mercoledì 31 dicembre 2008

Dove sono finiti i nostri soldi

La crisi finanziaria ha "bruciato" 2.800 miliardi di dollari. Erano anche i nostri soldi. Bruciati vorrebbe dire svaniti. Ma svaniti non sono. In questo prezioso reportage pubblicato su "Internazionale" e ripreso da Die Zeit, si indaga su dove siano finiti: pare si siano materializzati in case vuote e invendute. Ma guarda. Lo sostenavamo da tempo anche noi pur non essendo fini analisti dell'alta finanza, piuttosto osservatori della bassa speculazione edilizia.

Dove sono finiti i soldi di Kerstin Kholenberg e Wolfang Uchatius

Nel pomeriggio del 31 ottobre, al secondo piano di una villa dipinta di giallo nel centro di Francoforte sul Meno, arriva un fax. Sono cinque pagine: sulla prima c’è l’intestazione della Commerzbank, sull’ultima la irma di Martin Blessing, l’amministratore delegato dell’istituto di credito. Sulle altre spicca una cifra: 8,2 miliardi di euro. è la richiesta della Commerzbank al Sofin, il fondo speciale creato dalla Repubblica Federale Tedesca per soccorrere gli istituti finanziari. Il 17 novembre, alle 9.30, in una sala conferenze nei pressi del parco Englischer Garten di Monaco di Baviera, Axel Wieandt, amministratore delegato della Hypo Real Estate, è collegato con gli analisti bancari di tutto il mondo. Wieandt parla per un’ora della situazione interna della banca: nel terzo trimestre del 2008 la Hypo Real Estate ha perso tre miliardi di dollari. Quanto durerà la crisi? Secondo la Banca d’Inghilterra, gli istituti finanziari di tutto il mondo hanno già perso 2.800 miliardi di dollari. Spesso si sente dire che questi soldi sono “andati in fumo”, “spariti” o “bruciati”. E la distruzione di denaro continua. Quante saranno le perdite? Nessuno lo sa. Ma forse si può già dare una risposta all’interrogativo più interessante: dove sono finiti quei 2.800 miliardi di dollari? In realtà il denaro sparisce raramente. Spesso, invece, cambia proprietario.
In Germania la domanda potrebbe essere rivolta a molte persone: economisti, consulenti patrimoniali, guru della borsa. Ma c’è un uomo che sembra più adatto di altri a rispondere, perché è uno dei pochi che hanno capito cosa sia successo in questi ultimi anni nel mondo dell’economia. Si chiama Max Otte. è appena tornato da Francoforte sul Meno, dove ha tenuto una conferenza. Ma sta già per ripartire: va a Vienna, dove è invitato in tv. In questo momento è molto richiesto.
Otte si è ritagliato un pomeriggio libero tra i numerosi impegni per riceverci nel suo appartamento di Colonia. Si toglie la giacca e allenta il nodo della cravatta. Due anni fa era ancora uno sconosciuto professore di economia dell’università di Worms. All’epoca, se accendeva la tv, vedeva dappertutto colleghi secondo i quali il boom avrebbe retto e i prezzi delle azioni sarebbero saliti ancora. Otte non era d’accordo: era convinto che il mondo stesse andando verso una catastrofe economica. Così scrisse un libro in cui prevedeva il crollo delle borse, il crac delle banche e il rischio di fallimento della General Motors. “Se leggo correttamente i segnali che l’economia mondiale ci lancia, dico che il crollo ci sarà per forza e che avrà conseguenze devastanti”, scriveva Otte. Il suo libro, che s’intitola Der Crash kommt (Arriva il crac), è uscito nella primavera del 2006 e ha venduto bene, ma non è diventato un best seller. Poi è arrivato il crac, e da allora Otte è diventato l’uomo che sapeva tutto. Le vendite del libro hanno già superato le duecentomila copie. E tra poco uscirà anche un’edizione in cinese. Allora, dove sono finiti i soldi? Otte ci pensa su e poi risponde: “Innanzitutto bisogna andare negli Stati Uniti, nei quartieri residenziali alla periferia delle grandi città, e dare un’occhiata alle case”. Per esempio quella di Mantua avenue 70 a Henderson, una cittadina del Nevada. è una villa in cui si respira profumo di Toscana: tegole di terracotta, persiane di legno, una veranda coperta, piccoli pini nel giardino davanti alla casa. Guardando in lontananza si scorgono i casinò di Las Vegas che scintillano al sole. Accanto c’è un’altra villa, poi un’altra e un’altra ancora. Il complesso residenziale si chiama Inspirada.
Qui ci sono centinaia di case pronte per essere abitate ma vuote, ed edifici non ancora initi. Sono allineati lungo decine di strade che si chiamano via delle Arti o viale Palazzo reale. Strade che dovevano portare negli Stati Uniti un pezzetto d’Italia e che invece portano nel deserto. Prima che l’impresa immobiliare Toll Brothers cominciasse a investire qui milioni di dollari, questo appezzamento di terreno era un mucchio di sabbia con qualche cactus. In quest’area ai margini di Las Vegas grande 790 ettari, cioè come 1.400 campi di calcio, sono stati investiti 550 milioni di dollari. E altrettanti ne sono stati spesi per fare le strade, i vialetti e le fognature. La villa dei sogni Un’agente apre la porta della villa al numero 70. Sono dieci anni che lavora per i fratelli Toll. Dieci anni in cui a lei e a Las Vegas è andata bene. Indica il pavimento di marmo: 15mila dollari. Il piano di lavoro di granito: 1.300 dollari. La scala di legno di ciliegio: 3.500 dollari. La Jacuzzi nel bagno: 1.250 dollari. “Mi chiamo Bob Toll”. La voce viene da un televisore del soggiorno. Sull’ampio schermo piatto scorre senza interruzione un video pubblicitario dei fratelli Toll. Clienti soddisfatti raccontano quanto sono felici nella casa dei loro sogni. Ma nessuno li ascolta più. Per questa casa la Toll Brothers chiede 600mila dollari, dice l’agente, ma trattabili: ci si accontenta di recuperare i costi. Eppure non si presenta nessuno. Né in questa strada né altrove. Il denaro dei fratelli Toll è rimasto congelato nelle case. La risposta al primo interrogativo su dove sono finiti i soldi la troviamo qui: in una città fantasma vicino a Las Vegas. In Nevada le case in vendita sono 22mila. In tutti gli Stati Uniti ci sono 4 milioni e 670mila case e appartamenti vuoti che nessuno vuole. Ognuno è costato in media 212mila dollari. In totale fanno 990 miliardi di dollari rimasti murati nelle pareti e nei pavimenti. Per dieci anni le imprese edili statunitensi hanno costruito centri residenziali formati da migliaia di cosiddette Mc- Mansions: villette unifamiliari con cinque camere da letto, scalinata, lampadari a corona e porticati a colonne. Per dieci anni hanno fatto ottimi affari, perché per tutto questo tempo gli statunitensi hanno comprato qualsiasi cosa avesse quattro mura. I soldi li hanno avuti dalle banche.

