sabato 11 agosto 2007

Fondamentalismo religioso e tolleranza liberale

Slavoj Zizek: Il credo della passione decaffeinata

il manifesto, 28 febbraio 2004 -
Le credenziali di coloro che, ancor prima della sua uscita, criticano violentemente il nuovo film di Mel Gibson sulle ultime dodici ore della vita di Cristo appaiono impeccabili: non è forse pienamente giustificata la loro preoccupazione che il film, realizzato da un fanatico tradizionalista cattolico con impeti occasionali di antisemitismo, possa innescare sentimenti antisemiti? Più in generale, La passione di Cristo non è una sorta di manifesto dei nostri fondamentalisti e anti-secolaristi (occidentali, cristiani)? Rigettarlo non è dunque dovere di ogni secolarista occidentale? Un attacco così privo di ambiguità non è sine qua non, se vogliamo dimostrare di non essere segretamente dei razzisti che attaccano solo il fondamentalismo di altre culture (islamiche)? La reazione del papa al film è nota: profondamente commosso, ha mormorato: «È proprio come avvenne in realtà!», ma questa affermazione è stata subito ritrattata dai portavoce ufficiali del Vaticano. Così la sua reazione spontanea è stata velocemente sostituita dalla posizione neutra «ufficiale», emendata in modo da non ferire nessuno. Questo spostamento è la migliore esemplificazione di cosa c'è che non va nella tolleranza liberale, con la sua paura politicamente corretta che possa essere ferita la sensibilità religiosa di chicchessia: anche se nella Bibbia si dice che una folla di ebrei chiese la morte di Cristo, non si dovrebbe rappresentare direttamente questa scena, ma sdrammatizzarla e contestualizzarla per chiarire che gli ebrei non possono essere ritenuti responsabili collettivamente per la crocifissione. In tal modo l'aggressiva passione religiosa è semplicemente repressa: essa resta lì, cova sotto la superficie e, non trovando espressione, diventa sempre più forte. È questo lo scenario di fondo che dobbiamo tenere presente nel considerare La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci, questa appassionata difesa dell'Occidente contro la minaccia musulmana, questa aperta affermazione della superiorità dell'Occidente, questa denigrazione dell'Islam non in quanto cultura diversa, ma in quanto barbarie (per cui non saremmo nemmeno in presenza di uno scontro tra civiltà, bensì tra la nostra civiltà e la barbarie musulmana). Il libro è, in senso stretto, l'opposto della tolleranza politicamente corretta: la sua appassionata vitalità è la verità della tolleranza esanime del politicamente corretto. Dentro questo orizzonte, l'unica risposta appassionata alla passione fondamentalista è un secolarismo aggressivo del tipo esibito recentemente dal governo francese, che ha proibito di indossare nelle scuole tutti i simboli e gli indumenti religiosi più evidenti (non solo i veli per le musulmane, ma anche i copricapo ebraici e le croci cristiane troppo vistose). Non è difficile prevedere l'effetto finale di questa disposizione: esclusi dallo spazio pubblico, i musulmani saranno spinti direttamente a costituirsi in comunità fondamentaliste non integrate... Lacan aveva ragione quando sottolineava il collegamento tra la regola della fraternité post-rivoluzionaria e la logica della segregazione. Forse il divieto di abbracciare un credo con totale passione spiega perché, oggi, la cultura stia emergendo come la categoria centrale della vita e del mondo. La religione è permessa non come un modo di vivere sostanziale, ma come una particolare «cultura» o, piuttosto, un fenomeno riguardante gli stili di vita: ciò che la legittima non è la sua pretesa di verità immanente, ma il modo in cui essa ci permette di esprimere i nostri sentimenti e atteggiamenti più riposti. Noi non crediamo più veramente; semplicemente, seguiamo (alcuni) rituali e usi religiosi per rispetto allo «stile di vita» della comunità a cui apparteniamo (pensiamo al proverbiale ebreo non credente che segue le regole kosher «per rispetto della tradizione»). Cos'è uno stile di vita culturale se non il fatto che, anche se non crediamo in Babbo Natale, a dicembre c'è un albero di Natale in ogni casa e anche nei luoghi