mercoledì 24 dicembre 2008

Il terzo mondo da Bandung a Seattle

Il terzo mondo, ieri e oggi
di Immanuel Wallerstein*

Organizzandosi in «terzo mondo», all’indomani della seconda guerra mondiale, le ex colonie miravano, nonostante i corteggiamenti dei due Grandi, a sfuggire alla logica dei blocchi. Una politica che raggiungeva il suo apice nel 1973, con il rialzo del prezzo del petrolio. Come ha potuto da allora la situazione cambiare a tal punto da trasformare alcuni di questi paesi in laboratori per la delocalizzazione occidentale, e i restanti in aree sempre più stremate dalla miseria? Una realtà su cui ancora recentemente i paesi ricchi, riuniti ad Okinawa, versavano le loro lacrime di coccodrillo.

Pubblicato lunedì 22 Dicembre 2008

«Terzo mondo»: l’espressione sembra ormai in disuso. Eppure, ci fu un tempo, neanche troppo remoto, in cui andava per la maggiore. Bisogna forse ascrivere fortuna e declino all’eterno ciclo delle mode passeggere? O sono invece sintomo di una più grande sconfitta politica? L’espressione in sé è stata coniata dal demografo francese Alfred Sauvy, che l’utilizzò per la prima volta all’inizio degli anni 50 (1) e la scelse poi come titolo per un libro curato da Georges Balandier di cui scrisse la prefazione (2). Subito dopo entrava a far parte del discorso intellettuale mondiale. Perché? Bisogna ricordarsi i dibattiti del dopoguerra. La fine della seconda guerra mondiale sanciva la sconfitta del fascismo e il trionfo dell’alleanza tra occidentali e sovietici. Il mondo riprendeva fiato.
Nonostante le massicce distruzioni della guerra e le difficoltà d’approvvigionamento in Europa, si respirava di nuovo un clima d’ottimismo. Ma appena stabilizzata la pace, scoppiava la guerra fredda. Le relazioni interstatali si andavano ad articolare intorno ai suoi principali protagonisti, gli Stati uniti e l’Unione sovietica. Certo, a posteriori, possiamo pensare che questo nuovo assetto dipendesse da un gioco abbastanza formale, di cui gli accordi di Yalta avevano largamente predefinito parametri e limiti. Ciò non toglie tuttavia nulla né alla realtà dello scontro né alla profondità dei sentimenti mostrati, né tantomeno all’impatto che hanno avuto questi ultimi sulle analisi e sull’immaginario popolare. Insomma, il pensiero era modellato dalla guerra fredda.

Da qui l’importanza dell’invenzione del concetto di terzo mondo. Il suo merito fu di ricordare l’esistenza di un’immensa zona del pianeta per cui il problema fondamentale non era con quale dei due campi schierarsi, ma quale sarebbe stato l’atteggiamento degli Stati uniti e dell’Unione sovietica nei suoi confronti. Nel 1945, la metà dell’Asia, la quasi totalità dell’Africa, i Caraibi e l’Oceania erano ancora allo stato di colonie. Per non parlare poi dei paesi «semi-colonizzati». In questo vasto mondo sotto tutela, dove la povertà superava - e di gran lunga - quella dei paesi «industrializzati», la priorità veniva data alla «liberazione nazionale». Inglobandoli in un’espressione unica, «terzo mondo», si sottolineavano sia le caratteristiche che accomunavano tutti questi paesi, sia il fatto che non erano necessariamente implicati nella guerra fredda. La formula faceva poi allusione agli sforzi di alcuni intellettuali europei per creare una «terza forza» tra comunisti e anti-comunisti. Faceva infine - e soprattutto - riferimento alla Rivoluzione francese e al celebre testo di Sieyès: «Cos’è il terzo stato? Tutto. Cosa è stato finora nell’ordine politico? Nulla.

Cosa chiede? Diventare qualcosa (3)». All’inizio, né Washington né Mosca prestarono la minima attenzione al terzo mondo e alle sue rivendicazioni. Gli Stati uniti consideravano la questione coloniale assolutamente secondaria e si affidavano, per risolverla, ai buoni propositi delle potenze coloniali. Che, dal canto loro, consideravano quasi inimmaginabile che i loro territori d’oltremare potessero ottenere in tempi rapidi l’indipendenza. Quanto all’Urss, essa diffidava di qualsiasi movimento nazionale - anche se sotto egida comunista - che si sviluppasse in paesi in cui non erano dispiegate truppe sovietiche. Ricordiamoci, dopo il 1946, l’abbandono dei comunisti greci nel bel mezzo della guerra civile o i consigli di prudenza rivolti ai comunisti cinesi perché raggiungessero un accordo con Chiang Kai-shek - consigli che Mao semplicemente ignorò.

