domenica 12 agosto 2007

Nuovi partiti o nuova politica?

Il partito che non c'è

LUCA RICOLFI

Vogliono rifare la Dc in piccolo. L’Udc, l’Udeur e altre schegge del mondo cattolico da tempo accarezzano l’idea di ricostituire un nuovo partito di centro - la «cosa bianca» - non pregiudizialmente schierato con la destra o la sinistra, ma capace di condizionarle entrambe con almeno il 10% dei voti. Ridotto all’osso il ragionamento è questo. Quindici anni di bipolarismo hanno certificato che le due coalizioni sono troppo eterogenee e troppo ricattabili dai partiti estremi per poter governare. Chi è al potere non riesce ad attuare il suo programma, e chi è all’opposizione rifiuta in blocco quel poco che chi è al governo riesce a fare. Così non si può andare avanti, ma per fortuna una soluzione c’è: costruiamo un partito moderato di centro, che consenta ai partiti non estremisti di entrambi gli schieramenti, e segnatamente a Margherita, Ds e Forza Italia, di liberarsi della zavorra dei partiti estremisti. Per fare questo basta unire le forze e cambiare il sistema elettorale, eliminando il premio di maggioranza, ad esempio attraverso l’adozione di un sistema elettorale come quello tedesco. Una volta soppresso il premio di maggioranza (che di norma rende autosufficiente la coalizione che ha vinto le elezioni), chi vorrà governare dovrà cercarsi degli alleati, e preferirà senz’altro imbarcare i ragionevoli Casini & Mastella piuttosto che tenersi i bizzosi Diliberto & Calderoli. Così, se Dio vuole, l’Italia avrà finalmente un governo degno di questo nome: fine della seconda Repubblica, e amen per gli ingenui che hanno creduto in questo «bipolarismo sgangherato». Questo genere di ragionamento non è completamente campato per aria. Il suo punto forte, a mio parere, sta nel fatto che - almeno nel decennio 1998-2007, ossia dalla caduta del primo governo Prodi a oggi - il cammino delle riforme è stato lentissimo e qualche volta anche retrogrado. In barba alle promesse di stabilità e alternanza, dall’estate del ’98 a oggi l’Italia ha avuto ben sei governi in 9 anni, che spesso hanno stravolto, disfatto o bloccato quello che i precedenti governi avevano tentato di fare. Il risultato netto di questo continuo fare e disfare, riformare e controriformare, non è ovviamente negativo su tutti i fronti, ma certo è molto inferiore anche alle più scettiche previsioni, e comunque è drammaticamente al di sotto del minimo che sarebbe stato necessario per ammodernare l’Italia, rendendola un po’ più simile ai principali Paesi dell’Eurozona. Insomma, quel che convince dei ragionamenti «centristi» è che, se lo scenario che essi ipotizzano - nuova Dc più sistema tedesco - dovesse andare in porto, difficilmente l’Italia potrebbe essere governata peggio che in questi anni. Nonostante le sue buone ragioni, il ragionamento centrista ha tuttavia - almeno ai miei occhi - un fondamentale punto debole. Tutte le ipotesi di «rifondazione democristiana» partono da un postulato tutto da dimostrare e a mio parere sostanzialmente falso, almeno in Italia: il postulato secondo cui più si è moderati e più si è riformisti, meno si è moderati e più si è ostili alle riforme. Se per riforme non intendiamo, semplicemente, senso delle istituzioni e rispetto dell’avversario, ma il coraggio di fare scelte difficili, talora impopolari, in materia di spesa pubblica, mercato del lavoro, grandi opere, federalismo fiscale, liberalizzazioni, pari opportunità, legalità, meritocrazia - insomma tutto quel che serve per rendere il nostro Paese più moderno e più giusto - non possiamo non vedere che questa attitudine politica nulla ha a che fare con l’essere di destra o di sinistra, ma nemmeno con l’essere centristi o estremisti, moderati o radicali. Il nemico numero uno delle riforme scongelatrici del sistema non è il radicalismo in quanto tale ma - semmai - il «partito della spesa» che teme il mercato, detesta il merito e crede che il compito centrale dell’azione politica non sia di far funzionare le istituzioni, eliminare gli sprechi, lasciare l’ossigeno ai produttori di ricchezza