pubblici? Forse, allora, «cultura» è il nome che diamo a tutte quelle cose che pratichiamo senza crederci veramente, senza «prenderle sul serio». Non è questo anche il motivo per cui la scienza - fin troppo reale - non rientra in questa nozione di cultura? E non è questo anche il motivo per cui liquidiamo i credenti fondamentalisti - che osano prendere sul serio il loro credo - come «barbari», come anti-culturali, come una minaccia alla cultura? Oggi, in ultima analisi, percepiamo come minaccia alla cultura coloro che vivono la loro cultura immediatamente, che non si distanziano da essa. Ricordate l'indignazione quando, tre anni fa, le forze talebane in Afghanistan fecero esplodere le antiche statue dei Buddha a Bamiyan? Sebbene nessuno di noi, occidentali illuminati, creda nella divinità del Buddha, ci ha indignato che i musulmani talebani non dimostrassero il rispetto dovuto all'«eredità culturale» del loro paese e dell'umanità intera. Invece di credere attraverso l'altro come tutte le persone di cultura, essi credevano veramente nella loro religione e dunque non erano molto sensibili al valore culturale dei monumenti di altre religioni. Per loro, le statue del Buddha erano solo dei falsi idoli, non «tesori della cultura». (E, incidentalmente, questa indignazione non è la stessa dell'antisemita illuminato di oggi che, sebbene non creda nella divinità di Cristo, nondimeno rimprovera agli ebrei di avere ucciso nostro Signore Gesù? O la stessa del tipico ebreo secolarizzato che, pur non credendo in Geova e Mosè come suo profeta, nondimeno pensa che gli ebrei abbiano un diritto divino alla terra di Israele?) Questo è il motivo per cui, oggi, una simile passione è politicamente scorretta: tutto sembra permesso, ma in realtà i divieti sono meramente spostati. Pensate all'impasse odierna sulla sessualità o sull'arte: esiste niente di più noioso, opportunistico e sterile che soccombere all'ingiunzione del super-io di inventare incessantemente nuove trasgressioni e provocazioni artistiche (l'attore che si masturba sul palcoscenico o si provoca masochisticamente dei tagli, lo scultore che espone cadaveri di animali in putrefazione o escrementi umani), o all'ingiunzione analoga di misurarsi in forme di sessualità sempre più «audaci»? In alcuni circoli «radicali» negli Stati uniti, recentemente è stata avanzata la proposta di «ripensare» i diritti dei necrofili (coloro che desiderano avere rapporti sessuali con corpi morti). Perché dovrebbero esserne privati? Così è stata formulata l'idea che, così come si firma per autorizzare l'espianto di organi a fini medici in caso di morte improvvisa, si possa anche firmare per consentire che il proprio corpo sia messo a disposizione dei necrofili. Tale posizione realizza la vecchia intuizione di Kierkegaard su come l'unico vicino buono sia il vicino morto: un vicino morto - un cadavere - è il partner sessuale ideale di un soggetto «tollerante» che cerca di evitare qualunque molestia. Per definizione, un cadavere non può essere molestato. Oggi sul mercato troviamo tutta una serie di prodotti che sono stati privati delle loro proprietà dannose: caffè senza caffeina, panna senza grassi, birra senza alcool... E l'elenco continua. Che dire del sesso virtuale come sesso senza sesso, della dottrina di Colin Powell della guerra senza vittime (dalla nostra parte, naturalmente) come guerra senza guerra, della ridefinizione contemporanea della politica in quanto arte del governo tecnico come politica senza politica, fino al credo decaffeinato - un credo che non ferisce nessuno e non impegna pienamente nemmeno noi stessi? Ecco due temi che determinano l'atteggiamento tollerante e liberale di oggi nei confronti degli Altri: il rispetto dell'alterità, l'apertura verso di essa, e la paura ossessiva della molestia. In breve, l'Altro va bene nella misura in cui la sua presenza non è intrusiva, nella misura in cui l'Altro non è veramente Altro. Ciò che sta emergendo sempre di più come il diritto umano fondamentale nella società tardocapitalistica è il diritto di non essere molestati, cioè di poter restare a distanza di sicurezza dagli altri. Una struttura simile è chiaramente presente