Alla sua ribellione farà poi seguito quella di Tito, leader di un altro paese comunista, la Jugoslavia, dove le forze militari sovietiche erano assenti. Così, fino alla metà degli anni 50, i due Grandi condividevano la formula di John Foster Dulles, secondo cui «il neutralismo [era] immorale». Ma tale atteggiamento divenne presto insostenibile: la realtà del terzo mondo prendeva il sopravvento.

In Asia, non era possibile ricostituire le colonie. La maggior parte di esse erano state occupate dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale, così che dopo il 1945 i poteri coloniali erano in una posizione di debolezza. Gli Stati uniti, già nel 1946, concessero l’indipendenza alle Filippine, ma la Francia non volle seguire il loro esempio in Indocina, né i Paesi Bassi nelle Indie olandesi - il che provocò le due guerre poi perse dalle potenze coloniali. Londra ripiegava più rapidamente, accettando l’indipendenza della Birmania, dell’India e del Pakistan. La situazione del Medioriente, benché più complicata, portò a risultati simili. Si apriva quindi l’epoca delle «decolonizzazioni». Tali decolonizzazioni furono concesse o strappate? Si trattò probabilmente di un duplice movimento. Alcuni paesi, strappando l’indipendenza, spingevano i poteri coloniali a concederla ad altri. Il fenomeno, comunque, si amplificava. E, improvvisamente, il terzo mondo si organizzava e si dotava di una base teorica.

Nel 1954, cinque leader di altrettanti paesi che rifiutavano il manicheismo della guerra fredda - l’indiano Nehru, l’egiziano Nasser, lo jugoslavo Tito, l’indonesiano Sukarno e il singalese Kofelawala - si riunivano e decidevano di convocare una conferenza afro-asiatica a Bandung.

Chi invitare? Volendo creare una forza interstatale, si rivolsero unicamente a stati indipendenti. Fu invitata - decisione fondamentale - la Cina, e anche il Giappone e i due Vietnam, ma nessuna delle due Coree. L’Unione sovietica aspirava ad essere ammessa in virtù delle sue repubbliche asiatiche, ma la sua richiesta fu respinta. Il che vuol dire che, nel 1955, già si distingueva tra Mosca e Pechino. L’Urss ne avrebbe tratto la lezione l’anno seguente: dopo il XX congresso del Pcus e il famoso rapporto Krusciov, smetteva di descrivere i movimenti di liberazione nazionale del terzo mondo come «borghesi» e «reazionari» e, improvvisamente, riconosceva loro delle virtù «democratiche» e persino dei germi di «socialismo». Un gesto che non fu affatto ricompensato dai leader del terzo mondo, per lo più recalcitranti all’idea di associare il loro paese a quelli del campo socialista in un unico blocco «progressista».

Instabilità dell’economia-mondo capitalista Autonomo, il movimento terzomondista avrebbe quindi mantenuto il vento in poppa per tutti gli anni 60. I paesi afro-asiatici stringevano legami con l’America latina, sotto l’etichetta di paesi «non allineati» o di Tricontinentale, dopo il successo della rivoluzione cubana di Fidel Castro. Lungi dal condannarli, i protagonisti della guerra fredda li corteggiavano attivamente. E non a caso: fin dal 1960, grazie alla maggioranza di cui disponevano all’Assemblea generale delle Nazioni unite, essi potevano imporre una serie di dichiarazioni che legittimavano le loro aspirazioni anticoloniali. Fu così che fecero del decennio ’70 gli anni dello sviluppo. Al culmine di questi sforzi ci fu la decisione, presa collettivamente dai membri dell’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio (Opec) nel 1973, di aumentare il prezzo del greggio, scatenando il panico in Occidente. Il cosiddetto mondo «sviluppato» sarebbe diventato dipendente dai paesi produttori?

Ventisette anni dopo, in piena globalizzazione neoliberale, si stenta a credere che la situazione si sia rovesciata a tal punto. Ormai nessuno immagina più che la Libia possa comprare gli Stati uniti. Il dirigismo economico è passato di moda e lo spirito di Bandung scomparso. Cosa è accaduto perché si producesse una simile inversione di rotta? Tutto comincia nel 1968, rivoluzione mondiale nei due sensi del termine.

