lunedì 2 giugno 2008

Chiediamo l'impossibile, chiediamo il comunismo

Chiediamo l'impossibile
di Slavoj Zizek da Internazionale del 23/29 maggio 2008

Una delle scritte più famose apparse sui muri di Parigi nel 1968 era: "Le strutture non sfilano per strada!". Voleva dire che non si potevano spiegare le grandi manifestazioni di studenti e operai del '68 in termini strutturalisti, cioè come eventi determinati dai cambiamenti strutturali della società. Secondo Jacques Lacan, invece, nel 1968 successe proprio questo: le strutture scesero per strada. Quell'esplosione di avvenimenti sotto gli occhi di tutti fu in definitiva il risultato di uno squilibrio strutturale: il passaggio da una forma di dominio a un'altra. Ovvero, in termini lacaniani, il passaggio dal discorso del padrone al discorso dell'università.
E' uno scetticismo giustificato, come hanno osservato Luc Boltanski ed Eve Chiapello nel loro "Le nouvel esprit du capitalisme", dagli anni settanta in poi si è gradualmente affermata una nuova forma di capitalismo, che ha abbandonato la struttura gerarchica fordista del processo di produzione per sviluppare una forma di organizzazione a rete, basata sull'iniziativa dei dipendenti e l'autonomia sul posto di lavoro. Invece di una catena di comando centralizzata, abbiamo delle reti con una moltitudine di partecipanti che organizzano il lavoro in equipe o seguendo un progetto, attenti alla soddisfazione del cliente, al benessere del pubblico, all'ambiente eccetera. In questo modo il capitalismo ha perfino usurpato la retorica dell'autogestione operaia cara all'estrema sinistra e l'ha trasformata da slogan anticapitalista in motto capitalista: il socialismo è stato liquidato come un'ideologia conservatrice, gerarchica, burocratica. La vera rivoluzione è quella del capitalismo digitale. Ciò che è sopravvissuto della liberazione sessuale degli anni sessanta è l'edonismo tollerante facilmente inglobato nella nostra ideologia dominante. Oggi il piacere sessuale non solo è permesso, ma è stabilito per decreto: chi non è capace di godere si sente in colpa. La voglia di provare delle forme radicali di piacere (attraverso nuove esperienze sessuali, droghe o altri modi di cadere in trance) è apparsa in un preciso momento politico: quando "lo spirito del '68" ha esaurito il suo potenziale politico. In quel momento critico (a metà degli anni settanta), l'unica scelta che restava era una spinta diretta e brutale verso il reale, che assunse tre forme principali: la ricerca di un piacere sessuale estremo, l'attenzione per la realtà di un'esperienza interiore (il misticismo orientale) e, infine, il terrorismo politico di sinistra (la Raf in Germania, le Brigate rosse in Italia, eccetera). La scommessa del terrorismo politico di sinistra era questa: quando le masse sono totalmente sprofondate nel sonno ideologico capitalista, la critica tradizionale dell'ideologia non è più efficace e solo il ricorso alla cruda realtà della violenza diretta - l'action directe - può risvegliarle. L'elemento comune a queste tre scelte è il ritiro dall'impegno socio-politico concreto e il tentativo di entrare in contatto diretto con il reale. Ricordiamo la sfida di Lacan agli studenti che protestavano: "Come rivoluzionari, siete degli isterici che vogliono un nuovo padrone. E lo avrete". E oggi lo abbiamo davvero: un padrone postmoderno, permissivo, il cui dominio è ancora più forte perchè meno evidente. Anche se questo passaggio è stato accompagnato da molti cambiamenti positivi (come le nuove libertà e l'accesso delle donne a posizioni di potere), bisognerebbe comunque insistere sulla domanda più difficile: il passaggio da uno spirito del capitalismo all'altro fu davvero tutto quello che successe nel '68? E tutta quella sbronza entusiasmante di libertà fu davvero solo un mezzo per sostituire una forma di dominio con un'altra?