A questo proposito è bene ricordare che dare e prendere in prestito è la base di ogni sistema inanziario. Il credito è la più antica idea commerciale del capitalismo. Il privato A si fa prestare dalla banca B un importo in denaro che poi restituisce con un’aggiunta: l’interesse. Un buon affare per entrambe le parti. La banca incassa gli interessi e realizza un guadagno. Con il denaro preso in prestito, A può comprare qualcosa che altrimenti non sarebbe alla sua portata, per esempio una casa. L’unica condizione è che A possa restituire il prestito. Donne di servizio e braccianti Negli ultimi anni tutti negli Stati Uniti hanno potuto prendere soldi in prestito: i tassi d’interesse non erano mai stati così bassi. La domanda di case è aumentata e di conseguenza anche i prezzi. E dal momento che i prezzi sono aumentati, gli agenti immobiliari hanno cominciato a rivolgersi a donne di servizio e braccianti che guadagnavano cinque dollari all’ora. E gli hanno detto: se comprate una casa che vale duecentomila dollari e non potete restituire i soldi del mutuo, non fa niente, perché i prezzi stanno salendo e tra cinque anni la vostra casa varrà trecentomila dollari. A quel punto potrete offrirla in garanzia per chiedere un nuovo mutuo e pagare quello vecchio. Niente può andare storto. Così donne di servizio e braccianti sono andati dalle banche, che gli hanno fatto credito. Era un affare in cui tutti ci guadagnavano. Ma a condizione che i prezzi salissero. Ecco perché le imprese hanno costruito sempre più case: un milione e duecentomila all’anno. E, per comprarle, sempre più persone hanno preso dei soldi in prestito. Finché non è successo quello che Robert Shiller, economista dell’università di Yale, ha descritto in termini lapidari: “La colossale offerta di case nuove ha cominciato a saturare il mercato, e i prezzi degli immobili sono scesi precipitosamente”.