nel modo in cui ci relazioniamo con l'arricchimento capitalistico: va bene purché sia controbilanciato da attività caritatevoli. Prima si accumulano miliardi, poi li si restituisce (parzialmente) ai bisognosi. E lo stesso è per la guerra, per la logica emergente del militarismo umanitario o pacifista: la guerra va bene in quanto serve veramente a portare pace, democrazia, o a creare le condizioni per distribuire gli aiuti umanitari. Ciò significa che, contro la falsa tolleranza del multiculturalismo liberale, dobbiamo tornare al fondamentalismo religioso? La stessa critica al film di Gibson rende evidente l'impossibilità di tale soluzione. Inizialmente Gibson voleva girare il film in latino e aramaico e proiettarlo senza sottotitoli; sotto la pressione dei distributori, ha poi deciso di prevedere i sottotitoli in inglese (o in altre lingue). Questo compromesso da parte sua non è però una semplice concessione alle pressioni commerciali; rispettare il programma originale avrebbe reso piuttosto evidente la natura auto-confutante del progetto di Gibson. Vale a dire, immaginiamo il film senza sottotitoli proiettato nel grande centro commerciale di un sobborgo americano: la voluta fedeltà all'originale si sarebbe trasformata nel suo opposto, in uno spettacolo esotico e incomprensibile. Ma c'è una terza posizione, oltre il fondamentalismo religioso e la tolleranza liberale. Torniamo alla distinzione «politicamente corretta» tra il fondamentalismo islamico e l'Islam: Bush e Blair (e anche Sharon) non dimenticano mai di elogiare l'Islam come una grande religione di amore e tolleranza che nulla ha a che fare con gli orribili attentati terroristici. Così come questa distinzione tra Islam buono e terrorismo islamico cattivo è un falso, bisognerebbe problematizzare anche la tipica distinzione radicale-liberale tra ebrei e stato di Israele o sionismo, cioè il tentativo di allargare lo spazio in cui gli ebrei e i cittadini ebrei di Israele potranno criticare la politica dello stato di Israele e l'ideologia sionista non solo senza essere accusati di antisemitismo ma anzi basando la loro critica sul loro appassionato attaccamento all'ebraismo, su ciò che essi ritengono vada salvato dell'eredità ebraica. Ma questo è sufficiente? Marx ha detto a proposito del petit-bourgeois che egli vede in ogni oggetto due aspetti, il buono e il cattivo, e cerca di tenere il buono e combattere il cattivo. Bisognerebbe evitare lo stesso errore nel trattare il giudaismo: il «buon» giudaismo levinasiano della giustizia, del rispetto e della responsabilità nei confronti dell'altro ecc., contro la «cattiva» tradizione di Geova, i suoi accessi vendicativi e la violenza genocida contro il popolo vicino. Bisognerebbe avere il coraggio di trasferire il divario, la tensione, nel cuore stesso del giudaismo: non è più questione di difendere la purezza della tradizione ebraica della giustizia e dell'amore per il vicino contro l'asserzione aggressiva sionista dello stato-nazione. Allo stesso modo, invece di celebrare la grandezza del vero Islam contro il suo uso sbagliato da parte dei terroristi fondamentalisti o deplorare il fatto che, di tutte le grandi religioni, l'Islam sia quella che più resiste alla modernizzazione, bisognerebbe piuttosto vedere questa resistenza come una chance: essa non porta necessariamente al fascismo islamico, ma può anche articolarsi in un progetto socialista. Precisamente perché ospita le peggiori potenzialità di una risposta fascista alla nostra situazione presente, l'Islam può anche rivelarsi come il luogo delle potenzialità migliori. Invece di cercare di redimere il nucleo puramente etico di una religione contro le sue strumentalizzazioni politiche, bisognerebbe criticare implacabilmente questo stesso nucleo - in tutte le religioni. Oggi che le religioni stesse (dalla spiritualità New Age al facile edonismo spiritualista del Dalai Lama) sono più che pronte a servire la ricerca postmoderna del piacere, paradossalmente, solo un materialismo coerente è in grado di sostenere una posizione etica militante veramente ascetica.
Traduzione Marina Impallomeni

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