Molti segnali indicano che le cose non sono così semplici. Se guardiamo alla nostra situazione con gli occhi del '68, dovremmo ricordare la vera eredità di quell'anno: l'essenza del '68 fu un rifiuto netto del sistema capitalista liberale nel suo complesso. E' facile fare dell'ironia sull'idea della fine della storia teorizzata da Francis Fukuyama, ma oggi la maggioranza delle persone è fukuyamista: il capitalismo liberal-democratico ci fa credere di aver finalmente scoperto la formula della migliore società possibile, e tutto quello che si può fare è renderla più giusta e tollerante. La domanda che dovremmo farci davvero oggi è: accettiamo questa naturalizzazione del capitalismo, o il capitalismo globale contiene degli antagonismi abbastanza forti da impedire al sistema di riprodursi all'infinito? Questi antagonismi sono almeno quattro: la minaccia incombente di una catastrofe ecologica, un'idea della proprietà privata inadeguata a definire la cosiddetta "proprietà intellettuale", le implicazioni etiche e sociali dei nuovi sviluppi tecnico-scientifici (specialmente nella biogenetica) e, infine, le nuove forme di apartheid, i nuovi muri e i nuovi slum. L'11 settembre 2001 sono state colpite le torri gemelle. Dodici anni prima, il 9 novembre 1989, era caduto il muro di Berlino. Quel giorno annunciava "i felici anni novanta", il sogno di Francis Fukuyama della fine della storia, la convinzione che la democrazia liberale in linea di principio avesse vinto, che la ricerca fosse finita, che l'avvento di una comunità mondiale liberale e globale fosse proprio dietro l'angolo, che gli ostacoli a questo lieto fine ultraholliwoodyano fossero meramente empirici e contingenti (semplici sacche di resistenza dove i leader non avevano capito che il loro tempo era finito). L'11 settembre è, invece, il simbolo più importante della fine dei felici anni novanta clintoniani, il simbolo di una nuova era in cui sorgono ovunque nuovi muri, tra Israele e la Cisgiordania, intorno all'Unione europea o alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti.
I primi tre antagonismi riguardano le sfere di quelli che Michael Hardt e Toni Negri chiamano "beni comuni", la sostanza condivisa del nostro essere sociale. La privatizzazione di questi beni comuni è un atto violento a cui bisognerebbe resistere, se necessario, anche con la violenza. Ci sono beni comuni di natura esterna (come il petrolio, le foreste e il nostro stesso habitat naturale) minacciati dall'inquinamento e dallo sfruttamento, beni comuni di natura interna (l'eredità biogenetica del genere umano) e beni comuni della cultura, cioè delle forme direttamente socializzate di capitale "cognitivo", come la lingua, i mezzi di comunicazione, l'istruzione, ma anche le infrastrutture condivise del trasporto pubblico, dell'elettricità, della posta, eccetera. Se non fosse stato impedito il monopolio di Bill Gates, si sarebbe creata una situazione assurda: un singolo individuo avrebbe controllato tutto il software della nostra rete di comunicazione fondamentale. Pian piano ci stiamo rendendo conto delle potenzialità distruttive che potrebbero scatenarsi - fino all'autoannientamento del genere umano - se la logica capitalistica delle enclosures, delle recinzioni di questi beni comuni, riuscirà ad affermarsi liberamente. L'economista Nicholas Stern ha ragione quando afferma che che il cambiamneto del clima è "il più grande fallimento del mercato nella storia dell'umanità". La necessità di creare lo spazio per un'azione politica globale in grado di neutralizzare e incanalare i meccanismi di mercato non rappresenta forse una prospettiva realmente comunista? Il riferimento ai beni comuni giustifica quindi la resurrezione del concetto di comunismo: ci permette di vedere l'attuale recinzione dei beni comuni come un processo di proletarizzazione di tutti quelli che vengono esclusi dalla loro stessa sostanza. In antitesi con l'immagine classica dei proletari che "non hanno nulla da perdere se non le loro catene", rischiamo tutti di perdere tutto: rischiamo di essere ridotti a un vuoto e astratto soggetto cartesiano privo di ogni contenuto sostanziale, spogliati della nostra sostanza simbolica, con la nostra base genetica manipolata, costretti a vegetare in un ambiente invivibile. Questa triplice minaccia al nostro intero essere in un certo senso rende ciascuno di noi un potenziale proletario, e l'unico modo per non diventarlo davvero è agire preventivamente. Il vero retaggio del '68 è racchiuso soprattutto nella formula: "Siamo realisti, chiediamo l'impossibile!".

Nessun commento: