mercoledì 31 dicembre 2008

Dove sono finiti i nostri soldi

La crisi finanziaria ha "bruciato" 2.800 miliardi di dollari. Erano anche i nostri soldi. Bruciati vorrebbe dire svaniti. Ma svaniti non sono. In questo prezioso reportage pubblicato su "Internazionale" e ripreso da Die Zeit, si indaga su dove siano finiti: pare si siano materializzati in case vuote e invendute. Ma guarda. Lo sostenavamo da tempo anche noi pur non essendo fini analisti dell'alta finanza, piuttosto osservatori della bassa speculazione edilizia.

Dove sono finiti i soldi di Kerstin Kholenberg e Wolfang Uchatius

Nel pomeriggio del 31 ottobre, al secondo piano di una villa dipinta di giallo nel centro di Francoforte sul Meno, arriva un fax. Sono cinque pagine: sulla prima c’è l’intestazione della Commerzbank, sull’ultima la irma di Martin Blessing, l’amministratore delegato dell’istituto di credito. Sulle altre spicca una cifra: 8,2 miliardi di euro. è la richiesta della Commerzbank al Sofin, il fondo speciale creato dalla Repubblica Federale Tedesca per soccorrere gli istituti finanziari. Il 17 novembre, alle 9.30, in una sala conferenze nei pressi del parco Englischer Garten di Monaco di Baviera, Axel Wieandt, amministratore delegato della Hypo Real Estate, è collegato con gli analisti bancari di tutto il mondo. Wieandt parla per un’ora della situazione interna della banca: nel terzo trimestre del 2008 la Hypo Real Estate ha perso tre miliardi di dollari. Quanto durerà la crisi? Secondo la Banca d’Inghilterra, gli istituti finanziari di tutto il mondo hanno già perso 2.800 miliardi di dollari. Spesso si sente dire che questi soldi sono “andati in fumo”, “spariti” o “bruciati”. E la distruzione di denaro continua. Quante saranno le perdite? Nessuno lo sa. Ma forse si può già dare una risposta all’interrogativo più interessante: dove sono finiti quei 2.800 miliardi di dollari? In realtà il denaro sparisce raramente. Spesso, invece, cambia proprietario.
In Germania la domanda potrebbe essere rivolta a molte persone: economisti, consulenti patrimoniali, guru della borsa. Ma c’è un uomo che sembra più adatto di altri a rispondere, perché è uno dei pochi che hanno capito cosa sia successo in questi ultimi anni nel mondo dell’economia. Si chiama Max Otte. è appena tornato da Francoforte sul Meno, dove ha tenuto una conferenza. Ma sta già per ripartire: va a Vienna, dove è invitato in tv. In questo momento è molto richiesto.
Otte si è ritagliato un pomeriggio libero tra i numerosi impegni per riceverci nel suo appartamento di Colonia. Si toglie la giacca e allenta il nodo della cravatta. Due anni fa era ancora uno sconosciuto professore di economia dell’università di Worms. All’epoca, se accendeva la tv, vedeva dappertutto colleghi secondo i quali il boom avrebbe retto e i prezzi delle azioni sarebbero saliti ancora. Otte non era d’accordo: era convinto che il mondo stesse andando verso una catastrofe economica. Così scrisse un libro in cui prevedeva il crollo delle borse, il crac delle banche e il rischio di fallimento della General Motors. “Se leggo correttamente i segnali che l’economia mondiale ci lancia, dico che il crollo ci sarà per forza e che avrà conseguenze devastanti”, scriveva Otte. Il suo libro, che s’intitola Der Crash kommt (Arriva il crac), è uscito nella primavera del 2006 e ha venduto bene, ma non è diventato un best seller. Poi è arrivato il crac, e da allora Otte è diventato l’uomo che sapeva tutto. Le vendite del libro hanno già superato le duecentomila copie. E tra poco uscirà anche un’edizione in cinese. Allora, dove sono finiti i soldi? Otte ci pensa su e poi risponde: “Innanzitutto bisogna andare negli Stati Uniti, nei quartieri residenziali alla periferia delle grandi città, e dare un’occhiata alle case”. Per esempio quella di Mantua avenue 70 a Henderson, una cittadina del Nevada. è una villa in cui si respira profumo di Toscana: tegole di terracotta, persiane di legno, una veranda coperta, piccoli pini nel giardino davanti alla casa. Guardando in lontananza si scorgono i casinò di Las Vegas che scintillano al sole. Accanto c’è un’altra villa, poi un’altra e un’altra ancora. Il complesso residenziale si chiama Inspirada.
Qui ci sono centinaia di case pronte per essere abitate ma vuote, ed edifici non ancora initi. Sono allineati lungo decine di strade che si chiamano via delle Arti o viale Palazzo reale. Strade che dovevano portare negli Stati Uniti un pezzetto d’Italia e che invece portano nel deserto. Prima che l’impresa immobiliare Toll Brothers cominciasse a investire qui milioni di dollari, questo appezzamento di terreno era un mucchio di sabbia con qualche cactus. In quest’area ai margini di Las Vegas grande 790 ettari, cioè come 1.400 campi di calcio, sono stati investiti 550 milioni di dollari. E altrettanti ne sono stati spesi per fare le strade, i vialetti e le fognature. La villa dei sogni Un’agente apre la porta della villa al numero 70. Sono dieci anni che lavora per i fratelli Toll. Dieci anni in cui a lei e a Las Vegas è andata bene. Indica il pavimento di marmo: 15mila dollari. Il piano di lavoro di granito: 1.300 dollari. La scala di legno di ciliegio: 3.500 dollari. La Jacuzzi nel bagno: 1.250 dollari. “Mi chiamo Bob Toll”. La voce viene da un televisore del soggiorno. Sull’ampio schermo piatto scorre senza interruzione un video pubblicitario dei fratelli Toll. Clienti soddisfatti raccontano quanto sono felici nella casa dei loro sogni. Ma nessuno li ascolta più. Per questa casa la Toll Brothers chiede 600mila dollari, dice l’agente, ma trattabili: ci si accontenta di recuperare i costi. Eppure non si presenta nessuno. Né in questa strada né altrove. Il denaro dei fratelli Toll è rimasto congelato nelle case. La risposta al primo interrogativo su dove sono finiti i soldi la troviamo qui: in una città fantasma vicino a Las Vegas. In Nevada le case in vendita sono 22mila. In tutti gli Stati Uniti ci sono 4 milioni e 670mila case e appartamenti vuoti che nessuno vuole. Ognuno è costato in media 212mila dollari. In totale fanno 990 miliardi di dollari rimasti murati nelle pareti e nei pavimenti. Per dieci anni le imprese edili statunitensi hanno costruito centri residenziali formati da migliaia di cosiddette Mc- Mansions: villette unifamiliari con cinque camere da letto, scalinata, lampadari a corona e porticati a colonne. Per dieci anni hanno fatto ottimi affari, perché per tutto questo tempo gli statunitensi hanno comprato qualsiasi cosa avesse quattro mura. I soldi li hanno avuti dalle banche.

A questo proposito è bene ricordare che dare e prendere in prestito è la base di ogni sistema inanziario. Il credito è la più antica idea commerciale del capitalismo. Il privato A si fa prestare dalla banca B un importo in denaro che poi restituisce con un’aggiunta: l’interesse. Un buon affare per entrambe le parti. La banca incassa gli interessi e realizza un guadagno. Con il denaro preso in prestito, A può comprare qualcosa che altrimenti non sarebbe alla sua portata, per esempio una casa. L’unica condizione è che A possa restituire il prestito. Donne di servizio e braccianti Negli ultimi anni tutti negli Stati Uniti hanno potuto prendere soldi in prestito: i tassi d’interesse non erano mai stati così bassi. La domanda di case è aumentata e di conseguenza anche i prezzi. E dal momento che i prezzi sono aumentati, gli agenti immobiliari hanno cominciato a rivolgersi a donne di servizio e braccianti che guadagnavano cinque dollari all’ora. E gli hanno detto: se comprate una casa che vale duecentomila dollari e non potete restituire i soldi del mutuo, non fa niente, perché i prezzi stanno salendo e tra cinque anni la vostra casa varrà trecentomila dollari. A quel punto potrete offrirla in garanzia per chiedere un nuovo mutuo e pagare quello vecchio. Niente può andare storto. Così donne di servizio e braccianti sono andati dalle banche, che gli hanno fatto credito. Era un affare in cui tutti ci guadagnavano. Ma a condizione che i prezzi salissero. Ecco perché le imprese hanno costruito sempre più case: un milione e duecentomila all’anno. E, per comprarle, sempre più persone hanno preso dei soldi in prestito. Finché non è successo quello che Robert Shiller, economista dell’università di Yale, ha descritto in termini lapidari: “La colossale offerta di case nuove ha cominciato a saturare il mercato, e i prezzi degli immobili sono scesi precipitosamente”.

All’improvviso milioni di statunitensi non hanno più ottenuto nuovi prestiti per finanziare i loro vecchi mutui ipotecari. E le banche americane si sono rese conto che non avrebbero più rivisto molti dei soldi prestati. Il denaro è rimasto congelato nelle proprietà immobiliari invendibili. E sta nelle tasche degli agenti immobiliari e di quei proprietari che sono riusciti a vendere le loro case prima che i prezzi scendessero. I soldi stanno nelle mani dei fabbricanti di cemento, dei manovratori di escavatrici e dei muratori, che con questi soldi hanno forse comprato automobili giapponesi, frigoriferi tedeschi o giocattoli cinesi per i loro bambini. Ma ora quel denaro manca alle banche americane, non alle finanziarie tedesche, britanniche o svizzere.

Le banche statunitensi si sono fatte fregare da una serie di speculazioni sbagliate. Ma come mai sono stati gli istituti inanziari di tutto il mondo ad accumulare perdite per 2.800 miliardi di dollari? Com’è successo che per via di alcune case che non si riescono a vendere nel deserto del Nevada, la Commerzbank ha bisogno di un’iniezione di capitali di 8,2 miliardi di euro? Banche d’investimento Max Otte aveva detto che per capire come la crisi avrebbe potuto estendersi, occorreva puntare lo sguardo sull’industria inanziaria, un settore formato innanzitutto dalle banche d’investimento: istituti come Goldman Sachs, J.P. Morgan, Morgan Stanley o Lehman Brothers, i cui affari ruotano prevalentemente intorno alle azioni, alle opzioni e ai contratti a termine. In realtà queste banche non fanno niente di diverso dai fabbricanti di telefonini, che costruiscono modelli sempre più soisticati. Allo stesso modo le banche d’investimento cercano continuamente nuovi titoli. Come i produttori di cellulari, vogliono una sola cosa: vendere i loro prodotti. E il prodotto che ha provocato la diffusione della crisi in tutto il mondo si chiama mortgage backed security. Il primo che lo ha venduto è stato Lewis Ranieri, un banchiere di origini italiane che viene da Brooklyn, New York. Sono i giorni della crisi e le file di poltrone nere che ricoprono le ripide gradinate del Piper auditorium dell’università di Harvard sono tutte occupate quando Ranieri sale sul podio. Ha sessant’anni, i capelli e la barba sono diventati grigi. Ma la pancia, in cui in passato – così si racconta a Wall street – riversava quantità smisurate di fast food, è rimasta la stessa. Ranieri è venuto a Harvard per spie sagare come tutto sia partito dalla sua invenzione. Posa davanti a sé il discorso che ha preparato e inspira. Poi però si ferma ed esclama: “Parlerò a braccio”. Pronuncia quelle parole con l’accento aperto dei lavoratori newyorchesi. Perché Ranieri non ha studiato a Harvard né a Stanford né a Princeton. Anzi, non ha studiato per niente. Eppure ha fatto più strada dei banchieri provenienti dalle università d’élite. Nel 1968, quando aveva vent’anni, lavorava come fattorino nella banca d’investimento newyorchese Salomon Brothers. Organizzava la posta interna in modo così efficiente che la banca gli offrì un posto di venditore di titoli. “Era disordinato, spaccone e sfacciato”, ricorda un suo ex collega, “ma aveva il fascino di un uomo che vuole farsi amare”. Nel 1978 Ranieri riuscì a diventare capo della divisione mutui ipotecari, che la Salomon Brothers aveva messo in piedi da poco. All’epoca le banche ipotecarie statunitensi avevano distribuito prestiti in tutto il paese per un valore di 1.200 miliardi di dollari. Il settore dei mutui ipotecari era diventato più grande dell’intero mercato azionario americano. Ma mentre le azioni potevano far guadagnare milioni di persone, nell’affare dei mutui ipotecari le parti erano solo due: il denaro andava dalla banca B al privato A, e poi tornava da A a B. Ranieri cambiò tutto. Rese il mercato dei prestiti ipotecari una specie di colossale borsa dove ognuno poteva comprare in qualsiasi momento delle partecipazioni ai mutui. Ranieri trasformò il prestito che il privato A otteneva dalla banca statunitense B in un titolo che poteva essere rivenduto alla banca tedesca C, alla banca britannica D e alla banca svizzera E. Non solo: pensò di riunire tanti singoli mutui in un grosso pacchetto da cui poter poi tagliare delle fette da rivendere. Queste sono le mortgage backed securities, cioè le obbligazioni garantite da ipoteche.

Da allora solo formalmente chi compra case restituisce il mutuo ipotecario alla banca che lo ha erogato: di fatto il denaro finisce in tasca a chi ha ricomprato i titoli ipotecari. Cioè a banche di tutto il mondo, assicurazioni, fondi d’investimento e clienti dei fondi, che comprando hanno scommesso sul fatto che il maggior numero possibile di persone sia in grado di ripagare i debiti contratti. In teoria è un buon affare per tutti. Chi ha chiesto il mutuo può comprarsi una casa, l’acquirente di titoli incassa gli interessi e la banca ipotecaria non deve aspettare anni prima di rientrare in possesso del denaro che ha prestato. E avendo venduto il credito, può concederne uno nuovo. All’inizio è andato tutto a meraviglia: le mortgage backed securities di Ranieri diventarono campioni di vendite, e nell’affare entrarono altre banche d’investimento. I titoli erano richiestissimi da istituti inanziari e da investitori di tutto il mondo: la tedesca Deutsche Bank, la svizzera Ubs, la francese Crédit Agricole, la britannica Royal Bank of Scotland, il gruppo giapponese Mizuho. A un certo punto negli Stati Uniti la domanda di mortgage backed securities ha superato il valore dei veri e propri mutui ipotecari. Quindi occorreva emetterne di più. Così le banche hanno abbassato i criteri per l’erogazione dei mutui: hanno smesso di chiedere ai clienti la garanzia di un capitale di proprietà e di un buon reddito. Hanno cominciato a interessarsi alle donne delle pulizie e ai braccianti. In fondo, perché mai un disoccupato non doveva comprarsi tre case? Questo tipo di mutui è stato denominato subprime, di seconda scelta.

Negli anni compresi tra il 2000 e il 2005 il loro volume è aumentato di 495 miliardi di dollari, ino a raggiungere i 625 miliardi. Impacchettati insieme ai crediti di prima scelta concessi a clienti solvibili come medici o avvocati, anche i mutui subprime sono stati trasformati in titoli. Nuovi prodotti “All’epoca, quando abbiamo inventato il sistema”, sottolinea Ranieri con rabbia, “comprarsi una casa era una decisione che si prendeva una sola volta nella vita”. Dopo è diventata una scommessa sull’aumento dei prezzi degli immobili. “Ma i prezzi possono scendere, anche se per molto tempo noi non ci abbiamo voluto credere”. Mentre le donne delle pulizie e i braccianti speculavano sul futuro, le banche d’investimento inventavano nuovi prodotti inanziari che nascondevano i rischi colossali di quelle ipoteche. Quello che in condizioni normali si sagare rebbe dovuto chiamare “imbroglio” portava nomi complicati come collateral debt obligations o credit default swaps. Si trattava di titoli privi di qualsiasi fondamento economico, ha scritto Wolfgang Münchau, giornalista del Financial Times. Tranne uno: “Le banche d’investimento che li mettono sul mercato riscuotono enormi provvigioni”. Queste entrate hanno fatto salire i profitti delle banche d’investimento e sono arrivate nelle tasche dei dipendenti degli istituti di credito sotto forma di bonus. Nel 2005 la Goldman Sachs, una dalle più antiche banche d’investimento di Wall street, ha distribuito bonus per dieci miliardi di dollari. Fino a 500mila dollari a testa. La banca non badava a spese: il suo presidente dell’epoca, Henry Paulson, ha intascato 38,3 milioni di dollari. In seguito Paulson è diventato segretario del tesoro degli Stati Uniti. Quindi il denaro che in queste settimane sta cercando così disperatamente è inito anche nelle sue tasche. Il denaro luiva dagli istituti di credito di tutto il mond nelle casse delle banche che erogavano mutui negli Stati Uniti, mentre una forte corrente laterale lo deviava verso le banche d’investimento e i loro manager. Dalle banche ipotecarie andava agli acquirenti di case. E da lì sarebbe tornato indietro agli istituti di tutto il mondo, ai detentori dei titoli di credito. Sempre che i braccianti e le donne delle pulizie riuscissero a saldare i loro debiti. E a condizione che i prezzi delle proprietà immobiliari continuassero ad aumentare. Rettiiche di valore A Francoforte sul Meno, nel cuore del distretto inanziario, c’è un grattacielo che svetta sopra tutti gli altri. Con i suoi 269 metri è il secondo ediicio più alto d’Europa. è una torre di vetro e cemento a sezione triangolare. Di notte gli ultimi piani dell’ediicio brillano di una luce color giallo chiaro, come se fossero dipinti di vernice fosforescente. è il giallo della Commerzbank. La torre ha cinquanta piani e nove giardini artiiciali, dove i dipendenti possono prendere il caffè godendosi la vista della città. Al diciannovesimo piano crescono i bambù, al trentacinquesimo gli ulivi. Quattro piani più su, al trentanovesimo, comincia la divisione bilancio, che si estende ino al quarantaduesimo piano. Qui lavorano trecento persone. Si occupano di cose che non hanno niente a che fare con la missione della banca. Ma attualmente il loro compito è di vitale importanza per la Commerzbank: devono stimare quanto denaro possiede la banca e quanto gliene manca. Più precisamente, devono calcolare quanto vale ancora il patrimonio della Commerzbank: i titoli, le proprietà immobiliari, i crediti esigibili. Le chiamano “rettiiche di valore”. I risultati di questo lavoro vengono trasmessi all’ultimo piano, quello del consiglio d’amministrazione. In particolare, arrivano sulla scrivania di Eric Strutz, il direttore finanziario della Commerzbank. Sul patrimonio della banca nessuno ne sa più di lui. è un uomo robusto, con una stretta di mano ferma. Quando parla, guarda l’interlocutore dritto negli occhi, anche se deve affrontare argomenti scomodi. Come quando afferma: “Un simile sviluppo dei mercati non era prevedibile”.

La Commerzbank ha investito 1,2 miliardi di euro nei titoli legati ai mutui subprime. Buona parte di quei titoli sono ancora in suo possesso, ma non c’è più nessuno che voglia comprarli: per loro non c’è più mercato. La banca, però, deve iscriverli a bilancio al valore attuale di mercato. Insomma, i titoli e i mutui ci sono ancora, ma non valgono niente. I soldi se ne sono andati. Una parte resterà immobilizzata per sempre in case vuote, che vanno lentamente in rovina. Ma un’altra parte probabilmente tornerà, perché non tutti i debitori resteranno insolventi per sempre. Molti statunitensi ce la faranno: lavoreranno di più, spenderanno di meno e salderanno i loro debiti. A quel punto il denaro riprenderà ad afluire nelle tasche dei proprietari delle obbligazioni. A quel punto si troveranno nuovi acquirenti per i titoli, che torneranno ad avere un valore sul mercato. Bisogna solo aspettare che il caos si plachi. Come un piccolo investitore che possiede azioni delle case automobilistiche, precipitate al minimo storico: se è furbo e se lo può permettere, aspetta che la congiuntura migliori. Allora i prezzi delle azioni ricominceranno a salire, e il denaro tornerà. Il problema è che le banche non possono aspettare. “Dobbiamo redigere un rapporto ogni tre mesi e uno annuale”, spiega Strutz. Nel pieno della crisi i governi hanno modiicato alcune norme di bilancio, ma le banche sono ancora obbligate a registrare gran parte dei titoli al prezzo attuale di mercato. E se nel giorno di chiusura del bilancio il prezzo è basso, le perdite sono alte e la banca fallisce. Negli ultimi mesi solo negli Stati Uniti 304 società finanziarie e 22 banche sono state costrette a dichiarare insolvenza. Il caso più clamoroso è stato quello della banca d’investimento Lehman Brothers.

Poco dopo il fallimento dell’istituto statunitense, anche le tre principali banche islandesi sono andate a gambe all’aria, e subito dopo l’intero stato nordeuropeo. E se l’Islanda è quasi in bancarotta, come se la passa l’Italia? E non è a rischio anche la Grecia? E quanto sono solide le inanze della Croazia? Ecco le domande che in questi mesi si pongono gli investitori di tutto il mondo. è così che all’improvviso perdono valore anche i titoli che non hanno niente a che fare con i mutui statunitensi, per esempio i titoli di stato islandesi, italiani o greci. La conseguenza è che i trecento impiegati della divisione bilancio della Commerzbank devono continuamente rettiicare il patrimonio della banca, che si riduce sempre di più. In base alle cifre che i contabili gli consegnano in queste settimane, Eric Strutz può ripercorrere la crisi passo per passo. Rettiiche di valore dovute alla crisi dei mutui subprime da agosto: 144 milioni di euro. Rettifiche dovute al fallimento della Lehman Brothers: 371 milioni di euro. Rettiiche dovute alle difficoltà finanziarie dell’Islanda: 260 milioni di euro. Vapore acqueo Il problema è che ora, per compensare le svalutazioni, le banche di tutto il mondo hanno bisogno urgente di denaro fresco: molto più di quanto ne sia andato perso nella crisi dei mutui. All’improvviso non si tratta più di un paio di centinaia di miliardi di dollari, ma di migliaia di miliardi. La conseguenza è che paradossalmente nelle borse di tutto il mondo si possono guadagnare molti soldi in un colpo solo. Ma come, non abbiamo detto che da mesi le azioni di quasi tutte le imprese stanno perdendo valore? Si parla di 23mila miliardi di dollari bruciati in borsa. Certo, quei soldi sono spariti, ma non sono stati bruciati. Sono evaporati. E in borsa questo fa la differenza, perché il vapore acqueo, quando si raffredda, si trasforma di nuovo in acqua. Questa legge vale anche per il denaro, che torna liquido e quindi torna a scorrere. Solo che a quel punto di solito scorre verso altre tasche. “Andate alla 2IQ”, aveva detto Max Otte, “e chiedete di Silvio Berlusconi”. A Francoforte sul Meno, in un palazzo di prinufici che sorge a un incrocio non lontano dalle torri delle banche, i fratelli Patrick e Robert Hable stanno analizzando i dati relativi ai mercati inanziari. Sono dati speciali, usati per le indagini sul reato di insider trading (l’uso illecito di informazioni privilegiate sulle aziende quotate in borsa). Premendo un tasto, sullo schermo del computer di Patrick Hable compaiono i nomi dei manager che ultimamente hanno comprato azioni delle loro imprese. Sono moltissimi. “I manager approfittano del calo dovuto alla crisi per comprare azioni a poco prezzo”, commenta Hable.