Essa infatti si espandeva sui tre mondi - Occidente, i cosiddetti paesi socialisti e il terzo mondo. E, al tempo stesso, tutte le insurrezioni riprendevano, al di là del loro linguaggio specifico, due tematiche proprie del «sistema-mondo».

Prima tematica: geopolitica. I rivoluzionari del 68 condannavano l’egemonia americana e le sue manifestazioni più nefaste, come la guerra del Vietnam. Allo stesso tempo, denunciavano la «collusione sovietica» con tale egemonia. Da cui lo slogan cinese delle «due superpotenze». Tale approccio spingeva i militanti, nei paesi occidentali, a dedicarsi principalmente e con passione ai movimenti di solidarietà con il terzo mondo: è l’epoca di «uno, due, tre Vietnam». Ma vi era anche una seconda tematica: il periodo 1945-1968 aveva visto, quasi ovunque, realizzarsi un sogno centenario, quello coltivato dai tre diversi movimenti anti-sistema - comunista, social-democratico e di liberazione nazionale - di raggiungere i vertici dello stato.

Il comunismo - o ciò che veniva presentato come tale - si estendeva su un terzo del pianeta. I paesi occidentali erano diventati keynesiani, con tanto di politiche sociali, partiti di «sinistra» legittimi e «alternanza» al potere. Quanto ai movimenti di liberazione nazionale nel terzo mondo, avevano trionfato, o erano sul punto di vincere.

Gli uni come gli altri si ispiravano ad una strategia fondata su due tappe, la cui teorizzazione risaliva alla fine del XIX secolo: si trattava di accedere prima di tutto al potere statale, per poi cambiare il mondo. Conclusa la prima fase, bisognava giudicare i risultati della seconda. E, nel 1968, i rivoluzionari potevano infine stilare un bilancio tragico: il mutamento annunciato aveva, ovunque, mancato il suo appuntamento con la storia. È così che si apre l’epoca della disillusione. Nel 1978, Jacques Julliard lanciava, dalle colonne del Nouvel Observateur, una polemica dal titolo «La sinistra e il terzo mondo», denunciando tutta una serie di regimi corrotti, ingiusti, polizieschi, cruenti accanto ad altri caotici, tirannici e non meno sanguinari. La sua conclusione: «Il diritto dei popoli è diventato il principale strumento per soffocare i diritti dell’uomo». L’anno seguente il settimanale riprendeva il dibattito in un libro (4), che raggruppava cinque contributi ostili al «terzomondismo», altri cinque che ne prendevano le difese e cinque interventi di mediazione. Jacques Julliard definiva in quest’occasione il «terzomondismo» come «surrogato di un’escatologia socialista ormai in pezzi».

Una volta caduto il muro di Berlino, e con lui i regimi comunisti, la discussione sul «terzomondismo» venne chiusa. Dibatterne ancora avrebbe voluto dire prenderla sul serio. Ciò che contava ormai erano solo i «diritti dell’uomo» e, allo stesso tempo, il «dovere di ingerenza». Faceva quindi seguito un decennio di «ingerenze», dal Golfo ai Balcani passando per l’Africa, con i «brillanti» risultati che sappiamo. Certo, gli apostoli dell’interventismo spiegano che questi risultati mediocri sono il frutto del carattere inefficace, esitante e pavido degli interventi. Nel terzo mondo, invece, quest’evoluzione viene letta come il risorgere di una dottrina imperialista dalla pretese civilizzatrici. L’incomprensione reciproca è totale.

Ma, in verità, a che punto ci troviamo? L’economia-mondo capitalista sembra al suo apice: è quindi destinata ad entrare in crisi. Il sistema-mondo appare in effetti in via di disgregazione. Come qualsiasi altro sistema, il capitalismo si mantiene grazie ad alcuni meccanismi che gli permettono di ristabilire il suo equilibrio ogni volta che i propri meccanismi gli sfuggono di mano, cioè ogni volta che lo scarto rispetto alla norma diventa eccessivo. Questa è d’altronde la ragione per cui il nuovo equilibrio non è mai esattamente identico al precedente: lo scarto deve raggiungere una certa ampiezza perché si sviluppi il contro-movimento, e l’economia-mondo capitalista, come qualsiasi altro sistema, comporta diversi ritmi ciclici. Dal 1945, infatti, l’economia-mondo è passata attraverso un tipico ciclo di Kondratiev (5). Il dopoguerra si apre con i «trent’anni gloriosi», sorprendente periodo di crescita mondiale, sia in Occidente che nel blocco socialista (che se la cava particolarmente bene) e nel terzo mondo. È anche il periodo in cui si afferma incontestata l’egemonia degli Stati uniti e si diffondono i movimenti di liberazione nazionale.

