ma quel che dicono – anche i meno infami – sono cazzate. I loro inni, le loro shibboleth (1), le loro parole di legno, per esempio Sicurezza, Democrazia, Identità, Civiltà, Flessibilità, Produttività, Diritti umani, Integrazione, Terrorismo, Libertà, sono ripetuti all’infinito per confondere, dividere, distrarre e sedare tutti i compagni di prigionia. Di qua dai muri, le parole dei carcerieri sono prive di significato e non aiutano più a pensare. Non portano da nessuna parte. Rifiutatele anche quando riflettete in silenzio per conto vostro. I prigionieri, al contrario, pensano servendosi di un vocabolario tutto loro. Molte parole sono tenute segrete e molte sono locali e hanno un’infinità di varianti. Parole e frasi brevi, brevi eppure capaci di contenere un mondo, come: lascia-che-ti-mostri, certe-volte-mi-chiedo, passerotto, nell’ala-B-sta-succedendo- qualcosa, spogliato, prendi-questo-piccolo-orecchino, caduti-per-noi, provaci, eccetera.
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Tra i compagni di prigionia non mancano i conflitti, a volte violenti. Tutti i prigionieri sono deprivati, eppure ci sono diversi gradi di deprivazione e le differenze di grado suscitano invidia. Di qua dai muri la vita vale poco. Il fatto stesso che la tirannide globale sia senza volto incoraggia la ricerca di capri espiatori, di nemici immediatamente identificabili, tra gli altri reclusi. Allora le celle soffocanti diventano un manicomio. I poveri aggrediscono i poveri, chi è stato invaso saccheggia l’invasore. I compagni di prigionia non andrebbero idealizzati. Senza idealizzare, prendete semplicemente nota che quel che hanno in comune – la loro inutile sofferenza, la loro resistenza, la loro scaltrezza – è più significativo, più eloquente, di quel che li separa. È a partire da qui che si creano nuove forme di solidarietà. Le nuove solidarietà iniziano con il reciproco riconoscimento delle differenze e della molteplicità. Se questa è vita! Una solidarietà, non di massa ma reticolare, di gran lunga più appropriata alle condizioni di vita in carcere.
*
Le autorità fanno sistematicamente del loro meglio per tenere i compagni di prigionia male o poco informati su quel che succede altrove nella prigione del mondo. Non indottrinano nel senso aggressivo del termine. L’indottrinamento è riservato alla formazione di una piccola élite di operatori ed esperti di management e mercato. Riguardo alla massa della popolazione carceraria lo scopo è non attivarla, bensì tenerla in uno stato di insicurezza passiva, per ricordarle senza rimorsi che nella vita non c’è altro che rischio e che la terra è un posto pericoloso. Lo si fa mescolando informazioni accuratamente selezionate, informazioni sbagliate, commenti, dicerie, storie inventate di sana pianta. Nella misura in cui riesce, l’operazione propone e alimenta un paradosso allucinante, poiché spinge la popolazione carceraria a credere che per ognuno dei suoi membri la priorità sia organizzare la propria difesa personale e ottenere in qualche modo, nonostante il comune stato di reclusione, la propria speciale esenzione dal destino collettivo. L’immagine dell’umanità che ci viene trasmessa dalla visione del mondo è ancora una volta senza precedenti. L’umanità è presentata come una massa di codardi: solo i vincenti sono coraggiosi. Inoltre non ci sono regali: ci sono solo premi. I prigionieri hanno sempre trovato dei sistemi per comunicare tra loro. Nell’attuale prigione globale il ciberspazio può essere usato contro gli interessi di chi lo ha originariamente installato. In questo modo, i reclusi raccolgono informazioni su quel che il mondo fa ogni giorno e ricostruiscono le storie del passato, trovandosi così fianco a fianco con i morti. Nel farlo, riscoprono piccoli doni, esempi di coraggio, un’unica rosa in una cucina dove non c’è abbastanza da mangiare, dolori indelebili, l’instancabilità delle madri, risate, aiuto reciproco, silenzio, una resistenza che continua a crescere, il sacrificio volontario, altre risate... I messaggi sono brevi, ma si protraggono nella solitudine delle loro (nostre) notti.
*
L’indicazione finale non è tattica, ma strategica.Il fatto che i tiranni del mondo siano extraterritoriali spiegala misura della loro capacità di sorveglianza, ma indica ancheuna debolezza a venire. Operano nel ciberspazio e abitano incondomini strettamente vigilati. Non sanno niente della terrache li circonda. Né vogliono conoscerla, perché a sentir loro si tratta di un sapere superficiale, senza profondità. Contano solo le risorse che ne estraggono. Non possono prestare ascolto alla terra. Sul terreno sono ciechi. Nello spazio fisico e locale sono persi. Per i compagni di prigionia è vero il contrario. Le celle hanno pareti che si toccano da una parte all’altra del mondo. Gli atti concreti di resistenza prolungata si radicheranno nel locale, vicino e lontano. Resistenza dell’outback (2), del dietro l’oltre,dando ascolto alla terra. Lentamente la libertà viene ritrovata non all’esterno, ma nel cuore della prigione.
*
Non solo ho immediatamente riconosciuto la tua voce, che mi parlava dal tuo appartamento di via Paolo Sarpi, ma grazie alla tua voce sono riuscito anche a intuire come ti sentivi. Ho percepito la tua esasperazione o, piuttosto, una resistenza esasperata che si combinava – e questo è così tipico di te – con i passi veloci della nostra prossima speranza.

(1) Shibboleth è un termine di origine biblica usato per identiicare imembri di un gruppo. In linguistica indica una parola o un’espressione difficile da pronunciare per alcuni parlanti che, a causa delle limitazioni fonetiche tipiche di alcune lingue, possono facilmente essere identificati chiedendogli di pronunciare una determinata parola. Nel linguaggio moderno ha acquisito significato più ampio e indica persone unite da interessi comuni, come certi gruppi giovanili per i quali il linguaggi particolare diventa un simbolo d’appartenenza che automaticamente esclude l’accesso a ogni realtà esterna.
(2) Il nome outback si riferisce, genericamente, alle aree interne più remote del continente australiano. L’outback non ha conini ben precisi ed è una regione ideale più che geograica.

John Berger è uno scrittore, sceneggiatore e giornalista britannico.
Nato a Londra nel 1926, ha scritto E i nostri volti, amore
mio, leggeri come foto (Bruno Mondadori 2008), Abbi cara
ogni cosa. Scritti politici 2001-2007 (Fusi orari 2007), Qui,
dove ci incontriamo (Bollati Boringhieri 2005). Il titolo originale
di questo testo è One message leading to another. La traduzione
dall’inglese è di Maria Nadotti.

Internazionale n.776

da: http://circolopasolini.splinder.com/post/19432466/L%27orizzonte