Ci vorrà ancora molto tempo prima che i prezzi delle azioni tornino a crescere in modo costante. Ma quando succederà, gran parte delle migliaia di miliardi che le borse hanno bruciato durante la crisi torneranno indietro. A quel punto, però, i titoli apparterranno a chi ha comprato in questi mesi: manager e ricchi investitori, insomma quelli nelle cui tasche il denaro entrava già negli anni passati. Qualche esempio? Cominciamo da Silvio Berlusconi. A metà ottobre il presidente del consiglio italiano ha comprato azioni Mediaset per circa 16 milioni di euro, quando in borsa il titolo del suo gruppo era al minimo storico. Il finanziere Warren Buffett, l’uomo più ricco del mondo, ha comprato partecipazioni azionarie della General Electric per la cifra irrisoria di 2,1 miliardi di dollari. Il principe saudita al Walid bin Talal ha annunciato l’acquisto di 350 milioni di dollari in azioni della banca statunitense Citibank, istituto che ha già ricevuto dal governo americano nuovi capitali per 20 miliardi di dollari. Uno di quelli che ci guadagnano di più potrebbe essere un signore magro e con gli occhiali senza montatura, che parla a bassa voce e inila spesso un sorrisetto tra una frase e l’altra. Si chiama Gao Xiqing. Su incarico del suo datore di lavoro, la Repubblica Popolare Cinese, nei prossimi mesi Gao Xiqing dovrebbe investire 80 miliardi di dollari in imprese straniere. è il capo della China Investment Corporation (Cic), uno dei più grandi fondi sovrani del mondo. Quasi vent’anni fa, all’inizio dell’estate del 1989, Gao Xiqing partecipò alle manifestazioni in piazza Tiananmen a Pechino. Ma prima ancora che l’esercito uccidesse migliaia di persone, Gao abbandonò la protesta. Era arrivato alla conclusione, racconta, che c’era un mo do migliore per rafforzare la democrazia in Cina: far crescere l’economia del paese. Il governo cinese ha investito nella Cic 200 miliardi di dollari. Con questi soldi Gao Xiqing ha il compito di moltiplicare la ricchezza dello stato. Un anno fa ha comprato per cinque miliardi di dollari un pacchetto di azioni della Mo r g a n Stanley, la seconda banca d’investimento degli Stati Uniti. Ad aprile ha comprato 4,4 miliardi di dollari di azioni della J.C. Flowers, il fondo creato da un ex manager della Goldman Sachs per rilevare a poco prezzo società finanziarie decotte. Poi a settembre è andato negli Stati Uniti e ha nuovamente trattato con il capo della Morgan Stanley: voleva aumentare al 49 per cento la sua partecipazione nella banca. Invece le azioni sono state vendute alla grande banca giapponese Mitsubishi Ufj. Per motivi politici, si dice: gli statunitensi temevano da tempo che la Cic si volesse comprare tutto il paese. Ma Gao Xiqing dà sempre la stessa risposta: il suo compito non è quello di acquisire inluenza politica, “vogliamo solo realizzare proitti”. E Gao ha appena cominciato. Il grande crollo

Al termine della nostra conversazione Max Otte posa sul tavolo un libro intitolato Il grande crollo. Il suo autore, John Kenneth Galbraith – morto nel 2006 a 97 anni –, è considerato uno dei massimi economisti del ventesimo secolo. Nel libro Galbraith spiega come si arrivò alla grande depressione degli anni trenta. Anche all’epoca ci furono banche che fallirono e prezzi azionari in caduta libera. Galbraith fornisce una spiegazione interessante: i ricchi erano diventati troppo ricchi. Negli anni trenta lo 0,1 per cento dei cittadini americani possedeva quasi il 40 per cento della ricchezza complessiva. Di conseguenza, sostiene l’economista, molti non sapevano cosa fare del loro denaro. Così cominciarono a speculare e a cercare nuovi prodotti in cui investire. Oggi negli Stati Uniti la ricchezza non è distribuita in modo così diseguale come allora. Ma da qualche anno certi comportamenti ricordano quelli dei ruggenti anni venti. Ed è scoppiata un’altra grande crisi. I ricchi sono diventati di nuovo troppo ricchi? Proviamo a ribaltare la prospettiva: probabilmente negli Stati Uniti i poveri sono diventati troppo poveri. E non solo loro, non solo i braccianti e le donne delle pulizie, ma anche la classe media. Attualmente negli Stati Uniti il 40 per cento della società possiede solo lo 0,2 per cento della ricchezza complessiva. In questi ultimi anni chi non voleva restare ai margini della società ha avuto una sola scelta: prendere denaro in prestito. Per far studiare i igli, per pagare l’assistenza sanitaria, per comprare una casa. Alla ine molti statunitensi non sono più riusciti a saldare i loro debiti. Per questo ora paga lo stato. I governi di tutti i grandi paesi industrializzati hanno varato dei piani di salvataggio. L’idea è fornire alle banche denaro fresco per compensare almeno in parte le perdite causate dalla crisi inanziaria. In Germania le banche devono spedire un fax o una lettera a una villa intonacata di giallo a Francoforte sul Meno. In Gran Bretagna non devono neanche fare richiesta: i capitali vengono erogati per precauzione. E così siamo arrivati al punto in cui sono gli stati a inanziare a posteriori gli immobili costruiti negli Stati Uniti. Ma anche le provvigioni degli intermediatori immobiliari, i bonus dei manager delle banche d’investimento, i salari dei lavoratori edili. Resta un interrogativo: i governi e gli stati dove prendono il denaro di cui hanno bisogno? La risposta calza a perfezione al modo in cui questa crisi è cominciata. Paesi come la Germania, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si comportano come gli americani che compravano le case: prendono soldi in prestito, fanno debiti. In Germania ci pensa una società, la Bundesrepublik Deutschland Finanzagentur, che è di proprietà dello stato al 100 per cento. Negli ultimi dodici mesi questa società, che ha 330 dipendenti, ha preso 220 miliardi di euro in prestito per conto del governo di Berlino. Il grosso di questo debito è stato contratto solo per poter rimborsare prestiti già esistenti, a cui si sono aggiunti altri 14 miliardi di euro. Come ha ottenuto tutti questi soldi la Finanzagentur? Attraverso la vendita di titoli di stato. La Repubblica Federale Tedesca si impegna a restituire i soldi ai compratori di questi titoli dopo 5, 7 o 10 anni, naturalmente con gli interessi. Tra gli acquirenti ci sono grandi fondi d’investimento giapponesi, statunitensi, di Singapore o dell’est europeo. Ma c’è anche Gisela Schmidt, una pensionata della Bassa Sassonia.
In primavera, prima della crisi, Gisela aveva diecimila euro da investire. I suoi soldi erano rimasti su un libretto di risparmio per anni, inché un consulente della banca non l’ha convinta che era un errore: un libretto di risparmio frutta un interesse quasi nullo. Il consulente voleva venderle nuovi titoli di una banca americana: la Lehman Brothers. Soldi sicuri, diceva: “Dovrebbe assolutamente comprarli”. Ma Gisela Schmidt, 69 anni, vedova, ex segretaria, ha detto no. “Non voglio saperne di queste nuove mode, perché non ci capisco niente”. Poi la Lehman Brothers è fallita, mentre Gisela Schmidt ha comprato una cosa che esiste già da decenni: un buono del tesoro. I suoi diecimila euro, quindi, sono afluiti sul conto della Repubblica Federale Tedesca, presso la Bundesbank. I soldi di Gisela Schmidt contribuiscono a salvare le banche. Anche se lei non lo sospetta neanche. Gisela ha comprato i titoli di stato perché li riteneva un investimento sicuro e perché tra sette anni riavrà i suoi soldi con gli interessi. Il 23 settembre 2015, infatti, la Repubblica Federale Tedesca le verserà 12.431 euro. Gisela fa soldi sui debiti dello stato. “Poi andrà tutto a mio nipote”, dice. “A me basta la pensione”. Suo nipote si chiama Max, ha 14 anni ed è tifoso dell’Amburgo. A lui la crisi inanziaria non interessa. Forse gli interesserà tra sette anni, quando magari avrà già un lavoro, e quando probabilmente il governo sarà costretto ad aumentare le tasse perché i debiti dello stato saranno cresciuti. Allora forse Max capirà che i soldi delle sue tasse sono l’ultimo anello di una lunga catena di movimenti di denaro e che sono già stati spesi da un pezzo. Sull’altra sponda dell’Atlantico, negli Stati Uniti. Perché qualche anno prima a qualcuno era sembrato un buon affare costruire una villa signorile in cui si respirasse aria di Toscana vicino a Las Vegas.

"Internazionale", n. 773

sabato 27 dicembre 2008

Stati Uniti: allarme iperinflazione e depressione

La Federal Reserve prepara un'iperinflazione alla Weimar
:::: 23 Dicembre 2008 :::: 9:05 T.U. :::: Analisi - economia :::: F. William Engdahl
di F. William Engdahl *

La Federal Reserve ha opposto un secco diniego alla richiesta, giunta da un importante servizio d'informazione finanziaria statunitense, di rivelare i destinatari dei prestiti d'emergenza per oltre 2.000 miliardi (tratti dalle tasche dei contribuenti) ed i beni che la banca centrale sta accettando come garanzia. I loro avvocati sono ricorsi al bizzarro argomento della tutela del “segreto commerciale”. Il segreto consiste forse nella bancarotta de facto del sistema finanziario statunitense? L'ultima mossa della FED è un'ulteriore indicazione del grado di panico raggiunto in seno agli alti gradi delle istituzioni finanziarie statunitensi e della loro mancanza d'una chiara strategia. L'espansione senza precedenti della base monetaria, praticata nelle ultime settimane dalla Federal Reserve, pone le basi per una futura iper-inflazione di sapore weimariano, forse prima del 2010.
Il 7 novembre Bloomberg ha intrapreso un'azione legale sulla base della Freedom of Information Act, chiedendo i dettagli d'undici nuovi programmi di finanziamento, creati dalla Federal Reserve all'aggravarsi della crisi.
La FED ha risposto l'8 dicembre, rivendicando il diritto a tenere nascosti i memoranda interni così come le informazioni concernenti il “segreto” e la “informazione” commerciali. La banca centrale confermava che una ricerca nei registri aveva riscontrato 231 pagine di documentazione pertinente alla richiesta.
Nelle ultime settimane, la FED di Bernanke è intervenuta per assumere un ruolo che, nei propositi originari, avrebbe dovuto essere del Troubled Asset Relief Program (TARP), varato dal Tesoro per un valore complessivo di 700 miliardi. La differenza tra un salvataggio delle istituzioni finanziarie praticato dalla FED ed uno praticato dal Tesoro risiede nel fatto che i prestiti della banca centrale non sottostanno al vaglio critico del Congresso, imposto invece al TARP. Forse sono questi i “segreti commerciali” che lo sfortunato presidente della FED, Ben Bernanke, sta così gelosamente nascondendo alla popolazione.

Iper-inflazione in agguato?

Il 6 novembre il complesso di questi prestiti d'emergenza accordati dalla FED eccedeva i 2.000 miliardi di dollari. La crescita, stupefacente, è stata del 138% (ossia di 1230 miliardi) nelle dodici settimane successive al 14 settembre, quando i governanti di banca centrale affievolirono i requisiti di garanzia necessari ad accettare titoli sprovvisti della classificazione “AAA”. Fecero ciò sapendo che il giorno successivo sarebbe avvenuto un drammatico scossone nel sistema finanziario, e lo sapevano perché, di concerto con l'Amministrazione Bush, avevano deciso di lasciarlo accadere.
Il 15 settembre Bernanke e Tim Geithner (presidente della Riserva Federale di New York), prossimo segretario del Tesoro designato da Obama, d'accordo con l'Amministrazione Bush avevano deciso di lasciar fallire la quarta più grande banca d'investimento, la Lehman Brothers, che lasciava insolventi miliardi di derivati ed altre obbligazioni possedute da investitori sparsi in tutto il mondo. Quest'evento, com'è oggi ampiamente riconosciuto, scatenò il panico a livello globale, poiché non era più chiaro che criteri stesse utilizzando il Governo degli USA per decidere quali istituzioni fossero “troppo grosse per fallire” e quali non lo fossero. Da allora il Segretario al Tesoro statunitense ha ripetutamente rivisto la politica sui salvataggi bancari, cosa che ha lasciato supporre a molti che Henry Paulson e l'Amministrazione di Washington – e con loro la FED – avessero perduto il controllo.
In risposta all'acuirsi della crisi, la FED di Bernanke ha deciso d'espandere quella che tecnicamente si chiama “base monetaria”, definita come il totale delle riserve bancarie più la liquidità in circolo, basi per una potenziale ulteriore emissione nell'economia da parte delle grandi banche. Dalla bancarotta della Lehman Bros., quest'espansione monetaria è aumentata drammaticamente per la fine d'ottobre, ad un tasso di crescita su base annuale pari al 38%: si tratta d'un qualcosa senza precedenti nei 95 anni di storia della Federal Reserve. Il più alto tasso di crescita fino ad allora registrato, stando ai dati della Federal Reserve, era il 28% del settembre 1939, quando gli USA stavano rafforzando l'industria per affrontare la guerra scoppiata in Europa.
Alla prima settimana di dicembre, l'espansione della base monetaria era balzata ad un incredibile 76% in soli tre mesi. Dagli 836 miliardi del dicembre 2007, quando la crisi sembrava contenuta, s'era passati ai 1479 miliardi del dicembre 2008, un'esplosione del 76% su base annuale. Inoltre, fino al settembre 2008, mese del collasso della Lehman Brothers, la Federal Reserve aveva lasciato la base monetaria quasi invariata. Il 76% di crescita è quasi interamente concentrato negli ultimi tre mesi, il che implica un tasso d'espansione annualizzato d'oltre il 300%.
Ciò non ostante, le banche non prestano più, lasciando l'economia statunitense in uno stato di depressione e caduta libera di scala mai riscontrata dopo gli anni '30. Uno dei motivi principali per cui le banche non prestano è che, secondo le norme della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, debbono accantonare l'8% del loro capitale contro il valore d'ogni nuovo prestito commerciale. Le banche, tuttavia, non hanno idea di quante delle ipoteche e d'altri titoli “problematici” in loro possesso potrebbero rivelarsi inconsistenti nei mesi a venire - costringendole poi a rastrellare nuove ingenti somme di capitali per mantenersi solventi. È allora più “sicuro”, per loro, rifilare i titoli “spazzatura” (o “tossici”) alla FED in cambio degl'interessi sui buoni del Tesoro acquisiti. Gl'investimenti bancari sono rischiosi in un clima di depressione.
Così le banche hanno scambiato 2 miliardi di presunti titoli “tossici” - “Asset-Backed Securities” in ipoteche subprime ed altri crediti ad alto rischio – con denaro della Federal Reserve, buoni del Tesoro statunitense o altri titoli governativi valutati (ancora) “AAA”, ossia privi di rischio. Il risultato è che la Federal Reserve possiede ora circa 2 miliardi di titoli-spazzatura prelevati dal sistema finanziario. I mutuatari includono Lehman Brothers, Citigroup e JPMorgan Chase, le più grandi banche statunitensi. Banche che s'oppongono al rilascio di qualsiasi informazione, poiché ciò potrebbe apparire un segnale di “debolezza” ed incentivare la vendita alla scoperta o la corsa agli sportelli da parte dei depositanti.
A rendere la situazione ancor più drastica è il modello d'azione adottato dalle banche statunitense sin dalla fine degli anni '70 per incrementare i depositi, cioè l'acquisto di “depositi all'ingrosso” prendendoli in prestito da altre banche nel corso del mercato interbancario notturno. Il calo di fiducia, causato dalla bancarotta della Lehman Bros., è così forte che nessuna banca al mondo si fida abbastanza di un'altra da concederle prestiti. Ciò lascia a disposizione solo i tradizionali “depositi al dettaglio”, costituiti dai risparmi o dai conti correnti privati e aziendali.
Rimpiazzare i depositi all'ingrosso con quelli al dettaglio è un processo che, nel migliore dei casi, richiederà anni; di certo non settimane. È comprensibile che la Federal Reserve non voglia discuterne. Ciò risalta chiaramente anche dal brusco rifiuto di rivelare la natura dei beni da 2000 miliardi acquisiti da banche cooperative ed altri istituti finanziari. Detta semplicemente, qualora la FED rivelasse quali “collaterali” abbia ricevuto dalle banche, la popolazione conoscerebbe le perdite potenziali cui il governo va incontro.
Il Congresso sta domandando a Federal Reserve e Tesoro maggiore trasparenza sui piani di salvataggio. Il 10 dicembre, in occasione delle audizioni al Congresso da parte del Comitato sui servizi finanziari della Camera, il rappresentante David Scott (democratico della Georgia) ha descritto gli Statunitensi come «bamboozled», che in gergo significa “defraudati”.