All’improvviso milioni di statunitensi non hanno più ottenuto nuovi prestiti per finanziare i loro vecchi mutui ipotecari. E le banche americane si sono rese conto che non avrebbero più rivisto molti dei soldi prestati. Il denaro è rimasto congelato nelle proprietà immobiliari invendibili. E sta nelle tasche degli agenti immobiliari e di quei proprietari che sono riusciti a vendere le loro case prima che i prezzi scendessero. I soldi stanno nelle mani dei fabbricanti di cemento, dei manovratori di escavatrici e dei muratori, che con questi soldi hanno forse comprato automobili giapponesi, frigoriferi tedeschi o giocattoli cinesi per i loro bambini. Ma ora quel denaro manca alle banche americane, non alle finanziarie tedesche, britanniche o svizzere.

Le banche statunitensi si sono fatte fregare da una serie di speculazioni sbagliate. Ma come mai sono stati gli istituti inanziari di tutto il mondo ad accumulare perdite per 2.800 miliardi di dollari? Com’è successo che per via di alcune case che non si riescono a vendere nel deserto del Nevada, la Commerzbank ha bisogno di un’iniezione di capitali di 8,2 miliardi di euro? Banche d’investimento Max Otte aveva detto che per capire come la crisi avrebbe potuto estendersi, occorreva puntare lo sguardo sull’industria inanziaria, un settore formato innanzitutto dalle banche d’investimento: istituti come Goldman Sachs, J.P. Morgan, Morgan Stanley o Lehman Brothers, i cui affari ruotano prevalentemente intorno alle azioni, alle opzioni e ai contratti a termine. In realtà queste banche non fanno niente di diverso dai fabbricanti di telefonini, che costruiscono modelli sempre più soisticati. Allo stesso modo le banche d’investimento cercano continuamente nuovi titoli. Come i produttori di cellulari, vogliono una sola cosa: vendere i loro prodotti. E il prodotto che ha provocato la diffusione della crisi in tutto il mondo si chiama mortgage backed security. Il primo che lo ha venduto è stato Lewis Ranieri, un banchiere di origini italiane che viene da Brooklyn, New York. Sono i giorni della crisi e le file di poltrone nere che ricoprono le ripide gradinate del Piper auditorium dell’università di Harvard sono tutte occupate quando Ranieri sale sul podio. Ha sessant’anni, i capelli e la barba sono diventati grigi. Ma la pancia, in cui in passato – così si racconta a Wall street – riversava quantità smisurate di fast food, è rimasta la stessa. Ranieri è venuto a Harvard per spie sagare come tutto sia partito dalla sua invenzione. Posa davanti a sé il discorso che ha preparato e inspira. Poi però si ferma ed esclama: “Parlerò a braccio”. Pronuncia quelle parole con l’accento aperto dei lavoratori newyorchesi. Perché Ranieri non ha studiato a Harvard né a Stanford né a Princeton. Anzi, non ha studiato per niente. Eppure ha fatto più strada dei banchieri provenienti dalle università d’élite. Nel 1968, quando aveva vent’anni, lavorava come fattorino nella banca d’investimento newyorchese Salomon Brothers. Organizzava la posta interna in modo così efficiente che la banca gli offrì un posto di venditore di titoli. “Era disordinato, spaccone e sfacciato”, ricorda un suo ex collega, “ma aveva il fascino di un uomo che vuole farsi amare”. Nel 1978 Ranieri riuscì a diventare capo della divisione mutui ipotecari, che la Salomon Brothers aveva messo in piedi da poco. All’epoca le banche ipotecarie statunitensi avevano distribuito prestiti in tutto il paese per un valore di 1.200 miliardi di dollari. Il settore dei mutui ipotecari era diventato più grande dell’intero mercato azionario americano. Ma mentre le azioni potevano far guadagnare milioni di persone, nell’affare dei mutui ipotecari le parti erano solo due: il denaro andava dalla banca B al privato A, e poi tornava da A a B. Ranieri cambiò tutto. Rese il mercato dei prestiti ipotecari una specie di colossale borsa dove ognuno poteva comprare in qualsiasi momento delle partecipazioni ai mutui. Ranieri trasformò il prestito che il privato A otteneva dalla banca statunitense B in un titolo che poteva essere rivenduto alla banca tedesca C, alla banca britannica D e alla banca svizzera E. Non solo: pensò di riunire tanti singoli mutui in un grosso pacchetto da cui poter poi tagliare delle fette da rivendere. Queste sono le mortgage backed securities, cioè le obbligazioni garantite da ipoteche.