ma, tutto al contrario, sia quello di far affluire «risorse» ai propri protetti. Da questo fondamentale punto di vista non c’è grande differenza fra gli estremisti di An o di Rifondazione comunista e i moderati dell’Udc o dell’Udeur. Basta guardare che cosa succede quando un’azienda pubblica non sta più sul mercato (Alitalia), o quando gli statali pretendono più soldi dei dipendenti privati, o quando i forestali della Calabria minacciano disordini di piazza se non verrà loro conservato il posto, o quando i territori (perlopiù del Mezzogiorno) in cui l’Udc e l’Udeur sono più insediate reclamano «risorse». Certo fa piacere sentire, dopo un quinquennio di silenzio, che un partito come l’Udc sia improvvisamente diventato un grande sponsor delle liberalizzazioni. Ma come dimenticare che - quando era al governo - erano ben altre le priorità? Ricordo un’inchiesta di Franco Bechis che, più o meno a due terzi della legislatura scorsa, aveva calcolato che - se accettate - le proposte di legge dell’Udc sarebbero costate alle casse pubbliche la bellezza di 58 miliardi di euro. E come non ricordare che alcune idee imprescindibili di qualsiasi politica di rilancio dell’Italia, dal federalismo fiscale alle grandi liberalizzazioni (la cosiddetta agenda Giavazzi) sono difese innanzitutto da partiti tutt’altro che moderati, come la Lega e i Radicali? Per farla breve, io temo che da questo fondamentale punto di vista - l’attitudine a sperperare denaro pubblico e la connessa disattenzione per i ceti produttivi - non faccia nessuna vera differenza essere governati da post-comunisti, ex fascisti, o neo-democristiani. Se di qualcosa di nuovo ha bisogno l’Italia, non è di una nuova Dc, ma nemmeno di operazioni (per ora) puramente cosmetiche come il nascente Partito democratico (Ds più Margherita) o la probabile «risposta» del nascituro Partito della libertà (Forza Italia più An). Il primo guaio dell’Italia non è il potere di veto dei partiti estremisti, ma è la mancanza di chiarezza e di coraggio dei grandi partiti che hanno la responsabilità di guidare il Paese. Se i governi di questi anni sono stati deboli e incapaci di fare quel che andava fatto non è solo per colpa delle cosiddette «ali» dei due schieramenti, ossia dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, ma perché i partiti-guida hanno abdicato al loro compito e non hanno voluto prendersi i propri rischi. In questi lunghi anni il riformismo è stato la parola d’ordine di tutti i governi, ma a credere in una vera svolta, in una rinascita anti-assistenziale dell’Italia, sono stati in pochi, in entrambi gli schieramenti. Sia a destra che a sinistra il partito della spesa è più forte del partito del mercato, sia a destra che a sinistra il merito e la responsabilità individuale non contano, sia a destra che a sinistra l’imperativo categorico non è fare le riforme ma impedire agli altri di governare, o di tornare al governo. Ma questi, ahimè, non sono problemi che si risolvono con un nuovo sistema elettorale, né con un nuovo partito: ci vuole un’altra mentalità politica, e probabilmente una nuova classe dirigente. E se proprio si vuole affrontarli con un nuovo partito, è curioso che si pensi di farlo con un partito moderato, clientelare, familista, erede della tradizione cattolica. La Dc, con il valido aiuto dei suoi alleati laici e moderati e la parziale connivenza dell’opposizione comunista, ha portato al collasso i conti pubblici dell’Italia, lasciando alla vituperata seconda Repubblica l’immane compito di riparare i guai della prima. Difficile pensare che siano proprio gli eredi di quel partito a riportarci fuori da quei guai. Come molti italiani, neanch’io credo che il nostro Paese abbia bisogno di un ennesimo partito. Ma se c’è un partito che manca, nel firmamento della politica italiana, non è il partito dei moderati ma, semmai, il partito della responsabilità e del merito. Un partito che non c’è, che probabilmente non ci sarà mai, ma che - se ci fosse - sarebbe radicale. Molto radicale.
da: www.lastampa.it

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