Singhiozzi ed uragani

In settembre il presidente della FED Ben S. Bernanke ed il segretario al Tesoro Henry Paulson promisero di soddisfare le richieste congressuali di maggiore trasparenza nella gestione del piano di salvataggio del sistema bancario da 700 miliardi. Il Freedom of Information Act obbliga le agenzie federali a rendere i documenti governativi accessibili alla stampa ed ai cittadini.
Ai primi di dicembre l'agenzia di supervisione del Congresso, la GAO, ha rilasciato il suo primo resoconto sull'attuazione del programma TARP. Nel resoconto si nota che, a trenta giorni dal varo del programma, l'ufficio di Paulson ha distribuito 150 miliardi ad istituti finanziari senza chiedere riscontri su come il denaro sia effettivamente utilizzato. Sembra che il Tesoro di Henry Paulson abbia gettato un colossale telo sull'intero salvataggio pagato dai contribuenti [un gioco di parole risiede nell'espressione “tarp”, che è sia la sigla del piano di salvataggio, sia un sostantivo inglese dal significato appunto di “tela incerata”, NdT].
Aggiungendo altro combustibile al rogo dell'ex Mecca finanziaria, il Congresso degli USA – agendo per lo più su basi ideologiche – ha scioccato il sistema finanziario col rifiuto a concedere un pur magro prestito d'emergenza da 14 miliardi alle tre grandi case automobilistiche: General Motors, Chrysler e Ford.
Se è probabile che il Tesoro estenderà alle compagnie i crediti d'emergenza fino al 20 gennaio, o finché il Congresso neo-eletto prenderà in considerazione un nuovo piano, la prospettiva d'una reazione a catena di bancarotte delle tre grandi compagnie non è così lontana. Sottaciuto nel dibattito in corso, è che queste tre compagnie assommano assieme il 25% di tutti i buoni societari degli USA in sospeso. Tali buoni sono posseduti da fondi pensione privati, fondi comuni d'investimento, banche ed altri soggetti. Se s'includono anche i fornitori di componenti automobilistici per le “Tre Grandi”, sono oggi a rischio d'insolvenza a catena buoni societari per un ammontare di 1000 miliardi di dollari. Una simile bancarotta di massa comporterebbe, forse, una catastrofe finanziaria tale da far apparire il fallimento della Lehman Bros., al confronto, come un singhiozzo in mezzo ad un uragano.
Inoltre, le azioni intraprese sin da settembre dalla Federal Reserve, in preda al panico, con l'esplosiva espansione della base monetaria, ha posto le basi per un'iperinflazione in stile Zimbabwe. La nuova moneta non è stata “sterilizzata” dalla FED con azioni compensative: ciò è assai inusuale ed indica lo stato di disperazione in cui versa. Prima di settembre, le infusioni di denaro da parte della FED erano sterilizzate, neutralizzando così il potenziale effetto inflattivo.

Un'Enorme Depressione

Ciò significa che, quando le banche ricominceranno finalmente a prestare, forse in un anno o giù di lì, l'economia statunitense si ritroverà inondata di liquidità nel bel mezzo d'una depressione deflazionaria. A questo punto, o forse anche molto prima, il dollaro collasserà per la fuga dei detentori stranieri di buoni del Tesoro ed altri beni statunitensi. Il risultato sarà un netto apprezzamento dell'euro con effetto paralizzante per le esportazioni della Germania e d'altri paesi; a meno che l'UE ed altri paesi estranei all'area del dollaro – come Russia, membri dell'OPEC e soprattutto Cina – riescano a creare una nuova zona di stabilizzazione al di fuori del dollaro.
Nei prossimi mesi il mondo fronteggerà le più grandi sfide economiche e finanziarie. La scelta che si prospetta per la prossima Amministrazione Obama è quella di nazionalizzare letteralmente il sistema creditizio, per assicurare aperture di credito all'economia reale nel corso dei prossimi 5 o 10 anni, oppure prepararsi ad un'Armageddon economica al cui confronto quella degli anni '30 sembrerà una blanda recessione.
Lasciando perdere quel che sembra una spudorata manipolazione dei principali dati economici - praticata dall'attuale Amministrazione statunitense prima delle elezioni di novembre nel vano tentativo di celare le dimensioni della crisi in corso - le cifre appaiono senza precedenti.
Nella prima settimana di dicembre l'Initial Jobless Claims [rapporto settimanale pubblicato dal Dipartimento del Lavoro degli USA, che misura i richiedenti sussidi di disoccupazione, NdT] ha fatto segnare i più alti livelli dal novembre 1982. Più di quattro milioni di lavoratori sono rimasti disoccupati – anch'esso valore più alto dal 1982 – ed in novembre le aziende statunitensi hanno tagliato posti di lavoro al ritmo più elevato degli ultimi 34 anni. Nel corso del 2008, sono scomparsi finora 1.900.000 posti di lavoro.
Varrà bene ricordare che il 1982 rappresentò il culmine di quella che fu allora chiamata “Recessione Volcker”. Paul Volcker, longa manus della famiglia Rockefeller presso la Chase Manhattan, era stato chiamato ad applicare all'economia statunitense la sua “terapia choc” basata sul tasso d'interesse, il cui fine era «estirpare l'inflazione». Estirpò molto di più, dato che l'economia sprofondò nella recessione, e la sua politica di alto tasso d'interesse detonò nella cosiddetta Crisi del Debito del Terzo Mondo. Il medesimo Paul Volcker – e c'è ben poco da starne allegri – è stato appena nominato da Barack Obama prossimo presidente del neocostituito consiglio presidenziale per la ripresa economica.
L'attuale collasso economico negli Stati Uniti è stato provocato da quello del mercato dei mutui ad alto rischio subprime e Alt-A; un mercato da 3000 miliardi di dollari. Il presidente della FED Bernanke ha pubblicamente affermato che il peggio passerà con la fine di dicembre. Nulla può essere più lontano dalla verità, e lo sa bene. Lo stesso Bernanke, nell'ottobre 2005, dichiarò che «non c'è alcuna bolla immobiliare che possa esplodere». Questo fa riflettere sulle capacità profetiche dell'economista di Princeton. Il rinomato S&P Schiller-Case US National Home Price Index ha mostrato un calo del 17% su base annua nel terzo trimestre, con tendenza ascendente. Secondo alcune stime, ci vorranno ancora dai cinque ai sette anni perché i prezzi delle case negli USA raggiungano il punto più basso. Nel 2009, quando i tassi d'interesse saranno rifissati, circa 1000 miliardi di mutui statunitensi Alt-A cominceranno a spirare, il tasso d'abbandono delle case ed i sequestri di immobili ipotecari esploderanno. Poco nei cosiddetti programmi d'ammiglioramento dei mutui offerti finora raggiunge la grande maggioranza dei coinvolti. Al contrario, il processo è destinato ad accelerare, dal momento che milioni di statunitensi perderanno il proprio lavoro nei prossimi mesi.
John Williams, autore del rispettato Shadow Government Statistics, ha di recente pubblicato una definizione di “depressione”, termine che dopo la Seconda Guerra Mondiale è stato deliberatamente estromesso dal lessico economico come riferimento ad eventi non più ripetibili; da allora, infatti, ogni calo è stato chiamato semplicemente “recessione”. Williams mi ha spiegato che, qualche anno fa, intervistando le più importanti autorità economiche degli USA all'Ufficio d'Analisi Economica del Dipartimento del Commercio ed all'Ufficio Nazionale di Ricerca Economica (NBER) nonché numerosi economisti del settore privato, fece ogni sforzo possibile per addivenire ad una più precisa definizione dei termini “recessione”, “depressione” e “grande depressione”. Credo che il suo sia stato in pratica l'unico tentativo di delineare con maggiore attenzione i significati di quelle espressioni. Ne venne fuori innanzi tutto con la definizione ufficiale di recessione data dal NBER: due o più trimestri consecutivi di contrazione del PIL reale o di misure del lavoro retribuito e della produzione industriale. Quando nel corso di una recessione il PIL si contrae d'oltre il 10% si parla di depressione. Una grande depressione è, secondo Williams, quella in cui la contrazione del PIL supera il 25%.
Nel periodo dall'agosto 1929 alla fine del suo ufficio, il presidente Herbert Hoover vide una contrazione dell'economia statunitense lunga 43 mesi e pari al 33%. Barack Obama sembra pronto a battere questo primato, presiedendo su quella che gli storici chiameranno forse l'Enorme Depressione del 2008-2014, a meno ch'egli riesca a trovare un nuovo gruppo di consiglieri finanziari prima del giorno inaugurale del 20 gennaio. Non gli servono presidenti della FED riciclati, tipo Paul Volcker o Larry Summer. È necessaria una strategia radicalmente nuova per avviare quasi l'intera economia degli Stati Uniti ad una riorganizzazione fallimentare d'emergenza da “Capitolo 11” [il capitolo 11 del titolo 11 del Codice degli USA è il procedimento fallimentare che prevede la ristrutturazione del debito, NdT], in cui le banche cancellino fino al 90% dei loro beni “tossici”; questo per salvare l'economia reale, per il bene del popolo statunitense e delle genti di tutto il mondo. La moneta cartacea si può strappare facilmente. Non così le vite umane. Nel processo, potrebbe esserci il tempo per il Congresso di considerare il riassorbimento della Federal Reserve nel Governo federale, come statuiva originariamente la Costituzione, e rendere così tutto più facile. Se questo vi suona estremo, allora rileggete il presente articolo fra sei mesi.