Da allora solo formalmente chi compra case restituisce il mutuo ipotecario alla banca che lo ha erogato: di fatto il denaro finisce in tasca a chi ha ricomprato i titoli ipotecari. Cioè a banche di tutto il mondo, assicurazioni, fondi d’investimento e clienti dei fondi, che comprando hanno scommesso sul fatto che il maggior numero possibile di persone sia in grado di ripagare i debiti contratti. In teoria è un buon affare per tutti. Chi ha chiesto il mutuo può comprarsi una casa, l’acquirente di titoli incassa gli interessi e la banca ipotecaria non deve aspettare anni prima di rientrare in possesso del denaro che ha prestato. E avendo venduto il credito, può concederne uno nuovo. All’inizio è andato tutto a meraviglia: le mortgage backed securities di Ranieri diventarono campioni di vendite, e nell’affare entrarono altre banche d’investimento. I titoli erano richiestissimi da istituti inanziari e da investitori di tutto il mondo: la tedesca Deutsche Bank, la svizzera Ubs, la francese Crédit Agricole, la britannica Royal Bank of Scotland, il gruppo giapponese Mizuho. A un certo punto negli Stati Uniti la domanda di mortgage backed securities ha superato il valore dei veri e propri mutui ipotecari. Quindi occorreva emetterne di più. Così le banche hanno abbassato i criteri per l’erogazione dei mutui: hanno smesso di chiedere ai clienti la garanzia di un capitale di proprietà e di un buon reddito. Hanno cominciato a interessarsi alle donne delle pulizie e ai braccianti. In fondo, perché mai un disoccupato non doveva comprarsi tre case? Questo tipo di mutui è stato denominato subprime, di seconda scelta.