Ad esso segue una lunga «fase B», caratterizzata dalla stagnazione economica e dall’aumento della disoccupazione. Vecchie industrie vengono delocalizzate verso zone con manodopera a basso costo, selezionate con cura, che sembrano conoscere uno sviluppo improvviso. Questa fase, detta B, del ciclo di Kondratiev prevede anche il trasferimento sotto altri cieli di settori produttivi che in passato rappresentavano importanti fonti di accumulazione ma che, perduto il loro carattere di monopolio, hanno smesso di esserlo. Per i paesi che le accolgono, si tratta di uno sviluppo «di seconda mano».

Ma questa fase vede anche il trasferimento di liquidità dal settore produttivo (meno redditizio) a quello speculativo, con conseguenti crisi di indebitamento e massicci spostamenti di capitali accumulati. L’incredibile boom di questi ultimi anni è determinato dal fatto che gli esercizi speculativi che caratterizzano la fine di una fase B coincidono con la creazione di nuovi monopoli, che devono permettere l’inizio di una nuova fase A.

Durante questa evoluzione, il terzo mondo ha perso la sua unità e la sua influenza politica. Ma ha anche subito un netto declino economico. Sopravvive ormai ai margini del sistema-mondo, più polarizzato che mai, in cui le differenze di reddito e di condizioni di vita hanno raggiunto un livello senza precedenti nella storia dell’umanità.

Se, come abbiamo visto, l’equilibrio del sistema-mondo capitalista non si ristabilisce mai completamente, è perché i contro-movimenti implicano la modificazione dei parametri che sostengono il sistema. L’equilibrio è quindi perennemente in divenire, determinato dalla combinazione di ritmi ciclici e di trend (tendenze) secolari. Questi ultimi tuttavia non possono perpetuarsi all’infinito, perché ad un certo momento si scontrano con dei limiti.

Quando ciò accade, i ritmi ciclici non riescono più a ristabilire l’equilibrio. Il sistema deraglia e, entrando nella sua crisi terminale, si trova di fronte ad una biforcazione. Deve cioè scegliere tra due (o più) strade che portano a una nuova struttura, con un nuovo equilibrio, nuovi ritmi ciclici e nuovi trend di lungo periodo. Tale scelta non può tuttavia essere predeterminata, perché dipende da un numero infinito di fattori, che in parte sfuggono ai vincoli del sistema. Ed è precisamente ciò che sta accadendo in questo momento. Per rendersene conto, bisogna esaminare i tre principali trend secolari che si stanno avvicinando al loro punto di rottura e che pertanto frenano l’accumulazione incessante di capitale - che è il carattere distintivo del capitalismo in quanto sistema storico. Questa triplice pressione tende a rendere inoperante il motore principale del sistema e a provocare una crisi strutturale.

La prima tendenza secolare è l’incidenza dei salari reali sui costi di produzione, calcolata sull’insieme dell’economia-mondo. Più è bassa tale incidenza, più alti saranno i profitti. Ma il livello del salario reale è determinato dai rapporti di forza all’interno delle diverse zone dell’economia-mondo. Più esattamente, è legato al peso politico dei vari gruppi antagonisti - la cosiddetta lotta di classe. È infatti ingannevole pensare che il livello dei salari è imposto dal mercato, perché tale livello è anche funzione, da una parte, della forza politica dei lavoratori, settore per settore, e dall’altra, delle reali possibilità di delocalizzazione che si offrono al padronato. Due fattori in costante mutamento. I lavoratori, in qualsiasi area geografica si trovino, cercheranno sempre di mettere in piedi un’organizzazione di tipo sindacale e azioni rivendicative che permettano loro di negoziare in maniera più efficace con i propri datori di lavoro. E, se è vero che a volte possono subire qualche rovescio, determinato dalle controffensive politiche organizzate dai gruppi capitalistici, è pur vero che, sul lungo periodo, la tendenza alla «democratizzazione» delle istanze politiche, caratteristica di tutta la storia del sistema-mondo moderno, ha accresciuto il potere politico delle classi lavoratrici.