(© La presente traduzione, autorizzata dall'Autore, è stata realizzata da Daniele Scalea per “Eurasia”. È liberamente consentita la riproduzione a fini non commerciali purché sia chiaramente citata la fonte)
Versione originale dell'articolo (in inglese): http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11401

* F. William Engdahl, economista e politologo formatosi nelle università di Princeton e Stoccolma, collabora regolarmente ad alcune pubblicazioni prestigiose (tra cui “Asia Times” e “Business Banker International”) ed è autore di due libri (A Century of War: Anglo-American Oil Politics and the New World Order e Seeds of Destruction: The Hidden Agenda of Genetic Manipulation). Per i primi due mesi del 2009 è prevista l'uscita della sua terza opera: Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order. In Italia è stato pubblicato, sul numero 1/2007 di “Eurasia”, il suo saggio “L'emergente gigante russo”.

venerdì 26 dicembre 2008

La crisi del sistema

“Il sistema capitalista oggi? Un malato allo stadio terminale”
di Antoine Reverchon

Pubblicato lunedì 20 Ottobre 2008

Immanuel Wallerstein (Sociologo e ricercatore all’università di Yale) “Il sistema capitalista oggi? Un malato allo stadio terminale” Antoine Reverchon

La crisi economica attuale segna la fine del capitalismo, è l’opinione del sociologo americano discepolo di Fernand Braudel e ispiratore del movimento altermondialista. A breve, un nuovo sistema emergerà. Sara più redistributivo o più violento? Il campo è aperto

Lei è considerato uno degli ispiratori del movimento altermondialista, nel 2005 lei era tra i firmatari del manifesto del Forum sociale di Porto Alègre («Dodici proposte per un altro mondo possibile»). Ha fondato e diretto il centro Fernand-Braudel per lo studio dell’economia dei sistemi storici e delle civiltà dell’università dello Stato di New York, a Binghamton. Come colloca la crisi economica e finanziaria nei «tempi lunghi» della storia del capitalismo?

Fernand Braudel (1902-1985) distingueva nella storia dell’umanità i tempi della «lunga durata», caratterizzati dal succedersi di sistemi che strutturano i rapporti tra l’uomo e l’ambiente materiale che lo circonda. All’interno di queste fasi individuava dei cicli lunghi congiunturali, descritti da economisti come Nicolas Kondratieff (1882-1930) o Joseph Schumpeter (1883-1950). Oggi ci troviamo chiaramente nella fase B di un ciclo di Kondratieff, iniziato circa 30-35 anni fa dopo una fase A che è stata fino ad ora la più lunga (dal 1945 al 1975) nei 500 anni di storia del capitalismo. Nella fase A, il profitto è generato dalla produzione materiale, industriale o altro; nella fase B il capitalismo per continuare a ricavare profitti deve finanziarsi e rifugiarsi nella speculazione. Da oltre 30 anni le imprese, gli Stati e le famiglie s’indebitano massicciamente. Siamo quindi nell’ultimo tratto della fase B di Kondratieff, quando il declino virtuale diventa reale e le bolle speculative esplodono una dietro l’altra: i fallimenti si moltiplicano, le concentrazioni del capitale aumentano, la disoccupazione progredisce e l’economia conosce una situazione di deflazione reale. Ma questo momento del ciclo congiunturale coincide oggi con un periodo di transizione tra due sistemi di lunga durata che ne aggrava le conseguenze. Sono convinto, in effetti, che da almeno 30 anni siamo entrati nella fase terminale del sistema capitalista. Ciò che differenzia fondamentalmente questa fase dalla successione ininterrotta dei cicli congiunturali passati è il fatto che il capitalismo non perviene più a «farsi sistema», nel senso in cui lo intende la fisica e chimica Ilya Prigogine (1917-2003): cioè quando un sistema, biologico, chimico o sociale, devia troppo sovente dalla sua situazione di stabilità e non arriva più a ritrovare l’equilibrio. Si assiste allora a una biforcazione: la situazione diventa caotica, incontrollabile per le forze che la dominavano fino a quel momento. Emerge in questo modo una lotta non più tra sostenitori e avversari del sistema, ma tra tutti gli attori che lo compongono per arrivare a determinare ciò che potrebbe rimpiazzarlo. Personalmente riservo la parola «crisi» a questo tipo di periodi. E bene, oggi siamo in crisi. Il capitalismo è giunto alla sua fine.

Ma perché invece di una crisi finale non si tratterebbe piuttosto di una nuova mutazione del capitalismo, che dopo tutto ha già conosciuto il passaggio dalla fase mercantile a quella industriale e poi ancora a quella finanziaria?

Il capitalismo è onnivoro, capta il profitto là dove è più importante in un momento dato. Non si contenta dei piccoli profitti marginali, al contrario tende a massimizzarli creando dei monopoli. Ha cercato ancora di formarli ultimamente nelle biotecnologie e nelle tecnologie dell’informazione. Credo però che le possibilità d’accumulazione reale del sistema abbiano raggiunto il loro limite. Dalla sua nascita nella seconda metà del XVI secolo, il capitalismo si nutre del differenziale di ricchezza tra un centro, nel quale convergono i profitti delle periferie (non per forza geografiche) sempre più impoverite. Il recupero economico dell’Asia dell’Est, dell’India e dell’America latina costituisce una sfida insormontabile per «l’economia-mondo» creata da un Occidente che non arriva più a controllare i costi dell’accumulazione. Da decenni le tre curve mondiali dei prezzi della manodopera, delle materie prime e delle imposte sono ovunque in forte rialzo. Il breve periodo neoliberale che sta terminando ha invertito solo provvisoriamente la tendenza: alla fine degli anni 90, questi costi erano certo meno elevati che nel 1970, ma molto più importanti del 1945. Infatti, l’ultimo periodo d’accumulazione reale – i «trenta gloriosi » – è stato possibile soltanto perché gli Stati keynesiani hanno messo le loro forze al servizio del capitale. Ma anche qui il limite è ormai raggiunto!

Ci sono dei precedenti simili alla fase attuale, come quelli che hai appena descritto?

Ce ne sono molti nella storia dell’umanità, contrariamente a quanto ci viene riportato dalla rappresentazione di un progresso continuo e inevitabile, forgiata nella metà del XIX secolo e presente anche nella versione marxista. Per quanto mi riguarda, preferisco attenermi alla tesi della possibilità del progresso e non della sua ineluttabilità. Certo il capitalismo è il sistema che ha saputo produrre, in modo straordinario e stupefacente, il maggior numero di beni e di ricchezza. Ma occorre guardare anche alla somma delle perdite che ha generato nell’ambiente e nella società. Il solo vero bene è quello che permette d’ottenere una vita razionale e intelligente per il maggior numero di persone. Ciò detto, la crisi più recente che può vantare delle somiglianze con quella di oggi è il crollo del sistema feudale in Europa, tra la meta del XV e del XVI secolo, e la sua sostituzione col sistema capitalista. Questo periodo che culmina con le guerre di religione vede crollare il dominio delle autorità monarchiche, signorili e religiose sulle più ricche comunità contadine e sulle grandi città. È in quel contesto che prendono forma, dopo ripetuti tentativi e in modo incosciente, delle soluzioni inattese e il cui successo finirà per «fare sistema », estendendosi poco a poco nella forma del capitalismo.

Per quanto tempo ancora la transizione attuale dovrà durare e quale sarà lo sbocco possibile?

Il periodo della distruzione del valore che chiude la fase B di un ciclo di Kondratieff dura generalmente dai due ai cinque anni prima che si trovino riunite le condizioni d’entrata nella fase A, ovvero quando un profitto reale può di nuovo essere ricavato dalle rinnovate produzioni materiali descritte da Schumpeter. Ma il fatto che questa fase corrisponda attualmente ad una crisi di sistema ci ha fatto entrare in un periodo di caos politico, durante il quale gli attori dominanti alla testa delle imprese e degli Stati occidentali tenteranno tutto ciò che è tecnicamente possibile per ritrovare l’equilibrio. Ma è molto probabile che non ci riusciranno. I più intelligenti hanno già capito che bisogna mettere mano a qualcosa d’interamente nuovo, anche se dei molteplici attori stanno già agendo in maniera disordinata e incosciente per far emergere delle nuove soluzioni, senza che però si sappia ancora quale sistema verrà fuori da questo stato confusionale. Siamo in un momento molto raro, nel quale la crisi e l’impotenza dei potenti lasciano posto al libero arbitrio di ognuno. Si è aperto un lasso di tempo all’interno del quale vi è la possibilità d’influenzare l’avvenire con la nostra azione individuale. Ma poiché questo futuro sarà la somma di un numero incalcolabile di azioni, è assolutamente impossibile prevedere quale modello s’imporrà alla fine. Tra 10 anni si riuscirà forse a vedere più chiaro. Tra 30 o 40 un nuovo sistema avrà visto la luce. Alla fine però non è da escludere che possa venirne fuori un sistema di sfruttamento ancora più violento del capitalismo piuttosto che un modello sociale più egualitario e redistributivo.

Le precedenti mutazioni del capitalismo sono spesso sfociate in uno spostamento del centro dell’«economia-mondo», per esempio dal bacino mediterraneo verso la costa atlantica dell’Europa, poi verso quella degli Stati uniti. Il sistema che verrà sarà centrato sulla Cina?

La crisi che viviamo corrisponde anche alla fine di un ciclo politico, quello dell’egemonia americana già avviato negli anni 70. Gli Stati uniti resteranno un attore importante, ma non potranno più riconquistare la loro posizione dominante di fronte alla moltiplicazione dei centri di potere, con l’Europa occidentale, la Cina, il Brasile, l’India. Se facciamo riferimento al tempo lungo braudeliano, per imporsi un nuovo potere egemonico può richiedere ancora cinquanta anni. Ignoro tuttavia quale potrà essere. Nell’attesa le conseguenze politiche della crisi attuale saranno enormi, nella misura in cui i padroni del sistema cercheranno di trovare dei capri espiatori per giustificare il crollo della loro egemonia. Ritengo che la metà del popolo americano non accetterà quello che sta succedendo. I conflitti interni si accentueranno in un luogo come gli Stati uniti che stanno per divenire il paese del mondo più instabile politicamente. E non bisogna dimenticare che noi, gli Americani, siamo tutti armati…

Le Monde del 12- ottobre 2008 (Traduzione di Paolo Persichetti)



Pubblicato lunedì 20 Ottobre 2008

mercoledì 24 dicembre 2008

Il terzo mondo da Bandung a Seattle

Il terzo mondo, ieri e oggi
di Immanuel Wallerstein*

Organizzandosi in «terzo mondo», all’indomani della seconda guerra mondiale, le ex colonie miravano, nonostante i corteggiamenti dei due Grandi, a sfuggire alla logica dei blocchi. Una politica che raggiungeva il suo apice nel 1973, con il rialzo del prezzo del petrolio. Come ha potuto da allora la situazione cambiare a tal punto da trasformare alcuni di questi paesi in laboratori per la delocalizzazione occidentale, e i restanti in aree sempre più stremate dalla miseria? Una realtà su cui ancora recentemente i paesi ricchi, riuniti ad Okinawa, versavano le loro lacrime di coccodrillo.

Pubblicato lunedì 22 Dicembre 2008

«Terzo mondo»: l’espressione sembra ormai in disuso. Eppure, ci fu un tempo, neanche troppo remoto, in cui andava per la maggiore. Bisogna forse ascrivere fortuna e declino all’eterno ciclo delle mode passeggere? O sono invece sintomo di una più grande sconfitta politica? L’espressione in sé è stata coniata dal demografo francese Alfred Sauvy, che l’utilizzò per la prima volta all’inizio degli anni 50 (1) e la scelse poi come titolo per un libro curato da Georges Balandier di cui scrisse la prefazione (2). Subito dopo entrava a far parte del discorso intellettuale mondiale. Perché? Bisogna ricordarsi i dibattiti del dopoguerra. La fine della seconda guerra mondiale sanciva la sconfitta del fascismo e il trionfo dell’alleanza tra occidentali e sovietici. Il mondo riprendeva fiato.
Nonostante le massicce distruzioni della guerra e le difficoltà d’approvvigionamento in Europa, si respirava di nuovo un clima d’ottimismo. Ma appena stabilizzata la pace, scoppiava la guerra fredda. Le relazioni interstatali si andavano ad articolare intorno ai suoi principali protagonisti, gli Stati uniti e l’Unione sovietica. Certo, a posteriori, possiamo pensare che questo nuovo assetto dipendesse da un gioco abbastanza formale, di cui gli accordi di Yalta avevano largamente predefinito parametri e limiti. Ciò non toglie tuttavia nulla né alla realtà dello scontro né alla profondità dei sentimenti mostrati, né tantomeno all’impatto che hanno avuto questi ultimi sulle analisi e sull’immaginario popolare. Insomma, il pensiero era modellato dalla guerra fredda.

Da qui l’importanza dell’invenzione del concetto di terzo mondo. Il suo merito fu di ricordare l’esistenza di un’immensa zona del pianeta per cui il problema fondamentale non era con quale dei due campi schierarsi, ma quale sarebbe stato l’atteggiamento degli Stati uniti e dell’Unione sovietica nei suoi confronti. Nel 1945, la metà dell’Asia, la quasi totalità dell’Africa, i Caraibi e l’Oceania erano ancora allo stato di colonie. Per non parlare poi dei paesi «semi-colonizzati». In questo vasto mondo sotto tutela, dove la povertà superava - e di gran lunga - quella dei paesi «industrializzati», la priorità veniva data alla «liberazione nazionale». Inglobandoli in un’espressione unica, «terzo mondo», si sottolineavano sia le caratteristiche che accomunavano tutti questi paesi, sia il fatto che non erano necessariamente implicati nella guerra fredda. La formula faceva poi allusione agli sforzi di alcuni intellettuali europei per creare una «terza forza» tra comunisti e anti-comunisti. Faceva infine - e soprattutto - riferimento alla Rivoluzione francese e al celebre testo di Sieyès: «Cos’è il terzo stato? Tutto. Cosa è stato finora nell’ordine politico? Nulla.