Negli anni compresi tra il 2000 e il 2005 il loro volume è aumentato di 495 miliardi di dollari, ino a raggiungere i 625 miliardi. Impacchettati insieme ai crediti di prima scelta concessi a clienti solvibili come medici o avvocati, anche i mutui subprime sono stati trasformati in titoli. Nuovi prodotti “All’epoca, quando abbiamo inventato il sistema”, sottolinea Ranieri con rabbia, “comprarsi una casa era una decisione che si prendeva una sola volta nella vita”. Dopo è diventata una scommessa sull’aumento dei prezzi degli immobili. “Ma i prezzi possono scendere, anche se per molto tempo noi non ci abbiamo voluto credere”. Mentre le donne delle pulizie e i braccianti speculavano sul futuro, le banche d’investimento inventavano nuovi prodotti inanziari che nascondevano i rischi colossali di quelle ipoteche. Quello che in condizioni normali si sagare rebbe dovuto chiamare “imbroglio” portava nomi complicati come collateral debt obligations o credit default swaps. Si trattava di titoli privi di qualsiasi fondamento economico, ha scritto Wolfgang Münchau, giornalista del Financial Times. Tranne uno: “Le banche d’investimento che li mettono sul mercato riscuotono enormi provvigioni”. Queste entrate hanno fatto salire i profitti delle banche d’investimento e sono arrivate nelle tasche dei dipendenti degli istituti di credito sotto forma di bonus. Nel 2005 la Goldman Sachs, una dalle più antiche banche d’investimento di Wall street, ha distribuito bonus per dieci miliardi di dollari. Fino a 500mila dollari a testa. La banca non badava a spese: il suo presidente dell’epoca, Henry Paulson, ha intascato 38,3 milioni di dollari. In seguito Paulson è diventato segretario del tesoro degli Stati Uniti. Quindi il denaro che in queste settimane sta cercando così disperatamente è inito anche nelle sue tasche. Il denaro luiva dagli istituti di credito di tutto il mond nelle casse delle banche che erogavano mutui negli Stati Uniti, mentre una forte corrente laterale lo deviava verso le banche d’investimento e i loro manager. Dalle banche ipotecarie andava agli acquirenti di case. E da lì sarebbe tornato indietro agli istituti di tutto il mondo, ai detentori dei titoli di credito. Sempre che i braccianti e le donne delle pulizie riuscissero a saldare i loro debiti. E a condizione che i prezzi delle proprietà immobiliari continuassero ad aumentare. Rettiiche di valore A Francoforte sul Meno, nel cuore del distretto inanziario, c’è un grattacielo che svetta sopra tutti gli altri. Con i suoi 269 metri è il secondo ediicio più alto d’Europa. è una torre di vetro e cemento a sezione triangolare. Di notte gli ultimi piani dell’ediicio brillano di una luce color giallo chiaro, come se fossero dipinti di vernice fosforescente. è il giallo della Commerzbank. La torre ha cinquanta piani e nove giardini artiiciali, dove i dipendenti possono prendere il caffè godendosi la vista della città. Al diciannovesimo piano crescono i bambù, al trentacinquesimo gli ulivi. Quattro piani più su, al trentanovesimo, comincia la divisione bilancio, che si estende ino al quarantaduesimo piano. Qui lavorano trecento persone. Si occupano di cose che non hanno niente a che fare con la missione della banca. Ma attualmente il loro compito è di vitale importanza per la Commerzbank: devono stimare quanto denaro possiede la banca e quanto gliene manca. Più precisamente, devono calcolare quanto vale ancora il patrimonio della Commerzbank: i titoli, le proprietà immobiliari, i crediti esigibili. Le chiamano “rettiiche di valore”. I risultati di questo lavoro vengono trasmessi all’ultimo piano, quello del consiglio d’amministrazione. In particolare, arrivano sulla scrivania di Eric Strutz, il direttore finanziario della Commerzbank. Sul patrimonio della banca nessuno ne sa più di lui. è un uomo robusto, con una stretta di mano ferma. Quando parla, guarda l’interlocutore dritto negli occhi, anche se deve affrontare argomenti scomodi. Come quando afferma: “Un simile sviluppo dei mercati non era prevedibile”.

La Commerzbank ha investito 1,2 miliardi di euro nei titoli legati ai mutui subprime. Buona parte di quei titoli sono ancora in suo possesso, ma non c’è più nessuno che voglia comprarli: per loro non c’è più mercato. La banca, però, deve iscriverli a bilancio al valore attuale di mercato. Insomma, i titoli e i mutui ci sono ancora, ma non valgono niente. I soldi se ne sono andati. Una parte resterà immobilizzata per sempre in case vuote, che vanno lentamente in rovina. Ma un’altra parte probabilmente tornerà, perché non tutti i debitori resteranno insolventi per sempre. Molti statunitensi ce la faranno: lavoreranno di più, spenderanno di meno e salderanno i loro debiti. A quel punto il denaro riprenderà ad afluire nelle tasche dei proprietari delle obbligazioni. A quel punto si troveranno nuovi acquirenti per i titoli, che torneranno ad avere un valore sul mercato. Bisogna solo aspettare che il caos si plachi. Come un piccolo investitore che possiede azioni delle case automobilistiche, precipitate al minimo storico: se è furbo e se lo può permettere, aspetta che la congiuntura migliori. Allora i prezzi delle azioni ricominceranno a salire, e il denaro tornerà. Il problema è che le banche non possono aspettare. “Dobbiamo redigere un rapporto ogni tre mesi e uno annuale”, spiega Strutz. Nel pieno della crisi i governi hanno modiicato alcune norme di bilancio, ma le banche sono ancora obbligate a registrare gran parte dei titoli al prezzo attuale di mercato. E se nel giorno di chiusura del bilancio il prezzo è basso, le perdite sono alte e la banca fallisce. Negli ultimi mesi solo negli Stati Uniti 304 società finanziarie e 22 banche sono state costrette a dichiarare insolvenza. Il caso più clamoroso è stato quello della banca d’investimento Lehman Brothers.