Per far fronte a questa situazione, i capitalisti del mondo intero hanno giocato - con successo - la carta della delocalizzazione di alcuni settori economici verso zone a bassi salari. Un’operazione politicamente delicata, che in particolare deve considerare, nella stima degli eventuali profitti, anche una valutazione del diverso livello di specializzazione della manodopera.

I nuovi immigrati di origine rurale, che per la prima volta si immettono sul mercato del lavoro, costituiscono da sempre il principale serbatoio di manodopera a basso costo, perché accettano salari inferiori agli standard mondiali. Il loro reddito sarà comunque superiore a quello che percepivano dalle loro precedenti attività agricole e, a causa del loro sradicamento sociale e del loro disorientamento politico, essi non saranno in grado di difendere i loro interessi. Questi due fattori, tuttavia, sono destinati a scomparire col tempo e, progressivamente, anche questi lavoratori cominceranno ad esigere una migliore remunerazione. Ma, soprattutto, sono ormai cinquecento anni che il mondo si deruralizza e tale processo ha subito dopo il 1945 una brusca accelerazione.

Fra venticinque anni il vecchio mondo agricolo sarà probabilmente scomparso. E i capitalisti non avranno allora altra scelta che restare dove sono e accettare la lotta di classe. Ma, a questo punto, avranno perso il loro vantaggio. Perché, malgrado la polarizzazione dei redditi reali, si approfondiscono, tanto nei paesi ricchi che in quelli poveri, le competenze politiche e la conoscenza del mercato, anche tra i ceti meno abbienti. Persino gli abitanti dei barrios e delle favelas - la maggior parte dei quali, tecnicamente disoccupata, vivacchia grazie all’economia informale - sanno bene che esistono ormai alternative reali che permettono loro di domandare un salario decente in cambio della sottomissione all’economia formale del salariato. Tutti fattori, questi, che esercitano ed eserciteranno una pressione sempre più forte sui livelli di profitto.

La seconda tendenza a lungo termine che minaccia il capitalismo riguarda il costo degli input materiali. Da cosa dipende tale costo? Esso comprende non solo il loro prezzo d’acquisto, ma anche gli oneri legati alla lavorazione dei materiali. Se il prezzo d’acquisto è coperto interamente dall’impresa, che ne trarrà poi eventualmente un profitto, le spese per la lavorazione dei materiali sono invece spesso pagate da terzi. Per esempio, se la trasformazione di una materia prima produce residui tossici, il costo reale comprenderà alla fine anche le spese sostenute per lo smaltimento di tali residui.

Le imprese, ovviamente, cercano di ridurre al minimo il costo di questo tipo di operazione e, a tal fine, possono ad esempio riversare i rifiuti in un corso d’acqua, dopo una sommaria decontaminazione. Tale operazione è definita dagli economisti «esternalizzazione dei costi». Riprendiamo il nostro esempio. Gli agenti inquinanti riversati nel ruscello rischiano di avvelenarne le acque e anche di causare, magari decine di anni dopo, gravi danni. Insomma, benché esternalizzati, i costi rimangono tangibili, anche se sono difficili da valutare.

Per far fronte al problema, la collettività può promuovere un’azione di disinquinamento: in tal caso l’istanza che si fa carico dell’operazione di risanamento - spesso lo stato - ne sosterrà i costi. Il che provocherà un sensibile abbassamento dei costi delle materie prime per alcuni produttori, e di conseguenza un aumento dei loro margini di profitto, a scapito delle collettività, su cui hanno scaricato una parte del costo reale delle loro produzioni.