Cosa chiede? Diventare qualcosa (3)». All’inizio, né Washington né Mosca prestarono la minima attenzione al terzo mondo e alle sue rivendicazioni. Gli Stati uniti consideravano la questione coloniale assolutamente secondaria e si affidavano, per risolverla, ai buoni propositi delle potenze coloniali. Che, dal canto loro, consideravano quasi inimmaginabile che i loro territori d’oltremare potessero ottenere in tempi rapidi l’indipendenza. Quanto all’Urss, essa diffidava di qualsiasi movimento nazionale - anche se sotto egida comunista - che si sviluppasse in paesi in cui non erano dispiegate truppe sovietiche. Ricordiamoci, dopo il 1946, l’abbandono dei comunisti greci nel bel mezzo della guerra civile o i consigli di prudenza rivolti ai comunisti cinesi perché raggiungessero un accordo con Chiang Kai-shek - consigli che Mao semplicemente ignorò.

Alla sua ribellione farà poi seguito quella di Tito, leader di un altro paese comunista, la Jugoslavia, dove le forze militari sovietiche erano assenti. Così, fino alla metà degli anni 50, i due Grandi condividevano la formula di John Foster Dulles, secondo cui «il neutralismo [era] immorale». Ma tale atteggiamento divenne presto insostenibile: la realtà del terzo mondo prendeva il sopravvento.

In Asia, non era possibile ricostituire le colonie. La maggior parte di esse erano state occupate dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale, così che dopo il 1945 i poteri coloniali erano in una posizione di debolezza. Gli Stati uniti, già nel 1946, concessero l’indipendenza alle Filippine, ma la Francia non volle seguire il loro esempio in Indocina, né i Paesi Bassi nelle Indie olandesi - il che provocò le due guerre poi perse dalle potenze coloniali. Londra ripiegava più rapidamente, accettando l’indipendenza della Birmania, dell’India e del Pakistan. La situazione del Medioriente, benché più complicata, portò a risultati simili. Si apriva quindi l’epoca delle «decolonizzazioni». Tali decolonizzazioni furono concesse o strappate? Si trattò probabilmente di un duplice movimento. Alcuni paesi, strappando l’indipendenza, spingevano i poteri coloniali a concederla ad altri. Il fenomeno, comunque, si amplificava. E, improvvisamente, il terzo mondo si organizzava e si dotava di una base teorica.

Nel 1954, cinque leader di altrettanti paesi che rifiutavano il manicheismo della guerra fredda - l’indiano Nehru, l’egiziano Nasser, lo jugoslavo Tito, l’indonesiano Sukarno e il singalese Kofelawala - si riunivano e decidevano di convocare una conferenza afro-asiatica a Bandung.

Chi invitare? Volendo creare una forza interstatale, si rivolsero unicamente a stati indipendenti. Fu invitata - decisione fondamentale - la Cina, e anche il Giappone e i due Vietnam, ma nessuna delle due Coree. L’Unione sovietica aspirava ad essere ammessa in virtù delle sue repubbliche asiatiche, ma la sua richiesta fu respinta. Il che vuol dire che, nel 1955, già si distingueva tra Mosca e Pechino. L’Urss ne avrebbe tratto la lezione l’anno seguente: dopo il XX congresso del Pcus e il famoso rapporto Krusciov, smetteva di descrivere i movimenti di liberazione nazionale del terzo mondo come «borghesi» e «reazionari» e, improvvisamente, riconosceva loro delle virtù «democratiche» e persino dei germi di «socialismo». Un gesto che non fu affatto ricompensato dai leader del terzo mondo, per lo più recalcitranti all’idea di associare il loro paese a quelli del campo socialista in un unico blocco «progressista».

Instabilità dell’economia-mondo capitalista Autonomo, il movimento terzomondista avrebbe quindi mantenuto il vento in poppa per tutti gli anni 60. I paesi afro-asiatici stringevano legami con l’America latina, sotto l’etichetta di paesi «non allineati» o di Tricontinentale, dopo il successo della rivoluzione cubana di Fidel Castro. Lungi dal condannarli, i protagonisti della guerra fredda li corteggiavano attivamente. E non a caso: fin dal 1960, grazie alla maggioranza di cui disponevano all’Assemblea generale delle Nazioni unite, essi potevano imporre una serie di dichiarazioni che legittimavano le loro aspirazioni anticoloniali. Fu così che fecero del decennio ’70 gli anni dello sviluppo. Al culmine di questi sforzi ci fu la decisione, presa collettivamente dai membri dell’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (Opec) nel 1973, di aumentare il prezzo del greggio, scatenando il panico in Occidente. Il cosiddetto mondo «sviluppato» sarebbe diventato dipendente dai paesi produttori?

Ventisette anni dopo, in piena globalizzazione neoliberale, si stenta a credere che la situazione si sia rovesciata a tal punto. Ormai nessuno immagina più che la Libia possa comprare gli Stati uniti. Il dirigismo economico è passato di moda e lo spirito di Bandung scomparso. Cosa è accaduto perché si producesse una simile inversione di rotta? Tutto comincia nel 1968, rivoluzione mondiale nei due sensi del termine.

Essa infatti si espandeva sui tre mondi - Occidente, i cosiddetti paesi socialisti e il terzo mondo. E, al tempo stesso, tutte le insurrezioni riprendevano, al di là del loro linguaggio specifico, due tematiche proprie del «sistema-mondo».

Prima tematica: geopolitica. I rivoluzionari del 68 condannavano l’egemonia americana e le sue manifestazioni più nefaste, come la guerra del Vietnam. Allo stesso tempo, denunciavano la «collusione sovietica» con tale egemonia. Da cui lo slogan cinese delle «due superpotenze». Tale approccio spingeva i militanti, nei paesi occidentali, a dedicarsi principalmente e con passione ai movimenti di solidarietà con il terzo mondo: è l’epoca di «uno, due, tre Vietnam». Ma vi era anche una seconda tematica: il periodo 1945-1968 aveva visto, quasi ovunque, realizzarsi un sogno centenario, quello coltivato dai tre diversi movimenti anti-sistema - comunista, social-democratico e di liberazione nazionale - di raggiungere i vertici dello stato.

Il comunismo - o ciò che veniva presentato come tale - si estendeva su un terzo del pianeta. I paesi occidentali erano diventati keynesiani, con tanto di politiche sociali, partiti di «sinistra» legittimi e «alternanza» al potere. Quanto ai movimenti di liberazione nazionale nel terzo mondo, avevano trionfato, o erano sul punto di vincere.

Gli uni come gli altri si ispiravano ad una strategia fondata su due tappe, la cui teorizzazione risaliva alla fine del XIX secolo: si trattava di accedere prima di tutto al potere statale, per poi cambiare il mondo. Conclusa la prima fase, bisognava giudicare i risultati della seconda. E, nel 1968, i rivoluzionari potevano infine stilare un bilancio tragico: il mutamento annunciato aveva, ovunque, mancato il suo appuntamento con la storia. È così che si apre l’epoca della disillusione. Nel 1978, Jacques Julliard lanciava, dalle colonne del Nouvel Observateur, una polemica dal titolo «La sinistra e il terzo mondo», denunciando tutta una serie di regimi corrotti, ingiusti, polizieschi, cruenti accanto ad altri caotici, tirannici e non meno sanguinari. La sua conclusione: «Il diritto dei popoli è diventato il principale strumento per soffocare i diritti dell’uomo». L’anno seguente il settimanale riprendeva il dibattito in un libro (4), che raggruppava cinque contributi ostili al «terzomondismo», altri cinque che ne prendevano le difese e cinque interventi di mediazione. Jacques Julliard definiva in quest’occasione il «terzomondismo» come «surrogato di un’escatologia socialista ormai in pezzi».

Una volta caduto il muro di Berlino, e con lui i regimi comunisti, la discussione sul «terzomondismo» venne chiusa. Dibatterne ancora avrebbe voluto dire prenderla sul serio. Ciò che contava ormai erano solo i «diritti dell’uomo» e, allo stesso tempo, il «dovere di ingerenza». Faceva quindi seguito un decennio di «ingerenze», dal Golfo ai Balcani passando per l’Africa, con i «brillanti» risultati che sappiamo. Certo, gli apostoli dell’interventismo spiegano che questi risultati mediocri sono il frutto del carattere inefficace, esitante e pavido degli interventi. Nel terzo mondo, invece, quest’evoluzione viene letta come il risorgere di una dottrina imperialista dalla pretese civilizzatrici. L’incomprensione reciproca è totale.

Ma, in verità, a che punto ci troviamo? L’economia-mondo capitalista sembra al suo apice: è quindi destinata ad entrare in crisi. Il sistema-mondo appare in effetti in via di disgregazione. Come qualsiasi altro sistema, il capitalismo si mantiene grazie ad alcuni meccanismi che gli permettono di ristabilire il suo equilibrio ogni volta che i propri meccanismi gli sfuggono di mano, cioè ogni volta che lo scarto rispetto alla norma diventa eccessivo. Questa è d’altronde la ragione per cui il nuovo equilibrio non è mai esattamente identico al precedente: lo scarto deve raggiungere una certa ampiezza perché si sviluppi il contro-movimento, e l’economia-mondo capitalista, come qualsiasi altro sistema, comporta diversi ritmi ciclici. Dal 1945, infatti, l’economia-mondo è passata attraverso un tipico ciclo di Kondratiev (5). Il dopoguerra si apre con i «trent’anni gloriosi», sorprendente periodo di crescita mondiale, sia in Occidente che nel blocco socialista (che se la cava particolarmente bene) e nel terzo mondo. È anche il periodo in cui si afferma incontestata l’egemonia degli Stati uniti e si diffondono i movimenti di liberazione nazionale.

Ad esso segue una lunga «fase B», caratterizzata dalla stagnazione economica e dall’aumento della disoccupazione. Vecchie industrie vengono delocalizzate verso zone con manodopera a basso costo, selezionate con cura, che sembrano conoscere uno sviluppo improvviso. Questa fase, detta B, del ciclo di Kondratiev prevede anche il trasferimento sotto altri cieli di settori produttivi che in passato rappresentavano importanti fonti di accumulazione ma che, perduto il loro carattere di monopolio, hanno smesso di esserlo. Per i paesi che le accolgono, si tratta di uno sviluppo «di seconda mano».

Ma questa fase vede anche il trasferimento di liquidità dal settore produttivo (meno redditizio) a quello speculativo, con conseguenti crisi di indebitamento e massicci spostamenti di capitali accumulati. L’incredibile boom di questi ultimi anni è determinato dal fatto che gli esercizi speculativi che caratterizzano la fine di una fase B coincidono con la creazione di nuovi monopoli, che devono permettere l’inizio di una nuova fase A.

Durante questa evoluzione, il terzo mondo ha perso la sua unità e la sua influenza politica. Ma ha anche subito un netto declino economico. Sopravvive ormai ai margini del sistema-mondo, più polarizzato che mai, in cui le differenze di reddito e di condizioni di vita hanno raggiunto un livello senza precedenti nella storia dell’umanità.

Se, come abbiamo visto, l’equilibrio del sistema-mondo capitalista non si ristabilisce mai completamente, è perché i contro-movimenti implicano la modificazione dei parametri che sostengono il sistema. L’equilibrio è quindi perennemente in divenire, determinato dalla combinazione di ritmi ciclici e di trend (tendenze) secolari. Questi ultimi tuttavia non possono perpetuarsi all’infinito, perché ad un certo momento si scontrano con dei limiti.

Quando ciò accade, i ritmi ciclici non riescono più a ristabilire l’equilibrio. Il sistema deraglia e, entrando nella sua crisi terminale, si trova di fronte ad una biforcazione. Deve cioè scegliere tra due (o più) strade che portano a una nuova struttura, con un nuovo equilibrio, nuovi ritmi ciclici e nuovi trend di lungo periodo. Tale scelta non può tuttavia essere predeterminata, perché dipende da un numero infinito di fattori, che in parte sfuggono ai vincoli del sistema. Ed è precisamente ciò che sta accadendo in questo momento. Per rendersene conto, bisogna esaminare i tre principali trend secolari che si stanno avvicinando al loro punto di rottura e che pertanto frenano l’accumulazione incessante di capitale - che è il carattere distintivo del capitalismo in quanto sistema storico. Questa triplice pressione tende a rendere inoperante il motore principale del sistema e a provocare una crisi strutturale.