Poco dopo il fallimento dell’istituto statunitense, anche le tre principali banche islandesi sono andate a gambe all’aria, e subito dopo l’intero stato nordeuropeo. E se l’Islanda è quasi in bancarotta, come se la passa l’Italia? E non è a rischio anche la Grecia? E quanto sono solide le inanze della Croazia? Ecco le domande che in questi mesi si pongono gli investitori di tutto il mondo. è così che all’improvviso perdono valore anche i titoli che non hanno niente a che fare con i mutui statunitensi, per esempio i titoli di stato islandesi, italiani o greci. La conseguenza è che i trecento impiegati della divisione bilancio della Commerzbank devono continuamente rettiicare il patrimonio della banca, che si riduce sempre di più. In base alle cifre che i contabili gli consegnano in queste settimane, Eric Strutz può ripercorrere la crisi passo per passo. Rettiiche di valore dovute alla crisi dei mutui subprime da agosto: 144 milioni di euro. Rettifiche dovute al fallimento della Lehman Brothers: 371 milioni di euro. Rettiiche dovute alle difficoltà finanziarie dell’Islanda: 260 milioni di euro. Vapore acqueo Il problema è che ora, per compensare le svalutazioni, le banche di tutto il mondo hanno bisogno urgente di denaro fresco: molto più di quanto ne sia andato perso nella crisi dei mutui. All’improvviso non si tratta più di un paio di centinaia di miliardi di dollari, ma di migliaia di miliardi. La conseguenza è che paradossalmente nelle borse di tutto il mondo si possono guadagnare molti soldi in un colpo solo. Ma come, non abbiamo detto che da mesi le azioni di quasi tutte le imprese stanno perdendo valore? Si parla di 23mila miliardi di dollari bruciati in borsa. Certo, quei soldi sono spariti, ma non sono stati bruciati. Sono evaporati. E in borsa questo fa la differenza, perché il vapore acqueo, quando si raffredda, si trasforma di nuovo in acqua. Questa legge vale anche per il denaro, che torna liquido e quindi torna a scorrere. Solo che a quel punto di solito scorre verso altre tasche. “Andate alla 2IQ”, aveva detto Max Otte, “e chiedete di Silvio Berlusconi”. A Francoforte sul Meno, in un palazzo di prinufici che sorge a un incrocio non lontano dalle torri delle banche, i fratelli Patrick e Robert Hable stanno analizzando i dati relativi ai mercati inanziari. Sono dati speciali, usati per le indagini sul reato di insider trading (l’uso illecito di informazioni privilegiate sulle aziende quotate in borsa). Premendo un tasto, sullo schermo del computer di Patrick Hable compaiono i nomi dei manager che ultimamente hanno comprato azioni delle loro imprese. Sono moltissimi. “I manager approfittano del calo dovuto alla crisi per comprare azioni a poco prezzo”, commenta Hable.

Ci vorrà ancora molto tempo prima che i prezzi delle azioni tornino a crescere in modo costante. Ma quando succederà, gran parte delle migliaia di miliardi che le borse hanno bruciato durante la crisi torneranno indietro. A quel punto, però, i titoli apparterranno a chi ha comprato in questi mesi: manager e ricchi investitori, insomma quelli nelle cui tasche il denaro entrava già negli anni passati. Qualche esempio? Cominciamo da Silvio Berlusconi. A metà ottobre il presidente del consiglio italiano ha comprato azioni Mediaset per circa 16 milioni di euro, quando in borsa il titolo del suo gruppo era al minimo storico. Il finanziere Warren Buffett, l’uomo più ricco del mondo, ha comprato partecipazioni azionarie della General Electric per la cifra irrisoria di 2,1 miliardi di dollari. Il principe saudita al Walid bin Talal ha annunciato l’acquisto di 350 milioni di dollari in azioni della banca statunitense Citibank, istituto che ha già ricevuto dal governo americano nuovi capitali per 20 miliardi di dollari. Uno di quelli che ci guadagnano di più potrebbe essere un signore magro e con gli occhiali senza montatura, che parla a bassa voce e inila spesso un sorrisetto tra una frase e l’altra. Si chiama Gao Xiqing. Su incarico del suo datore di lavoro, la Repubblica Popolare Cinese, nei prossimi mesi Gao Xiqing dovrebbe investire 80 miliardi di dollari in imprese straniere. è il capo della China Investment Corporation (Cic), uno dei più grandi fondi sovrani del mondo. Quasi vent’anni fa, all’inizio dell’estate del 1989, Gao Xiqing partecipò alle manifestazioni in piazza Tiananmen a Pechino. Ma prima ancora che l’esercito uccidesse migliaia di persone, Gao abbandonò la protesta. Era arrivato alla conclusione, racconta, che c’era un mo do migliore per rafforzare la democrazia in Cina: far crescere l’economia del paese. Il governo cinese ha investito nella Cic 200 miliardi di dollari. Con questi soldi Gao Xiqing ha il compito di moltiplicare la ricchezza dello stato. Un anno fa ha comprato per cinque miliardi di dollari un pacchetto di azioni della Mo r g a n Stanley, la seconda banca d’investimento degli Stati Uniti. Ad aprile ha comprato 4,4 miliardi di dollari di azioni della J.C. Flowers, il fondo creato da un ex manager della Goldman Sachs per rilevare a poco prezzo società finanziarie decotte. Poi a settembre è andato negli Stati Uniti e ha nuovamente trattato con il capo della Morgan Stanley: voleva aumentare al 49 per cento la sua partecipazione nella banca. Invece le azioni sono state vendute alla grande banca giapponese Mitsubishi Ufj. Per motivi politici, si dice: gli statunitensi temevano da tempo che la Cic si volesse comprare tutto il paese. Ma Gao Xiqing dà sempre la stessa risposta: il suo compito non è quello di acquisire inluenza politica, “vogliamo solo realizzare proitti”. E Gao ha appena cominciato. Il grande crollo