Ma anche questa logica, come la riduzione dei costi salariali mediante la delocalizzazione, non può funzionare in eterno. A lungo andare, infatti, non ci saranno più corsi d’acqua da inquinare o non si potranno più tagliare alberi senza produrre gravi e immediati rischi per l’equilibrio della biosfera. E questa è precisamente la situazione in cui ci troviamo oggi dopo cinque secoli di pratiche irresponsabili, il che spiega lo sviluppo spettacolare del movimento ecologista in tutto il mondo. Ovviamente i governi potrebbero intraprendere un’immensa campagna di disinquinamento e di rinnovo organico. Ma essa presuppone notevoli spese. Chi se ne farà carico? Le imprese ritenute responsabili dell’inquinamento, o i cittadini? Nella prima ipotesi, i margini di profitto delle imprese interessate si ridurrebbero drasticamente. Nella seconda, si registrerebbe un aumento considerevole della pressione fiscale. E, d’altra parte, disinquinare e rinnovare la biodiversità senza mettere in discussione le attuali pratiche inquinanti equivale più o meno a ripulire le stalle di Augia. Non scorgendo quindi alcuna soluzione plausibile a questo dilemma sociale nell’ambito dell’economia-mondo capitalista, considero che essa costituisca il secondo vincolo strutturale che frena l’accumulazione del capitale. Il terzo riguarda la tassazione. Serve a finanziare i servizi pubblici, e le imprese l’accettano come parte dei costi di produzione, purché non sia troppo alta. Ma quali sono le cause dell’aumento della pressione fiscale? Da una parte, le esigenze di sicurezza (esercito, polizia), che nel corso dei secoli hanno comportato spese sempre più elevate.

Dall’altra, l’istituzione di burocrazie amministrative sempre più estese, create innanzitutto per percepire le imposte, poi per garantire lo svolgimento delle diverse funzioni dello stato moderno. Fra esse, anche lo sviluppo di servizi sociali pubblici, in risposta alle rivendicazioni popolari, che ha in un certo modo assicurato una relativa stabilità politica di fronte al crescente malcontento dei più poveri.

Sorta di tangente pagata per ammansire le «classi pericolose», per contenere cioè la lotta di classe, la risposta a queste rivendicazioni popolari - che noi definiamo «democratizzazione» - costituisce anch’essa una tendenza strutturale degli ultimi secoli. Le principali richieste riguardano l’istruzione, la sanità e la garanzia di un reddito per tutta la durata della vita, in particolare quindi sussidi di disoccupazione e pensioni per i più anziani. Ma, benché tali domande siano state ormai quasi universalmente soddisfatte, il livello di richieste sociali continua ad aumentare in tutti i paesi.

Tutti contro lo stato CiÒ dovrebbe comportare un po’ ovunque un aumento dei tassi d’imposizione fiscale, al punto da costituire un serio ostacolo all’accumulazione di capitale. Ecco perché i capitalisti fanno campagna in favore di una massiccia riduzione delle imposte, e denunciano l’alta pressione fiscale sulle famiglie, cercando di guadagnarsi l’appoggio delle classi popolari. Ma se l’alleggerimento della pressione fiscale è un tema molto popolare, lo stesso non può dirsi per la riduzione delle prestazioni sociali. Questi tre principali vincoli strutturali, risultato di tendenze sempre più accentuate, minano la capacità di accumulazione del capitale.

Una crisi resa ancor più grave dalla perdita di legittimità delle strutture statali. Gli stati hanno infatti un ruolo cruciale nella capacità d’accumulazione capitalistica: essi rendono possibile la formazione di semi-monopoli, uniche fonti di profitti considerevoli.

Contribuiscono anche - reprimendole o comprandole - ad ammansire le «classi pericolose». Sono infine all’origine della maggior parte delle ideologie che infondono nelle masse una relativa pazienza.

Abbiate pazienza, le riforme arriveranno. All’orizzonte si preannuncia un mondo di prosperità e di uguaglianza. Questa la promessa del liberalismo, ideologia dominante da 150 anni a questa parte. Ma anche dei movimenti d’opposizione, ivi compresi quelli che si proclamano rivoluzionari.

Ovviamente, fintanto che i movimenti comunisti, social-democratici o di liberazione nazionale si battevano contro regimi dittatoriali, coloniali o semplicemente conservatori, si guardavano bene dall’invitare le folle alla calma. Ma, una volta raggiunto il potere, durante il periodo 1945-1970 (corrispondente alla fase A del ciclo di Kondratiev), trovandosi con le spalle al muro, si videro costretti a loro volta a chiedere ai popoli di attendere, in vista di un futuro che, ovviamente, sarebbe stato radioso. Ma non se ne è fatto nulla. Nonostante le numerose e necessarie riforme, i movimenti post-rivoluzionari non sono stati in grado di ridurre in maniera significativa la polarizzazione delle ricchezze, né tantomeno di instaurare una reale uguaglianza politica. E, poiché il sistema-mondo è sempre l’economia-mondo capitalista, i regimi posti al di fuori del centro si sono ritrovati nell’impossibilità strutturale di «riagganciare» i paesi ricchi. Questo fallimento storico ha generato un’immensa disaffezione nei confronti dei movimenti contestatari che, se ancora godono di qualche sostegno, è perché costituiscono un «male minore» rispetto a movimenti più a destra e non perché siano realmente latori di un nuovo progetto di società. Ciò ha generato un massiccio disinvestimento nei confronti delle strutture statali. Un po’ ovunque, coloro che un tempo consideravano lo stato una potenza trasformatrice, manifestano ormai un profondo scetticismo rispetto alla sua capacità di promuovere i cambiamenti, o addirittura di difendere l’ordine sociale. Questa ondata mondiale anti-statalista ha due conseguenze immediate.