La prima tendenza secolare è l’incidenza dei salari reali sui costi di produzione, calcolata sull’insieme dell’economia-mondo. Più è bassa tale incidenza, più alti saranno i profitti. Ma il livello del salario reale è determinato dai rapporti di forza all’interno delle diverse zone dell’economia-mondo. Più esattamente, è legato al peso politico dei vari gruppi antagonisti - la cosiddetta lotta di classe. È infatti ingannevole pensare che il livello dei salari è imposto dal mercato, perché tale livello è anche funzione, da una parte, della forza politica dei lavoratori, settore per settore, e dall’altra, delle reali possibilità di delocalizzazione che si offrono al padronato. Due fattori in costante mutamento. I lavoratori, in qualsiasi area geografica si trovino, cercheranno sempre di mettere in piedi un’organizzazione di tipo sindacale e azioni rivendicative che permettano loro di negoziare in maniera più efficace con i propri datori di lavoro. E, se è vero che a volte possono subire qualche rovescio, determinato dalle controffensive politiche organizzate dai gruppi capitalistici, è pur vero che, sul lungo periodo, la tendenza alla «democratizzazione» delle istanze politiche, caratteristica di tutta la storia del sistema-mondo moderno, ha accresciuto il potere politico delle classi lavoratrici.

Per far fronte a questa situazione, i capitalisti del mondo intero hanno giocato - con successo - la carta della delocalizzazione di alcuni settori economici verso zone a bassi salari. Un’operazione politicamente delicata, che in particolare deve considerare, nella stima degli eventuali profitti, anche una valutazione del diverso livello di specializzazione della manodopera.

I nuovi immigrati di origine rurale, che per la prima volta si immettono sul mercato del lavoro, costituiscono da sempre il principale serbatoio di manodopera a basso costo, perché accettano salari inferiori agli standard mondiali. Il loro reddito sarà comunque superiore a quello che percepivano dalle loro precedenti attività agricole e, a causa del loro sradicamento sociale e del loro disorientamento politico, essi non saranno in grado di difendere i loro interessi. Questi due fattori, tuttavia, sono destinati a scomparire col tempo e, progressivamente, anche questi lavoratori cominceranno ad esigere una migliore remunerazione. Ma, soprattutto, sono ormai cinquecento anni che il mondo si deruralizza e tale processo ha subito dopo il 1945 una brusca accelerazione.

Fra venticinque anni il vecchio mondo agricolo sarà probabilmente scomparso. E i capitalisti non avranno allora altra scelta che restare dove sono e accettare la lotta di classe. Ma, a questo punto, avranno perso il loro vantaggio. Perché, malgrado la polarizzazione dei redditi reali, si approfondiscono, tanto nei paesi ricchi che in quelli poveri, le competenze politiche e la conoscenza del mercato, anche tra i ceti meno abbienti. Persino gli abitanti dei barrios e delle favelas - la maggior parte dei quali, tecnicamente disoccupata, vivacchia grazie all’economia informale - sanno bene che esistono ormai alternative reali che permettono loro di domandare un salario decente in cambio della sottomissione all’economia formale del salariato. Tutti fattori, questi, che esercitano ed eserciteranno una pressione sempre più forte sui livelli di profitto.

La seconda tendenza a lungo termine che minaccia il capitalismo riguarda il costo degli input materiali. Da cosa dipende tale costo? Esso comprende non solo il loro prezzo d’acquisto, ma anche gli oneri legati alla lavorazione dei materiali. Se il prezzo d’acquisto è coperto interamente dall’impresa, che ne trarrà poi eventualmente un profitto, le spese per la lavorazione dei materiali sono invece spesso pagate da terzi. Per esempio, se la trasformazione di una materia prima produce residui tossici, il costo reale comprenderà alla fine anche le spese sostenute per lo smaltimento di tali residui.

Le imprese, ovviamente, cercano di ridurre al minimo il costo di questo tipo di operazione e, a tal fine, possono ad esempio riversare i rifiuti in un corso d’acqua, dopo una sommaria decontaminazione. Tale operazione è definita dagli economisti «esternalizzazione dei costi». Riprendiamo il nostro esempio. Gli agenti inquinanti riversati nel ruscello rischiano di avvelenarne le acque e anche di causare, magari decine di anni dopo, gravi danni. Insomma, benché esternalizzati, i costi rimangono tangibili, anche se sono difficili da valutare.

Per far fronte al problema, la collettività può promuovere un’azione di disinquinamento: in tal caso l’istanza che si fa carico dell’operazione di risanamento - spesso lo stato - ne sosterrà i costi. Il che provocherà un sensibile abbassamento dei costi delle materie prime per alcuni produttori, e di conseguenza un aumento dei loro margini di profitto, a scapito delle collettività, su cui hanno scaricato una parte del costo reale delle loro produzioni.

Ma anche questa logica, come la riduzione dei costi salariali mediante la delocalizzazione, non può funzionare in eterno. A lungo andare, infatti, non ci saranno più corsi d’acqua da inquinare o non si potranno più tagliare alberi senza produrre gravi e immediati rischi per l’equilibrio della biosfera. E questa è precisamente la situazione in cui ci troviamo oggi dopo cinque secoli di pratiche irresponsabili, il che spiega lo sviluppo spettacolare del movimento ecologista in tutto il mondo. Ovviamente i governi potrebbero intraprendere un’immensa campagna di disinquinamento e di rinnovo organico. Ma essa presuppone notevoli spese. Chi se ne farà carico? Le imprese ritenute responsabili dell’inquinamento, o i cittadini? Nella prima ipotesi, i margini di profitto delle imprese interessate si ridurrebbero drasticamente. Nella seconda, si registrerebbe un aumento considerevole della pressione fiscale. E, d’altra parte, disinquinare e rinnovare la biodiversità senza mettere in discussione le attuali pratiche inquinanti equivale più o meno a ripulire le stalle di Augia. Non scorgendo quindi alcuna soluzione plausibile a questo dilemma sociale nell’ambito dell’economia-mondo capitalista, considero che essa costituisca il secondo vincolo strutturale che frena l’accumulazione del capitale. Il terzo riguarda la tassazione. Serve a finanziare i servizi pubblici, e le imprese l’accettano come parte dei costi di produzione, purché non sia troppo alta. Ma quali sono le cause dell’aumento della pressione fiscale? Da una parte, le esigenze di sicurezza (esercito, polizia), che nel corso dei secoli hanno comportato spese sempre più elevate.

Dall’altra, l’istituzione di burocrazie amministrative sempre più estese, create innanzitutto per percepire le imposte, poi per garantire lo svolgimento delle diverse funzioni dello stato moderno. Fra esse, anche lo sviluppo di servizi sociali pubblici, in risposta alle rivendicazioni popolari, che ha in un certo modo assicurato una relativa stabilità politica di fronte al crescente malcontento dei più poveri.

Sorta di tangente pagata per ammansire le «classi pericolose», per contenere cioè la lotta di classe, la risposta a queste rivendicazioni popolari - che noi definiamo «democratizzazione» - costituisce anch’essa una tendenza strutturale degli ultimi secoli. Le principali richieste riguardano l’istruzione, la sanità e la garanzia di un reddito per tutta la durata della vita, in particolare quindi sussidi di disoccupazione e pensioni per i più anziani. Ma, benché tali domande siano state ormai quasi universalmente soddisfatte, il livello di richieste sociali continua ad aumentare in tutti i paesi.

Tutti contro lo stato CiÒ dovrebbe comportare un po’ ovunque un aumento dei tassi d’imposizione fiscale, al punto da costituire un serio ostacolo all’accumulazione di capitale. Ecco perché i capitalisti fanno campagna in favore di una massiccia riduzione delle imposte, e denunciano l’alta pressione fiscale sulle famiglie, cercando di guadagnarsi l’appoggio delle classi popolari. Ma se l’alleggerimento della pressione fiscale è un tema molto popolare, lo stesso non può dirsi per la riduzione delle prestazioni sociali. Questi tre principali vincoli strutturali, risultato di tendenze sempre più accentuate, minano la capacità di accumulazione del capitale.

Una crisi resa ancor più grave dalla perdita di legittimità delle strutture statali. Gli stati hanno infatti un ruolo cruciale nella capacità d’accumulazione capitalistica: essi rendono possibile la formazione di semi-monopoli, uniche fonti di profitti considerevoli.

Contribuiscono anche - reprimendole o comprandole - ad ammansire le «classi pericolose». Sono infine all’origine della maggior parte delle ideologie che infondono nelle masse una relativa pazienza.

Abbiate pazienza, le riforme arriveranno. All’orizzonte si preannuncia un mondo di prosperità e di uguaglianza. Questa la promessa del liberalismo, ideologia dominante da 150 anni a questa parte. Ma anche dei movimenti d’opposizione, ivi compresi quelli che si proclamano rivoluzionari.

Ovviamente, fintanto che i movimenti comunisti, social-democratici o di liberazione nazionale si battevano contro regimi dittatoriali, coloniali o semplicemente conservatori, si guardavano bene dall’invitare le folle alla calma. Ma, una volta raggiunto il potere, durante il periodo 1945-1970 (corrispondente alla fase A del ciclo di Kondratiev), trovandosi con le spalle al muro, si videro costretti a loro volta a chiedere ai popoli di attendere, in vista di un futuro che, ovviamente, sarebbe stato radioso. Ma non se ne è fatto nulla. Nonostante le numerose e necessarie riforme, i movimenti post-rivoluzionari non sono stati in grado di ridurre in maniera significativa la polarizzazione delle ricchezze, né tantomeno di instaurare una reale uguaglianza politica. E, poiché il sistema-mondo è sempre l’economia-mondo capitalista, i regimi posti al di fuori del centro si sono ritrovati nell’impossibilità strutturale di «riagganciare» i paesi ricchi. Questo fallimento storico ha generato un’immensa disaffezione nei confronti dei movimenti contestatari che, se ancora godono di qualche sostegno, è perché costituiscono un «male minore» rispetto a movimenti più a destra e non perché siano realmente latori di un nuovo progetto di società. Ciò ha generato un massiccio disinvestimento nei confronti delle strutture statali. Un po’ ovunque, coloro che un tempo consideravano lo stato una potenza trasformatrice, manifestano ormai un profondo scetticismo rispetto alla sua capacità di promuovere i cambiamenti, o addirittura di difendere l’ordine sociale. Questa ondata mondiale anti-statalista ha due conseguenze immediate.

Innanzitutto, la moltiplicazione delle paure sociali, che spinge gli individui a sottrarre allo stato la sua funzione di garante della sicurezza. Il che genera un circolo vizioso: più la gente si fa carico individualmente della propria difesa, più la violenza diventa caotica e più difficile sarà per lo stato gestire la situazione. Tale dinamica compare nei vari paesi che compongono l’economia-mondo in momenti e secondo ritmi diversi, ma tende ad accelerare quasi ovunque.

Seconda conseguenza: per uno stato delegittimato è molto più difficile ammansire le «classi pericolose» e quindi svolgere quella funzione di garante dei semi-monopoli di cui i capitalisti hanno bisogno.

Mentre questi ultimi devono far fronte ai tre fattori succitati di abbassamento tendenziale del tasso di profitto, gli stati appaiono sempre meno capaci di aiutarli a risolvere questi dilemmi. Di fatto, di questi tempi, gli araldi delle multinazionali all’interno della Banca mondiale danno l’impressione di prestare ai problemi del terzo mondo più attenzione di quanto facciano gli ex militanti di sinistra convertiti ormai alla dottrina dell’«ingerenza» moralizzatrice.

Ecco perché possiamo affermare che l’economia-mondo è ormai entrata nella sua crisi terminale, che potrebbe durare mezzo secolo. Resta da vedere cosa succederà nel corso di questa transizione dall’attuale sistema-mondo verso uno o diversi altri sistemi. Da un punto di vista analitico, la risposta dipende dalla relazione tra i cicli di Kondratiev e la crisi sistemica. Da un punto di vista politico, invece, si tratta di determinare quale tipo di intervento sociale è possibile o auspicabile nel corso di tale transizione. I cicli di Kondratiev fanno parte del funzionamento «normale» dell’economia capitalista, ma non si interrompono quando il sistema entra in crisi.