Al termine della nostra conversazione Max Otte posa sul tavolo un libro intitolato Il grande crollo. Il suo autore, John Kenneth Galbraith – morto nel 2006 a 97 anni –, è considerato uno dei massimi economisti del ventesimo secolo. Nel libro Galbraith spiega come si arrivò alla grande depressione degli anni trenta. Anche all’epoca ci furono banche che fallirono e prezzi azionari in caduta libera. Galbraith fornisce una spiegazione interessante: i ricchi erano diventati troppo ricchi. Negli anni trenta lo 0,1 per cento dei cittadini americani possedeva quasi il 40 per cento della ricchezza complessiva. Di conseguenza, sostiene l’economista, molti non sapevano cosa fare del loro denaro. Così cominciarono a speculare e a cercare nuovi prodotti in cui investire. Oggi negli Stati Uniti la ricchezza non è distribuita in modo così diseguale come allora. Ma da qualche anno certi comportamenti ricordano quelli dei ruggenti anni venti. Ed è scoppiata un’altra grande crisi. I ricchi sono diventati di nuovo troppo ricchi? Proviamo a ribaltare la prospettiva: probabilmente negli Stati Uniti i poveri sono diventati troppo poveri. E non solo loro, non solo i braccianti e le donne delle pulizie, ma anche la classe media. Attualmente negli Stati Uniti il 40 per cento della società possiede solo lo 0,2 per cento della ricchezza complessiva. In questi ultimi anni chi non voleva restare ai margini della società ha avuto una sola scelta: prendere denaro in prestito. Per far studiare i igli, per pagare l’assistenza sanitaria, per comprare una casa. Alla ine molti statunitensi non sono più riusciti a saldare i loro debiti. Per questo ora paga lo stato. I governi di tutti i grandi paesi industrializzati hanno varato dei piani di salvataggio. L’idea è fornire alle banche denaro fresco per compensare almeno in parte le perdite causate dalla crisi inanziaria. In Germania le banche devono spedire un fax o una lettera a una villa intonacata di giallo a Francoforte sul Meno. In Gran Bretagna non devono neanche fare richiesta: i capitali vengono erogati per precauzione. E così siamo arrivati al punto in cui sono gli stati a inanziare a posteriori gli immobili costruiti negli Stati Uniti. Ma anche le provvigioni degli intermediatori immobiliari, i bonus dei manager delle banche d’investimento, i salari dei lavoratori edili. Resta un interrogativo: i governi e gli stati dove prendono il denaro di cui hanno bisogno? La risposta calza a perfezione al modo in cui questa crisi è cominciata. Paesi come la Germania, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si comportano come gli americani che compravano le case: prendono soldi in prestito, fanno debiti. In Germania ci pensa una società, la Bundesrepublik Deutschland Finanzagentur, che è di proprietà dello stato al 100 per cento. Negli ultimi dodici mesi questa società, che ha 330 dipendenti, ha preso 220 miliardi di euro in prestito per conto del governo di Berlino. Il grosso di questo debito è stato contratto solo per poter rimborsare prestiti già esistenti, a cui si sono aggiunti altri 14 miliardi di euro. Come ha ottenuto tutti questi soldi la Finanzagentur? Attraverso la vendita di titoli di stato. La Repubblica Federale Tedesca si impegna a restituire i soldi ai compratori di questi titoli dopo 5, 7 o 10 anni, naturalmente con gli interessi. Tra gli acquirenti ci sono grandi fondi d’investimento giapponesi, statunitensi, di Singapore o dell’est europeo. Ma c’è anche Gisela Schmidt, una pensionata della Bassa Sassonia.
In primavera, prima della crisi, Gisela aveva diecimila euro da investire. I suoi soldi erano rimasti su un libretto di risparmio per anni, inché un consulente della banca non l’ha convinta che era un errore: un libretto di risparmio frutta un interesse quasi nullo. Il consulente voleva venderle nuovi titoli di una banca americana: la Lehman Brothers. Soldi sicuri, diceva: “Dovrebbe assolutamente comprarli”. Ma Gisela Schmidt, 69 anni, vedova, ex segretaria, ha detto no. “Non voglio saperne di queste nuove mode, perché non ci capisco niente”. Poi la Lehman Brothers è fallita, mentre Gisela Schmidt ha comprato una cosa che esiste già da decenni: un buono del tesoro. I suoi diecimila euro, quindi, sono afluiti sul conto della Repubblica Federale Tedesca, presso la Bundesbank. I soldi di Gisela Schmidt contribuiscono a salvare le banche. Anche se lei non lo sospetta neanche. Gisela ha comprato i titoli di stato perché li riteneva un investimento sicuro e perché tra sette anni riavrà i suoi soldi con gli interessi. Il 23 settembre 2015, infatti, la Repubblica Federale Tedesca le verserà 12.431 euro. Gisela fa soldi sui debiti dello stato. “Poi andrà tutto a mio nipote”, dice. “A me basta la pensione”. Suo nipote si chiama Max, ha 14 anni ed è tifoso dell’Amburgo. A lui la crisi inanziaria non interessa. Forse gli interesserà tra sette anni, quando magari avrà già un lavoro, e quando probabilmente il governo sarà costretto ad aumentare le tasse perché i debiti dello stato saranno cresciuti. Allora forse Max capirà che i soldi delle sue tasse sono l’ultimo anello di una lunga catena di movimenti di denaro e che sono già stati spesi da un pezzo. Sull’altra sponda dell’Atlantico, negli Stati Uniti. Perché qualche anno prima a qualcuno era sembrato un buon affare costruire una villa signorile in cui si respirasse aria di Toscana vicino a Las Vegas.