Innanzitutto, la moltiplicazione delle paure sociali, che spinge gli individui a sottrarre allo stato la sua funzione di garante della sicurezza. Il che genera un circolo vizioso: più la gente si fa carico individualmente della propria difesa, più la violenza diventa caotica e più difficile sarà per lo stato gestire la situazione. Tale dinamica compare nei vari paesi che compongono l’economia-mondo in momenti e secondo ritmi diversi, ma tende ad accelerare quasi ovunque.

Seconda conseguenza: per uno stato delegittimato è molto più difficile ammansire le «classi pericolose» e quindi svolgere quella funzione di garante dei semi-monopoli di cui i capitalisti hanno bisogno.

Mentre questi ultimi devono far fronte ai tre fattori succitati di abbassamento tendenziale del tasso di profitto, gli stati appaiono sempre meno capaci di aiutarli a risolvere questi dilemmi. Di fatto, di questi tempi, gli araldi delle multinazionali all’interno della Banca mondiale danno l’impressione di prestare ai problemi del terzo mondo più attenzione di quanto facciano gli ex militanti di sinistra convertiti ormai alla dottrina dell’«ingerenza» moralizzatrice.

Ecco perché possiamo affermare che l’economia-mondo è ormai entrata nella sua crisi terminale, che potrebbe durare mezzo secolo. Resta da vedere cosa succederà nel corso di questa transizione dall’attuale sistema-mondo verso uno o diversi altri sistemi. Da un punto di vista analitico, la risposta dipende dalla relazione tra i cicli di Kondratiev e la crisi sistemica. Da un punto di vista politico, invece, si tratta di determinare quale tipo di intervento sociale è possibile o auspicabile nel corso di tale transizione. I cicli di Kondratiev fanno parte del funzionamento «normale» dell’economia capitalista, ma non si interrompono quando il sistema entra in crisi.

I diversi meccanismi che definiscono il comportamento del sistema continuano a funzionare. Quando l’attuale fase B si esaurirà, seguirà senz’altro una nuova fase A, che d’altronde è forse già cominciata. Azzardando una metafora, possiamo paragonare il sistema capitalista a una macchina dal motore integro che si avventura su una discesa corrispondente al ciclo di Kondratiev. Questa macchina, come abbiamo visto, è soggetta a tre vincoli, che possono essere paragonati ad altrettanti danni alla carrozzeria o alle ruote. Nella discesa, quindi, la macchina non procederà in linea retta. Peggio ancora: i freni non funzionano perfettamente. Che succederà? Nessuno lo sa. Salvo che, se l’autista accelera, l’auto potrebbe cadere nel burrone. Joseph Schumpeter (1883-1950) (6) ha detto molto tempo fa che il crollo del capitalismo sarebbe stato determinato dai suoi successi più che dai suoi fallimenti. Abbiamo qui voluto indicare in che modo tali successi hanno, alla lunga, limitato in maniera strutturale quella capacità di accumulazione che il capitalismo dovrebbe assicurare in maniera perpetua. Ecco una prova concreta dell’ipotesi schumpeteriana. Riprendendo la metafora dell’automobile danneggiata, potremmo pensare che, in tali condizioni, un automobilista responsabile ridurrebbe la velocità. Ma, purtroppo, nell’economia capitalista non c’è spazio per i guidatori prudenti. Nessun individuo o gruppo ha il potere di prendere le decisioni da solo. Esse sono determinate da un gran numero di attori sociali, ognuno dei quali agisce autonomamente in funzione dei propri interessi immediati. E possiamo star certi che la macchina, invece di rallentare, andrà sempre più veloce, sebbene le curve si facciano via via più frequenti. Nel nuovo periodo d’espansione in cui entra l’economia-mondo, infatti, le condizioni che hanno spinto il capitalismo verso la crisi si aggraveranno.