I diversi meccanismi che definiscono il comportamento del sistema continuano a funzionare. Quando l’attuale fase B si esaurirà, seguirà senz’altro una nuova fase A, che d’altronde è forse già cominciata. Azzardando una metafora, possiamo paragonare il sistema capitalista a una macchina dal motore integro che si avventura su una discesa corrispondente al ciclo di Kondratiev. Questa macchina, come abbiamo visto, è soggetta a tre vincoli, che possono essere paragonati ad altrettanti danni alla carrozzeria o alle ruote. Nella discesa, quindi, la macchina non procederà in linea retta. Peggio ancora: i freni non funzionano perfettamente. Che succederà? Nessuno lo sa. Salvo che, se l’autista accelera, l’auto potrebbe cadere nel burrone. Joseph Schumpeter (1883-1950) (6) ha detto molto tempo fa che il crollo del capitalismo sarebbe stato determinato dai suoi successi più che dai suoi fallimenti. Abbiamo qui voluto indicare in che modo tali successi hanno, alla lunga, limitato in maniera strutturale quella capacità di accumulazione che il capitalismo dovrebbe assicurare in maniera perpetua. Ecco una prova concreta dell’ipotesi schumpeteriana. Riprendendo la metafora dell’automobile danneggiata, potremmo pensare che, in tali condizioni, un automobilista responsabile ridurrebbe la velocità. Ma, purtroppo, nell’economia capitalista non c’è spazio per i guidatori prudenti. Nessun individuo o gruppo ha il potere di prendere le decisioni da solo. Esse sono determinate da un gran numero di attori sociali, ognuno dei quali agisce autonomamente in funzione dei propri interessi immediati. E possiamo star certi che la macchina, invece di rallentare, andrà sempre più veloce, sebbene le curve si facciano via via più frequenti. Nel nuovo periodo d’espansione in cui entra l’economia-mondo, infatti, le condizioni che hanno spinto il capitalismo verso la crisi si aggraveranno.

In termini tecnici, le fluttuazioni diventeranno sempre più caotiche. E, parallelamente, si assisterà ad una vertiginosa regressione dei livelli di sicurezza collettiva e individuale, in relazione alla perdita di legittimità delle strutture statali. Con, come probabile corollario, un conseguente aumento della violenza quotidiana in tutto il mondo.

Si aprirà quindi un periodo di grande confusione politica, in cui avremo l’impressione che le griglie interpretative abituali, concepite per comprendere l’attuale sistema-mondo, siano ormai inadeguate. Il che non sarà necessariamente vero: è solo che le analisi tradizionali si soffermeranno sui fenomeni in via di estinzione dell’attuale sistema-mondo, e non sulla transizione in sé.

Improvvisamente, l’azione politica non avrà più alcuno strumento per modificare in profondità le realtà del momento. In compenso, poiché l’esito della transizione è imprevedibile e le fluttuazioni seguiranno un corso quasi folle, ogni forma di mobilitazione, per quanto piccola essa sia, avrà conseguenze enormi. Ci stiamo avvicinando ad uno di quei pochi periodi storici in cui può veramente entrare in gioco il libero arbitrio.

In questa lunga fase di transizione, assisteremo allo scontro tra due vasti schieramenti: quello di coloro che vorranno conservare, anche in forma diversa, i privilegi assicurati dall’attuale sistema non egualitario; e quello di coloro che auspicano la nascita di un nuovo sistema sostanzialmente più equo e democratico. Ovviamente, i membri del primo schieramento si presenteranno sotto mentite spoglie: si diranno modernizzatori, nuovi democratici, difensori della libertà, progressisti, quando non addirittura rivoluzionari. L’esito dello scontro dipenderà dalla capacità di mobilitazione dei due campi ma anche, in larga misura, dalla capacità di fornire le migliori analisi degli eventi e le alternative più efficaci. Ci troviamo di fronte a un bivio, dove è importante unificare le conoscenze, l’immaginazione e la prassi. L’esito è intrinsecamente incerto e quindi aperto all’azione e alla creatività umana. Il concetto di terzo mondo aveva senso nel quadro politico degli anni 60. Marginalizzato negli anni 80, esso è definitivamente morto negli anni 90. Ma la realtà a cui faceva riferimento è sempre al suo posto, oggi più di ieri. È solo scomparso l’effimero quadro di riferimento in cui tale concetto fu forgiato - la guerra fredda.

Ma il nuovo assetto che l’ha sostituito ha chiarito quali sono le reali poste in gioco: l’incredibile polarizzazione dell’economia-mondo capitalista e la sua crisi strutturale, che ci mettono entrambe di fronte a scelte di portata storica.

note:
* Direttore del centro Fernand-Braudel, Binghamton e ricercatore associato all’Università di Yale, negli Stati uniti. Il suo ultimo libro è L’Utopistique, ou les choix politiques du XXI siècle, Editions de l’Aube, La Tour d’Aigues, 2000. Non è ancora uscito in Italia, dove però sono stati pubblicati Capitalismo storico e realtà capitalistica. Asterios, 2000; Geopolitica e geocultura, Asterios, 1999; Dopo il liberalismo, Jaca Book, 1999. (1) In un articolo pubblicato da France-Observateur intitolato «Tre mondi, un pianeta», Alfred Sauvy parlava di «questo terzo mondo, ignorato, sfruttato, disprezzato [che] aspira, come il terzo stato, a diventare qualcosa». (2) Le Tiers du monde, sous-développement et développement, Puf, Parigi, 1956. (3) Emmannuel-Joseph Sieyès, opuscolo Qu’est-ce que le Tiers Etat? (gennaio 1789). (4) Le Tiers Monde et la gauche, Seuil, Parigi, 1979. (5) Per Nikolai Kondratiev (1892-1938), la storia economica si basa, da due secoli, su alcuni cicli economici lunghi (che durano da cinquanta a sessant’anni), alternati a fasi di crescita legate alle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche (A) e fasi di recessione dovute all’eccesso di impianti e capitali (B).

(6) Si legga Benjamin Coriat e Robert Boyer, «Destruction créatrice ou le retour de Schumpeter», Le Monde diplomatique, settembre 1984. Traduzione di S.L.



Pubblicato lunedì 22 Dicembre 2008

da: http://www.italia.attac.org/spip/

sabato 20 dicembre 2008

Svegliamoci!

La corruzione inconsapevole
che affonda il Paese
di ROBERTO SAVIANO

La cosa enormemente tragica che emerge in questi giorni è che nessuno dei coinvolti delle inchieste napoletane aveva la percezione dell'errore, tantomeno del crimine. Come dire ognuno degli imputati andava a dormire sereno. Perché, come si vede dalle carte processuali, gli accordi non si reggevano su mazzette, ma sul semplice scambio di favori: far assumere cognati, dare una mano con la carriera, trovare una casa più bella a un costo ragionevole. Gli imprenditori e i politici sanno benissimo che nulla si ottiene in cambio di nulla, che per creare consenso bisogna concedere favori, e questo lo sanno anche gli elettori che votano spesso per averli, quei favori. Il problema è che purtroppo non è più solo la responsabilità del singolo imprenditore o politico quando è un intero sistema a funzionare in questo modo.

Oggi l'imprenditore si chiama Romeo, domani avrà un altro nome, ma il meccanismo non cambierà, e per agire non si farà altro che scambiare, proteggere, promettere di nuovo. Perché cosa potrà mai cambiare in una prassi, quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo. Che un simile do ut des sia di fatto corruzione è un concetto che moltissimi accoglierebbero con autentico stupore e indignazione. Ma come, protesterebbero, noi non abbiamo fatto niente di male!

E che tale corruzione non vada perseguitata soltanto dalla giustizia e condannata dall'etica civile, ma sia fonte di un male oggettivo, del funzionamento bloccato di un paese che dovrebbe essere fondato sui meccanismi di accesso e di concorrenza liberi, questo risulta ancora più difficile da cogliere e capire. La corruzione più grave che questa inchiesta svela sta nel mostrarci che persone di ogni livello, con talento o senza, con molta o scarsa professionalità, dovevano sottostare al gioco della protezione, della segnalazione, della spinta.

Non basta il merito, non basta l'impegno, e neanche la fortuna, per trovare un lavoro. La condizione necessaria è rientrare in uno scambio di favori. In passato l'incapace trovava lavoro se raccomandato. Oggi anche la persona di talento non può farne a meno, della protezione. E ogni appalto comporta automaticamente un'apertura di assunzioni con cui sistemare i raccomandati nuovi.

Non credo sia il tempo di convincere qualcuno a cambiare idea politica, o a pensare di mutare voto. Non credo sia il tempo di cercare affannosamente il nuovo o il meno peggio sino a quando si andrà incontro a una nuova delusione. Ma sono convinto che la cosa peggiore sia attaccarsi al triste cinismo italiano per il quale tutto è comunque marcio e non esistono innocenti perché in un modo o nell'altro tutti sono colpevoli. Bisogna aspettare come andranno i processi, stabilire le responsabilità dei singoli. Però esiste un piano su cui è possibile pronunciarsi subito. Come si legge nei titoli di coda del film di Francesco Rosi "Le mani sulla città: "I nomi sono di fantasia ma la realtà che li ha prodotti è fedele".

Indipendentemente dalle future condanne o assoluzioni, queste inchieste della magistratura napoletana, abruzzese e toscana dimostrano una prassi che difficilmente un politico - di qualsiasi colore - oggi potrà eludere. Non importa se un cittadino voti a destra o a sinistra, quel che bisogna chiedergli oggi è esclusivamente di pretendere che non sia più così. Non credo siano soltanto gli elettori di centrosinistra a non poterne più di essere rappresentati da persone disposte sempre e soltanto al compromesso. La percezione che il paese stia affondando la hanno tutti, da destra a sinistra, da nord a sud. E come in ogni momento di crisi, dovrebbero scaturirne delle risorse capaci di risollevarlo. Il tepore del "tutto è perduto" lentamente dovrebbe trasformarsi nella rovente forza reattiva che domanda, esige, cambia le cose. Oggi, fra queste, la questione della legalità viene prima di ogni altra.

L'imprenditoria criminale in questi anni si è alleata con il centrosinistra e con il centrodestra. Le mafie si sono unite nel nome degli affari, mentre tutto il resto è risultato sempre più spaccato. Loro hanno rinnovato i loro vertici, mentre ogni altra sfera di potere è rimasta in mano ai vecchi. Loro sono l'immagine vigorosa, espansiva, dinamica dell'Italia e per non soccombere alla loro proliferazione bisogna essere capaci di mobilitare altrettante energie, ma sane, forti, mirate al bene comune. Idee che uniscano la morale al business, le idee nuove ai talenti.

Ho ricevuto l'invito a parlare con i futuri amministratori del Pd, così come l'invito dell'on del Pdl Granata ad andare a parlare a Palermo con i giovani del suo partito. Credo sia necessario il confronto con tutti e non permettere strumentalizzazioni. Le organizzazioni criminali amano la politica quando questa è tutta identica e pronta a farsi comprare. Quando la politica si accontenta di razzolare nell'esistente e rinuncia a farsi progetto e guida. Vogliono che si consideri l'ambito politico uno spazio vuoto e insignificante, buono solo per ricavarne qualche vantaggio. E a loro come a tutti quelli che usano la politica per fini personali, fa comodo che questa visione venga condivisa dai cittadini, sia pure con tristezza e rassegnazione.

La politica non è il mio mestiere, non mi saprei immaginare come politico, ma è come narratore che osserva le dinamiche della realtà che ho creduto giusto non sottrarmi a una richiesta di dialogo su come affrontare il problema dell'illegalità e della criminalità organizzata. Il centrosinistra si è creduto per troppo tempo immune dalla collusione quando spesso è stato utilizzato e cooptato in modo massiccio dal sistema criminale o di malaffare puro e semplice, specie in Campania e in Calabria. Ma nemmeno gli elettori del centrodestra sono felici di sapere i loro rappresentanti collusi con le imprese criminali o impegnati in altri modi a ricavare vantaggi personali. Non penso nemmeno che la parte maggiore creda davvero che sia in atto un complotto della magistratura. Si può essere elettori di centrodestra e avere lo stesso desiderio di fare piazza pulita delle collusioni, dei compromessi, di un paese che si regge su conoscenze e raccomandazioni.

Credo che sia giunto il tempo di svegliarsi dai sonni di comodo, dalle pie menzogne raccontate per conforto, così come è tempo massimo di non volersela cavare con qualche pezza, quale piccola epurazione e qualche nome nuovo che corrisponda a un rinnovamento di facciata. Non ne rimane molto, se ce n'è ancora. Per nessuno. Chi si crede salvo, perché oggi la sua parte non è stata toccata dalla bufera, non fa che illudersi. Per quel che bisogna fare, forse non bastano nemmeno i politici, neppure (laddove esistessero) i migliori. In una fase di crisi come quella in cui ci troviamo, diviene compito di tutti esigere e promuovere un cambiamento.

Svegliarsi. Assumersi le proprie responsabilità. Fare pressione. È compito dei cittadini, degli elettori. Ognuno secondo la sua idea politica, ma secondo una richiesta sola: che si cominci a fare sul serio, già da domani.

(20 dicembre 2008)

da: www.repubblica.it