"Internazionale", n. 773

5 commenti:

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Kotic ha detto...

La mia considerazione é molto semplicistica, ma si parla tanto di mancanza di liquidità nel nostro sistema economico, quindi la domando é dove sia finita tutta la liquidità negli ultimi dieci anni ?

La risposta non é razzista, ma é matematica: oggi in Italia ci sono circa 5 milioni di immigrati regolari che giustamente lavorano e percepiscono netti circa mille euro al mese.

Vivono in regime di povertà, ma comunque mandano a casa loro circa 500 euro al mese , per il giusto sostentamento dei loro parenti e famigliari.

Totale = 2,5 miliardi di euro circa che ogni mese drenano l'economia Italiana a favore dei paesi del terzo mondo.

All'anno sono circa 32,5 miliardi di euro che lasciano il territorio nazionale senza più fare ritorno e vanno ad alimentare le economie del terzo mondo.

A questi bisogna aggiungere i furboni capitalisti che terzializzando le produzioni di manufatti semplici a paesi terzomondisti, per via dei facili guadagni generati dai bassissimi costi di produzione (vedi scarpe, magliette, ...) ed importandoli in Europa hanno altresì elevato alla decima potenza il drenaggio della liquidità, così anche negli USA.

Certo che costa meno produrre in Cina, ma allo sfascio dell'economia mondiale.

Provate voi ad aprire una azienda in Cina se vi autorizzano a farlo...proprio no.

Anonimo ha detto...

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