In termini tecnici, le fluttuazioni diventeranno sempre più caotiche. E, parallelamente, si assisterà ad una vertiginosa regressione dei livelli di sicurezza collettiva e individuale, in relazione alla perdita di legittimità delle strutture statali. Con, come probabile corollario, un conseguente aumento della violenza quotidiana in tutto il mondo.

Si aprirà quindi un periodo di grande confusione politica, in cui avremo l’impressione che le griglie interpretative abituali, concepite per comprendere l’attuale sistema-mondo, siano ormai inadeguate. Il che non sarà necessariamente vero: è solo che le analisi tradizionali si soffermeranno sui fenomeni in via di estinzione dell’attuale sistema-mondo, e non sulla transizione in sé.

Improvvisamente, l’azione politica non avrà più alcuno strumento per modificare in profondità le realtà del momento. In compenso, poiché l’esito della transizione è imprevedibile e le fluttuazioni seguiranno un corso quasi folle, ogni forma di mobilitazione, per quanto piccola essa sia, avrà conseguenze enormi. Ci stiamo avvicinando ad uno di quei pochi periodi storici in cui può veramente entrare in gioco il libero arbitrio.

In questa lunga fase di transizione, assisteremo allo scontro tra due vasti schieramenti: quello di coloro che vorranno conservare, anche in forma diversa, i privilegi assicurati dall’attuale sistema non egualitario; e quello di coloro che auspicano la nascita di un nuovo sistema sostanzialmente più equo e democratico. Ovviamente, i membri del primo schieramento si presenteranno sotto mentite spoglie: si diranno modernizzatori, nuovi democratici, difensori della libertà, progressisti, quando non addirittura rivoluzionari. L’esito dello scontro dipenderà dalla capacità di mobilitazione dei due campi ma anche, in larga misura, dalla capacità di fornire le migliori analisi degli eventi e le alternative più efficaci. Ci troviamo di fronte a un bivio, dove è importante unificare le conoscenze, l’immaginazione e la prassi. L’esito è intrinsecamente incerto e quindi aperto all’azione e alla creatività umana. Il concetto di terzo mondo aveva senso nel quadro politico degli anni 60. Marginalizzato negli anni 80, esso è definitivamente morto negli anni 90. Ma la realtà a cui faceva riferimento è sempre al suo posto, oggi più di ieri. È solo scomparso l’effimero quadro di riferimento in cui tale concetto fu forgiato - la guerra fredda.

Ma il nuovo assetto che l’ha sostituito ha chiarito quali sono le reali poste in gioco: l’incredibile polarizzazione dell’economia-mondo capitalista e la sua crisi strutturale, che ci mettono entrambe di fronte a scelte di portata storica.

note:
* Direttore del centro Fernand-Braudel, Binghamton e ricercatore associato all’Università di Yale, negli Stati uniti. Il suo ultimo libro è L’Utopistique, ou les choix politiques du XXI siècle, Editions de l’Aube, La Tour d’Aigues, 2000. Non è ancora uscito in Italia, dove però sono stati pubblicati Capitalismo storico e realtà capitalistica. Asterios, 2000; Geopolitica e geocultura, Asterios, 1999; Dopo il liberalismo, Jaca Book, 1999. (1) In un articolo pubblicato da France-Observateur intitolato «Tre mondi, un pianeta», Alfred Sauvy parlava di «questo terzo mondo, ignorato, sfruttato, disprezzato [che] aspira, come il terzo stato, a diventare qualcosa». (2) Le Tiers du monde, sous-développement et développement, Puf, Parigi, 1956. (3) Emmannuel-Joseph Sieyès, opuscolo Qu’est-ce que le Tiers Etat? (gennaio 1789). (4) Le Tiers Monde et la gauche, Seuil, Parigi, 1979. (5) Per Nikolai Kondratiev (1892-1938), la storia economica si basa, da due secoli, su alcuni cicli economici lunghi (che durano da cinquanta a sessant’anni), alternati a fasi di crescita legate alle rivoluzioni scientifiche e tecnologiche (A) e fasi di recessione dovute all’eccesso di impianti e capitali (B).

(6) Si legga Benjamin Coriat e Robert Boyer, «Destruction créatrice ou le retour de Schumpeter», Le Monde diplomatique, settembre 1984. Traduzione di S.L.



Pubblicato lunedì 22 Dicembre 2008

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